Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mansioni compatibili con la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore

Invenzioni del lavoratore, diritto al compenso e richiesta di brevetto

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L'accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto

Licenziamento per giusta causa

Mansioni compatibili con la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore

Cass., sez. Lav., 24 marzo 2015, n. 5880

Pres. Macioce; Rel. Patti; Ric. Coop. L.; Controric. R.L.

Lavoro - Lavoro subordinato - Sopravvenuta infermità permanente - Lavoratore invalido - Obbligo del datore di lavoro di reperire mansioni compatibili con le condizioni sanitarie del lavoratore - Sussistenza - Limiti

Qualora si realizzi, per sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, una parziale impossibilità della sua prestazione come fino ad allora svolta, il datore di lavoro è tenuto ad impiegarlo in una diversa attività utilizzabile nell'impresa, secondo il suo assetto organizzativo: non essendo tenuto a modificarlo, ma tuttavia obbligato ad assegnare all'invalido mansioni compatibili con la natura e il grado delle sue menomazioni e a reperire, nell'ambito della struttura aziendale, il posto di lavoro più adatto alle condizioni di salute di tale lavoratore.

Nota

La sentenza in commento prende spunto dal caso di una lavoratrice dipendente di una società cooperativa che, per ragioni di salute, aveva impugnato il proprio trasferimento dal punto vendita sito in La Spezia, cui era addetta al reparto ortofrutta, alla sede di Sestri Levante, con mansioni ausiliarie di vendita, in prevalenza alla cassa.

Il Tribunale del Lavoro respingeva il ricorso promosso dalla dipendente per ottenere l'accertamento dell'illegittimità del proprio trasferimento. La Corte d'Appello di Genova, successivamente adita dalla lavoratrice, in riforma della sentenza di primo grado, con sentenza non definitiva del luglio 2007, dichiarava illegittimo il suddetto trasferimento, condannando la società datrice alla ricollocazione della dipendente presso la sede di lavoro originaria in mansioni compatibili con le sue condizioni di salute e al risarcimento del danno per spese di trasporto e per vitto per ogni giorno di effettivo lavoro a Sestri Levante, oltre interessi legali dalla domanda; rimettendo, con separata ordinanza, la causa in istruttoria per le altre domande risarcitorie.

La Corte Territoriale aveva ritenuto, infatti, illegittimo il trasferimento in questione per mancanza di prova, a carico della società datrice di lavoro, dell'impossibilità di impiego della lavoratrice in mansioni presso la sede di origine compatibili con il suo stato di salute (alterazioni osteoarticolari impedienti il sollevamento di carichi di peso superiore a qualche chilogrammo od operazioni di prensione con sforzo della mano sinistra), essendo anzi risultata dalla prova orale esperita la possibilità di utilizzazione della dipendente in mansioni esclusive di cassiera anche ivi e non necessariamente presso l'altra sede in cui era stato disposto il trasferimento.

Sulla scorta della C.t.u. medico-legale esperita nel successivo corso del giudizio, che accertava l'aggravamento del disturbo depressivo, da cui la lavoratrice era già affetta, per il trasferimento subìto, la stessa Corte, con sentenza definitiva del maggio 2010, condannava la società cooperativa al pagamento, in favore della lavoratrice a titolo risarcitorio da perdita economica per assenza per malattia imputabile alla datrice, della somma di Euro 6.921,88 (pari alle retribuzioni non percepite nel periodo, inferiore alla durata dell'aspettativa non retribuita determinata dal C.t.u.), oltre rivalutazione e interessi, nonchè alla rifusione delle spese dei due gradi di giudizio e al pagamento delle spese di C.t.u.

La società ricorreva per Cassazione, lamentando la non corretta applicazione delle disposizioni e non adeguata motivazione, in materia di trasferimento della lavoratrice parzialmente inidonea alla prestazione lavorativa ed alla conseguente possibilità di sua ricollocazione aziendale e di allocazione del relativo onere probatorio.

La Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi di impugnazione della società, osservando che, una volta accertata la condizione, neppure oggetto di contestazione tra le parti, di menomazione della dipendente (alterazioni osteoarticolari impedienti il sollevamento di carichi di peso superiore a qualche chilogrammo od operazioni di prensione "a pinza" con sforzo della mano sinistra sulla base di apposita certificazione medica), la Corte Territoriale aveva esattamente applicato i principi regolanti la materia, dandone critico e argomentato conto, aderente alle scrutinate risultanze istruttorie e con motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua, coerente con la domanda e la prospettazione della lavoratrice ricorrente.

La Corte di Cassazione nel decidere il caso in esame si è conformata alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo il quale "qualora si realizzi, per sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, una parziale impossibilità della sua prestazione come fino ad allora svolta, il datore di lavoro sia tenuto ad impiegarlo in una diversa attività utilizzabile nell'impresa, secondo il suo assetto organizzativo (Cass. 2 luglio 2009, n. 15500): non essendo tenuto a modificarlo, ma tuttavia obbligato ad assegnare all'invalido mansioni compatibili con la natura e il grado delle sue menomazioni e a reperire, nell'ambito della struttura aziendale, il posto di lavoro più adatto alle condizioni di salute di tale lavoratore" (Cass. 30 dicembre 2009, n. 27845). E ciò pure alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede e nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti, ai sensi degli artt. 4, 32 e 36 Cost. (Cass. 28 ottobre 2008, n. 25883; Cass. 7 marzo 2005, n. 4827) e nell'ambito del dovere del datore di lavoro di cooperazione anche a norma dell'art. 2087 c.c. (Cass. 5 marzo 2003, n. 3250; Cass. 30 agosto 2000, n. 11427). Inoltre, a parere della Suprema Corte, deve, in ogni caso, tenersi conto dei concreti aspetti della vicenda e delle allegazioni del dipendente attore in giudizio, spettando l'onere della prova della possibilità o meno di assegnare il lavoratore a mansioni diverse al medesimo datore di lavoro (Cass. 2 luglio 2009, n. 15500), in quanto esclusivo responsabile dell'organizzazione dell'attività economica privata, nella garanzia posta dall'art. 41 Cost., insindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale, ma nel suo esercizio tenuta al rispetto dei diritti al lavoro e alla salute (Cass. 13 ottobre 2009, n. 21710).



Invenzioni del lavoratore, diritto al compenso e richiesta di brevetto

Cass., sez. Lav., 18 marzo 2015, n. 5424

Pres. Stile; Rel. Doronzo; P.M. Celeste; Ric. P.E.; Contr. N.I. s.r.l.

Invenzioni del lavoratore - Artt. 23 e ss. R.D. 29.06.1939, n. 1127 - Invenzione di servizio - Invenzione d'azienda - Invenzione occasionale - Distinzioni - Diritto al compenso per il lavoratore - Presupposti

Le invenzioni del lavoratore, come disciplinate dall'art. 23 del R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 - oggi abrogato - si distinguono in invenzione di servizio ed invenzione d'azienda: nella prima, l'attività inventiva è espressamente prevista come oggetto della prestazione lavorativa, e dunque per la stessa è prevista una retribuzione; nella seconda, la prestazione del lavoratore non ha ad oggetto il conseguimento di un risultato inventivo. In tale ultimo caso, la legge, in luogo della retribuzione, prevede l'equo premio, che risponde alla logica di indennizzare il dipendente espropriato del diritto di utilizzazione economica. Queste due ipotesi sono del tutto distinte dalle invenzioni occasionali, disciplinate dal successivo art. 24, che ricorrono qualora l'invenzione sia del tutto indipendente dalle mansioni svolte dal lavoratore. In tal caso il lavoratore-inventore ha il diritto di brevetto, ma la legge ha attribuito al datore di lavoro un diritto di prelazione per l'uso dell'invenzione o per l'acquisto del brevetto, dietro corresponsione di un prezzo.

