Contenzioso

Legittimo il licenziamento del lavoratore che simuli la malattia o ne pregiudichi la guarigione

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di Roberta Di Vieto e Marco Di Liberto

Il licenziamento per giusta causa originato da una malattia simulata non perde attualità e torna al centro di una recente pronuncia della Suprema Corte, che ha stigmatizzato condotte censurabili e contrarie ai più basilari doveri del lavoratore.

In particolare, la Suprema Corte, Sezione Lavoro, con sentenza n. 7641/2019, si è nuovamente soffermata su una fattispecie, purtroppo non infrequente nel mondo del lavoro, che ha avuto come protagonista un lavoratore, il quale, durante la propria assenza dal servizio per infortunio, ha svolto altra attività lavorativa ed è stato licenziato per giusta causa all'esito del procedimento disciplinare.

La sentenza in commento ha riaffermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia o di infortunio, configura una grave violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà e dei doveri generali di correttezza e buona fede, e legittima l'irrogazione della sanzione espulsiva allorché venga accertato che la malattia è simulata, ovvero che i comportamenti del lavoratore ne hanno pregiudicato o ritardato la guarigione clinica.

La pronuncia in esame trae origine dalla controversia promossa da un lavoratore che, durante l'assenza dal lavoro per infortunio, aveva svolto attività lavorative consistite nella guida di automezzi e di carico e scarico merci, circostanze che la società aveva appreso avvalendosi di un'agenzia di investigazioni, prima di avviare il procedimento disciplinare esitato nel licenziamento per giusta causa.

Nel corso del giudizio di impugnazione del recesso svoltosi dinnanzi al Tribunale del Lavoro di Napoli, il Giudice aveva effettuato un'accurata istruttoria, acquisendo puntuali deposizioni testimoniali e ricorrendo ad una CTU medico-legale, con cui era stata accertata la potenzialità dannosa del comportamento del lavoratore, essendo emerso che le attività svolte da quest'ultimo durante l'assenza dal lavoro avevano ritardato la guarigione dall'infortunio, giustificando il recesso.

Anche all'esito del giudizio di appello svoltosi dinnanzi alla Corte partenopea era stata confermata sia la legittimità delle indagini svolte dall'agenzia investigativa, sia la decisività della consulenza tecnica di ufficio, che aveva accertato come il comportamento del lavoratore durante l'assenza dal servizio fosse idoneo a ritardarne la guarigione clinica, pertanto il licenziamento era stato nuovamente ritenuto legittimo.

Insoddisfatto dei due precedenti gradi di giudizio che lo avevano visto soccombente, il lavoratore ha adito la Suprema Corte, lamentando che nei precedenti gradi di giudizio i Giudici si fossero soffermati solamente sulla potenzialità lesiva della propria condotta, senza aver accertato in concreto se sussistesse un effettivo nesso di causalità tra le condotte e l'aggravamento del proprio stato di salute, circostanze da escludersi, secondo il ricorrente, viste le risultanze della relazione medico-legale da egli prodotta in giudizio.

La Suprema Corte, disattendendo tutti i motivi di ricorso, ha ritenuto infondate le doglianze del lavoratore, ribadendo il proprio granitico orientamento (espresso a più riprese da Cass. 26496/2018, Cass. 10416/2017, Cass. 18507/2016, Cass. 17625/2014, oltre che da numerosi fori di merito), secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del lavoratore durante l'assenza dal lavoro per malattia - o infortunio - configura una grave violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, sia nel caso in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, sia laddove la suddetta attività extra lavorativa, valutata con giudizio ex ante in ragione della natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicarne o ritardarne la guarigione ed il rientro in servizio.

La Suprema Corte ha in tal senso argomentato come la CTU medico-legale espletata in primo grado avesse concretamente provato l'esistenza del nesso causale tra le attività extra lavorative svolte dal lavoratore ed il successivo ritardo nella guarigione clinica, e non già la mera potenzialità lesiva infondatamente lamentata dal ricorrente, e non ha ravvisato criticità nemmeno in relazione alle attività investigative con cui erano stati accerti i fatti, riconfermando quindi come tale strumento di investigazione sia pienamente lecito ed utilizzabile in casi come questi.

Pertanto, anche nel caso in esame i Giudici di legittimità si sono soffermati sull'antigiuridicità insita in simili condotte, che si pongono in contrasto con i basilari principi di correttezza, diligenza e buona fede sottesi al rapporto di lavoro, specie laddove l'incompatibilità tra le condotte del lavoratore e lo stato di malattia sia rilevabile ex ante, ossia già al momento in cui tali condotte si verificano e vengono valutate dal datore di lavoro, alla luce della natura della patologia e delle mansioni svolte.

La sentenza in commento offre altresì l'occasione per ricordare come alcuni comportamenti particolarmente disinvolti, posti in essere da lavoratori - anche al di fuori delle fasce di reperibilità - per simulare "pseudo-malattie", ovvero che ne ritardino la guarigione clinica, possono configurare un reato, come ha recentemente riaffermato la Corte di Cassazione, Sezione Penale: in un caso analogo a quello di cui trattasi, un lavoratore è stato ritenuto responsabile per aver conseguito indebitamente l'indennità di malattia da parte dell'INPS e per aver pertanto commesso il reato di truffa aggravata ai sensi dell'art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen., subendo una condanna ad una pena detentiva e pecuniaria, analogamente a quanto occorso in altri casi analoghi (Cass. 17 ottobre 2018, n. 47286, conf. Cass. Pen. n. 6843 del 04/12/1997, Cass. Pen. n. 2286 del 19/03/1999).

La sentenza in commento, quindi, nel riaffermare che simili condotte sono punibili con la massima sanzione espulsiva e possono configurare un reato nei casi più gravi, riveste indubbio interesse, poiché evidenzia come simili fenomeni elusivi siano tutt'altro che infrequenti, ed arrechino pregiudizi non solo al datore di lavoro, ma anche agli enti previdenziali, tenuti ad erogare indennità di malattia o di infortunio in realtà non dovute e talvolta non facilmente ripetibili, con ogni conseguente danno alla collettività.

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