Invenzioni del lavoratore - Diritto al corrispettivo per il lavoratore - Richiesta di brevetto - Condicio iuris

Con riferimento alle invenzioni del dipendente, il brevetto costituisce la condicio iuris non solo perché il lavoratore-inventore acquisisca il diritto al corrispettivo, ma anche perché il datore di lavoro possa acquisire il diritto allo sfruttamento. Si è dunque in presenza di un vero e proprio vincolo sinallagmatico, in forza del quale il diritto del lavoratore, ad ottenere un compenso, può essere esercitato nei confronti del datore di lavoro, solo nel caso in cui questi abbia direttamente brevettato l'invenzione o abbia esercitato, previa brevettazione da parte del lavoratore, l'opzione di acquisto o di uso dello stesso

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, un lavoratore aveva adito il Tribunale del lavoro di Lecce, sostenendo che, pur non facendo parte del gruppo di ricerca della società presso cui lavorava, aveva inventato uno specifico prodotto. Per tale invenzione, non il datore di lavoro ma una società rientrante nel gruppo dell'azienda di cui era dipendente, aveva depositato presso l'Ufficio Industria, Commercio e Artigianato, la richiesta di brevetto, indicando il ricorrente ed un altro suo collega, come inventori. Conseguentemente il ricorrente chiedeva al Tribunale che la società fosse condannata al pagamento di un compenso, equo premio o prezzo per l'invenzione realizzata.

Il Tribunale rigettava la domanda con sentenza confermata dalla Corte di appello di Lecce, la quale aveva ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento del diritto vantato, in quanto dopo aver qualificato l'invenzione come "occasionale", aveva affermato che per tale tipo di invenzione il prezzo sia dovuto solo dopo che il lavoratore ne abbia richiesto il brevetto, condizione non sussistente nel caso di specie.

Avverso tale statuizione il lavoratore promuove ricorso per Cassazione, denunciando in primo luogo violazione di legge, per avere la corte di merito errato nel ritenere che la domanda fosse riferita unicamente alla fattispecie dell'invenzione occasionale.

La Corte di cassazione, premesso che la fattispecie in esame soggiace alla disciplina applicabile ratione temporis di cui agli artt. 23 e ss. del r.d. 29.06.1939, n. 1127 (successivamente abrogato dal D. Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha introdotto il codice della proprietà industriale), afferma che l'art. 23 opera una scissione tra il diritto morale d'autore, che, di regola, spetta al suo autore, ed i diritti patrimoniali, che spettano invece al datore di lavoro che ha messo a disposizione i mezzi materiali che hanno reso possibile l'invenzione. Affinché però operi tale scissione è necessario che l'invenzione avvenga, non solo nell'ambito di un rapporto di lavoro, ma nell'esecuzione della prestazione lavorativa, c.d. invenzione di servizio, oppure nell'adempimento degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro, c.d. invenzione d'azienda. La differenza tra l'invenzione di servizio e l'invenzione d'azienda è che, nella prima, l'attività inventiva è espressamente prevista come oggetto della prestazione lavorativa, e dunque per la stessa è prevista una retribuzione; mentre, nella seconda, la prestazione del lavoratore non ha ad oggetto il conseguimento di un risultato inventivo. In tale ultimo caso, la legge, in luogo della retribuzione, prevede l'equo premio, che risponde alla logica di indennizzare il dipendente espropriato del diritto di utilizzazione economica. La giurisprudenza aggiunge che spetta al giudice di merito - con un accertamento da effettuarsi ex ante - valutare se le parti avevano previsto per il dipendente l'obbligo di svolgere attività inventiva (cfr. Cass. 21 marzo 2011, n. 6367).

Queste due ipotesi sono del tutto distinte da quella prevista dal successivo art. 24 del regio decreto che disciplina le c.d. invenzioni occasionali, che ricorrono qualora l'invenzione sia del tutto indipendente dalle mansioni svolte dal lavoratore. In tal caso il lavoratore-inventore ha il diritto di brevetto, ma la legge ha attribuito al datore di lavoro un diritto di prelazione - oggi "opzione", art. 64, comma 3, D. Lgs. 30/2005 - per l'uso dell'invenzione o per l'acquisto del brevetto, dietro corresponsione di un prezzo.

Alla luce della distinzione operata, la Suprema Corte ritiene che correttamente i giudici di merito abbiano qualificato la domanda del lavoratore, quale desumibile dalle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo, come invenzione occasionale, in quanto maturata in un settore del tutto estraneo a quello cui era addetto il ricorrente.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione di legge per avere, la corte di appello, erroneamente ritenuto che, per conseguire il beneficio economico nell'ipotesi di invenzione occasionale, il lavoratore avrebbe dovuto brevettare l'invenzione stessa.

La Cassazione respinge anche tale motivo, rilevando che dalla interpretazione complessiva delle norme del r.d. 1127/1939 si desume che il diritto al brevetto, ossia la facoltà di chiedere la registrazione, è la posizione giuridica che si riconosce all'inventore o a colui che, a titolo derivativo, acquista la completa descrizione dell'invenzione. Tale diritto, tuttavia, può circolare ed essere oggetto di negozi. Al contrario, il diritto sul brevetto consiste nella facoltà esclusiva di attuare e godere dell'invenzione e si acquisisce con la registrazione.

Pertanto, con riferimento alle invenzioni del dipendente, il brevetto costituisce la condicio iuris non solo perché il lavoratore-inventore acquisisca il diritto al corrispettivo (cfr. Cass. 5 giugno 2000, n. 7484), ma anche perché il datore di lavoro possa acquisire il diritto allo sfruttamento. Si è dunque in presenza di un vero e proprio vincolo sinallagmatico, in forza del quale il diritto del lavoratore può essere esercitato nei confronti del datore di lavoro, solo nel caso in cui questi abbia brevettato l'invenzione o abbia esercitato, previa brevettazione da parte del lavoratore, l'opzione di acquisto o di uso dello stesso.

Ebbene, nel caso di specie, a parere della Corte, è pacifico che il datore di lavoro non abbia mai esercitato tale diritto, così come è incontestato che il lavoratore non abbia provveduto a richiedere il brevetto dell'invenzione. Né a tal fine può valere l'affermazione del ricorrente secondo cui la richiesta di brevetto effettuata da un'altra società del gruppo, sarebbe la dimostrazione che il proprio datore di lavoro abbia di fatto utilizzato l'invenzione. Secondo i giudici di legittimità la circostanza che tra le due società vi fosse un collegamento economico-funzionale tale da farne un unico centro di imputazione è rimasta una mera asserzione del ricorrente non suffragata da alcuna allegazione e, comunque, non provata.



Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass., sez. Lav., 16 marzo 2015, n. 5173

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Fresa; Ric. A. S.r.L..; Controric. e ric. incid. T.M.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale - Sufficienza - Esclusione - Soppressione del posto o del reparto per situazioni sfavorevoli non contingenti - Necessità - Riferibilità del licenziamento individuale a ragioni di carattere produttivo organizzativo e impossibilità di adibizione del lavoratore ad altre mansioni - Prova - Onere a carico del datore di lavoro

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3, L. 604/1966, è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti. Il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale.

Nota

La Corte d'Appello di Catanzaro, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un lavoratore, con conseguente applicazione della tutela reale. Il licenziamento era stato irrogato dalla società datrice per calo di commesse e in ragione della stipula di un contratto di appalto avente ad oggetto lo svolgimento dell'attività del reparto cui era addetto il lavoratore, conseguentemente soppresso. Ebbene, la Corte d'Appello ha ritenuto insussistente la prima ragione del recesso - essendo il calo di commesse risalente nel tempo ed essendovi stato, anzi, un utile sociale - ed irrilevante la seconda, essendo decorsi diversi mesi dall'appalto al licenziamento. La Corte territoriale ha, altresì, affermato che il datore di lavoro non ha in alcun modo offerto la prova dell'impossibilità di diversa utilizzazione del lavoratore.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi, con i quali, in particolare, lamentava violazione degli artt. 3, L. 604/1966, 41 Cost. e 30 L. 183/10, per avere la Corte di merito sindacato le valutazioni discrezionali dell'imprenditore relative alla soppressione del reparto e per avere la sentenza impugnata trascurato che il giustificato motivo oggettivo può consistere in un'insindacabile esigenza di ridurre i costi anche senza modifica dei processi produttivi.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, avendo osservato come la Corte di merito, con sentenza immune da vizi logici o giuridici, ha: a) disconosciuto l'esistenza di una situazione di crisi aziendale; b) accertato l'irrilevanza della esternalizzazione dell'attività cui era addetto il dipendente, per avere, quest'ultimo, continuato a lavorare oltre la chiusura del reparto per un periodo non breve (alcuni mesi), tale da dimostrare, da un lato, la non necessità del recesso e, dall'altro, l'utilità in azienda della mansione ricoperta.

A supporto del proprio decisum la Cassazione ha richiamato l'orientamento, ormai consolidato in sede di legittimità, secondo cui se è vero che il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa - espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - è altrettanto vero che allo stesso compete il controllo in ordine alla effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. 14/05/2012, n. 7474; Cass. 26/09/2011, n. 19616; Cass. 30/11/2010, n. 24235; Cass. 02/10/2006, n. 21282).

Inoltre, la Suprema Corte ha ribadito due principi, ormai consolidati in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, secondo cui: 1) il giustificato motivo oggettivo non può consistere in una mera esigenza di riduzione dei costi e/o di incremento dei profitti ma in situazioni sfavorevoli, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva; 2) sul datore di lavoro grava un duplice onere probatorio, quello di dimostrare la riferibilità del licenziamento alle effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo che lo hanno determinato (id est: nesso causale) e quello di provare l'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale (Cass. 25/03/2011 n. 7006; Cass. 26/09/2011, n. 19616; Cass. 02/10/2006, n. 21282).

La Suprema Corte ha poi ritenuto, altresì, correttamente motivata la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che per dimostrare l'impossibilità di repechage, non basta la produzione del libro matricola - dal quale emerga la prova della presenza in azienda di altri dipendenti con la qualifica di impiegati - ma occorre la diversa prova dell'inesistenza di mansioni equivalenti o comunque disponibili in azienda e, dunque, dell'impossibilità di collocare altrimenti il lavoratore.



L'accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto

Cass., sez. Lav., 2 marzo 2015, n. 4176

Pres. Lamorgese; Rel. Nobile; Ric. D.R.; Controric. P. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Contratto collettivo - In genere - Accordi aziendali - Forma scritta - Esclusione - Ratifica per "facta concludentia" - Ammissibilità

In applicazione del principio generale di libertà di forma ed in mancanza di espressa previsione normativa della forma scritta, l'accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto, con la conseguenza che non è necessaria la forma scritta neppure per la ratifica di accordo aziendale stipulato da "falsus procurator", ossia da organizzazione aziendale priva di rappresentanza, e che, pertanto, la ratifica potrebbe intervenire anche per facta concludentia.

Nota

La sentenza in commento affronta la questione dei requisiti formali di validità del contratto collettivo.

Nel caso di specie, un lavoratore, già dipendente della società resistente, a seguito di un trasferimento di ramo d'azienda, era passato alle dipendenze di una diversa società, la quale aveva successivamente deciso di trasferire la produzione in un'altra regione: a fronte di ciò, la società resistente si era impegnata, in virtù di un accordo aziendale, ad assumere ex novo i lavoratori che non avessero accettato il trasferimento di sede, con applicazione di un trattamento economico che escludeva l'erogazione del premio di produzione.

In esecuzione del predetto accordo, i lavoratori, tra cui il ricorrente, stipulavano, dunque, il contratto di lavoro, con esclusione del premio di produzione aziendale.

Successivamente, il ricorrente proponeva azione giudiziale al fine di ottenere il pagamento del premio di produzione, contestando la validità e l'efficacia del predetto accordo sindacale in quanto non sarebbe stato stipulato da alcuna rappresentanza sindacale aziendale, bensì da soggetti che non erano stati delegati a firmare l'accordo, il quale, comunque, non poteva neppure ritenersi ratificato, stante la mancanza di una forma scritta tanto della delega quanto della ratifica, necessarie - a parere del lavoratore - in relazione alla forma scritta dell'accordo stesso.

I giudici del merito disattendevano le censure del dipendente, confermando, tra il resto, la piena validità ed efficacia dell'accordo aziendale, sulla base dei seguenti rilievi: la prova testimoniale aveva confermato che i rappresentanti dei lavoratori erano stati nominati nel comitato esecutivo ed avevano una delega, sia pure non scritta, a sottoscrivere gli accordi sindacali, secondo una consolidata prassi vigente in azienda; l'accordo era stato successivamente ratificato per fatti concludenti dagli aventi diritto ed, in specie, da tutti i membri della rappresentanza sindacale aziendale, i quali nulla avevano opposto alla stipulazione e, soprattutto, alla successiva applicazione dell'accordo stesso; tale accordo era stato, altresì, discusso ed approvato dall'assemblea dei lavoratori interessati che, successivamente, avevano, altresì, sottoscritto i contratti individuali di lavoro, nei quali, in esecuzione del predetto accordo aziendale, non figurava tra le voci retributive il premio di produzione.

La Suprema Corte, richiamando il suo consolidato orientamento in merito (cfr. Cass. SS.UU. 22 marzo 1995, n. 3318), ha confermato le statuizioni della Corte d'appello, evidenziando, in particolare, che in mancanza di norme che prevedano, per i contratti collettivi, la forma scritta, ed in applicazione del principio generale della libertà di forma - in base al quale le norme che prevedono che determinati contratti o atti debbano essere realizzati con determinate forme sono di stretta interpretazione, insuscettibili, cioè, di applicazione analogica - l'accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto. Col corollario che non è necessaria la forma scritta neppure per la ratifica di accordo aziendale stipulato da "falsus procurator", ossia da un soggetto privo di rappresentanza, e che, pertanto, la ratifica può intervenire anche per facta concludentia.



Licenziamento per giusta causa

Cass., sez. Lav., 24 marzo 2015, n. 5878

Pres. Lamorgese; Rel. Bandini; P.M. Ghersi; Ric. C.M. Soc. Coop. P.I.; Contr. M.D.P.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale per giusta causa - Giusta causa di licenziamento - Nozione legale - Criteri di accertamento - Natura - Clausola generale - Specificazioni in sede interpretativa - Accertamento dei fatti e della loro concreta idoneità a costituire giusta causa - Giudizio di fatto - Configurabilità - Sindacabilità in cassazione - Condizioni - Fattispecie relativa a licenziamento di un dipendente che aveva utilizzato espressioni volgari nel nominare file di lavoro

La giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

Nota

La vicenda in esame trae spunto dal ricorso promosso da una lavoratrice avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa irrogatole per aver denominato alcuni file di lavoro con le locuzioni "merda" e "nuova merda".

Il giudice di primo grado respingeva il ricorso mentre la Corte d'Appello dell'Aquila, successivamente adita dalla lavoratrice, dichiarava l'illegittimità del licenziamento con applicazione della tutela reale. La Corte Territoriale osservava in particolare che la condotta della lavoratrice, per quanto censurabile sotto il profilo della correttezza, non costituiva un'infrazione della disciplina del lavoro tanto grave, sia soggettivamente che oggettivamente, da ledere in maniera irreparabile la componente fiduciaria, dal momento che l'indicata sgradevole denominazione di documenti di lavoro era risultata episodica e pertanto non evidenziava un manifesto e ripetuto disprezzo al decoro e all'immagine aziendale, né poteva annoverarsi nella fattispecie dell'insubordinazione. Non essendo emersi, peraltro, altri abusi nell'utilizzo dei beni aziendali affidati alla lavoratrice, secondo la Corte d'Appello la vicenda, valutata nella sua complessità, non giustificava, sotto il profilo della congruità, l'adozione della massima sanzione espulsiva, potendo tale condotta essere punita con una sanzione di tipo conservativo.

La società datrice di lavoro proponeva quindi ricorso per Cassazione denunciando violazione dell'art. 2119 c.c. per avere la Corte territoriale sminuito l'esatta portata del fatto sotto il profilo oggettivo, caratterizzato dal disprezzo della lavoratrice per il proprio lavoro.

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha richiamato il proprio precedente orientamento sulla nozione di giusta causa, secondo il quale "la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti a una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale" (Cass. 5095/2011).

La Cassazione applicando i suddetti principi al caso di specie ha, dunque, confermato la decisione della Corte d'Appello affermando che il fatto addebitato, nei suoi risvolti oggettivi e soggettivi, si connotava oggettivamente come disdicevole e passibile di sanzione disciplinare, ma non configurava gli estremi della insubordinazione, né quelli di una specifica inottemperanza alle mansioni affidate alla lavoratrice, né era in sé idoneo a ledere concretamente l'immagine della Società datrice di lavoro e dei suoi organi; rimaneva, in sostanza, nell'ambito di una condotta volgare e certamente non commendevole, ma non assurgeva a gravità e importanza tale da ledere, in termini di irrimediabilità, il rapporto fiduciario e da giustificare quindi la sanzione espulsiva.

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