Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mancata fruizione del riposo settimanale

Illegittimità del licenziamento per scarso rendimento

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Condotte illecite extralavorative e giusta causa di licenziamento

Anche se il danno è solo potenziale può fondare il licenziamento in tronco

Mancata fruizione del riposo settimanale

Cass. Sez. Lav. 10 agosto 2015, n. 16665

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Sanlorenzo; Ric. T.P.T.D. S.p.A. Controric. B.F. + altri

Lavoro subordinato - Riposo settimanale - Mancata fruizione - Danno da usura psico-fisica - Presunzione - Sussistenza - Liquidazione in via equitativa - Legittimità

In relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, va tenuto distinto il danno da "usura psico-fisica", conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall'ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una "infermità" del lavoratore determinata dall'attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali. Nella prima ipotesi, a differenza della seconda, il danno sull'"an" deve ritenersi presunto e il risarcimento può essere liquidato anche in via equitativa, utilizzando come parametro le maggiorazioni previste dal contratto collettivo per il lavoro straordinario, notturno e festivo.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Lecce che, confermando la decisione di primo grado, aveva condannato la società datrice di lavoro (società di trasporti) al risarcimento del danno subito dai lavoratori (addetti alla guida di mezzi destinati al trasporto di passeggeri) per mancato godimento dei riposi stabiliti dal regolamento CEE richiamato dall’art. 174 del Codice della Strada (riposo minimo di 11 ore giornaliere e riposo settimanale di 45 ore consecutive).

In particolare, la Corte d’Appello aveva ritenuto presunto il danno subito dai lavoratori, qualificato come danno da usura psico-fisica (e non come danno biologico), e liquidato lo stesso in via equitativa, utilizzando come parametro la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva di settore per la maggiorazione del lavoro straordinario, notturno e festivo.

La società ha presentato ricorso per cassazione con diversi motivi.

Con uno dei motivi di ricorso ha denunciato vizio di motivazione della sentenza per aver risarcito il mancato riposo in assenza di prova del danno subito dai lavoratori.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, con specifico riferimento al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, il danno da "usura psico-fisica" che ne consegue va tenuto distinto dal danno alla salute o danno biologico, che si concretizza invece in una "nfermità" del lavoratore determinata dall'attività lavorativa usurante, conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali. Nella prima ipotesi, a differenza della seconda, il danno sull’an deve ritenersi presunto (cfr. sul punto anche Cass. Sez. Lav. n. 16398/2004).

Il motivo di tale deduzione è che il danno da usura psico-fisica si inscrive nella categoria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e che, nella fattispecie, l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione di tale interesse espone direttamente il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale.

Nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha poi rilevato che il Giudice di merito aveva ritenuto dimostrata documentalmente la violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali, pertanto aveva correttamente riconosciuto il danno da usura psico-fisica subito dai lavoratori. Per tale motivo, la Corte ha rigettato il ricorso.




Illegittimità del licenziamento per scarso rendimento

Cass. Sez. Lav. 5 agosto 2015, n. 16472

Pres. Stile; Rel. Manna; P.M. Matera; Ric. I.C.; Controric. A. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Aziende esercenti pubblico servizio di trasporti in regime di concessione - Licenziamento per scarso rendimento dovuto ad assenze per malattia - Mancato superamento del periodo di comporto - Mancanza di colpa del lavoratore - Illegittimità del licenziamento.

Ai fini del licenziamento dei dipendenti di aziende esercenti il pubblico servizio di trasporti in regime di concessione, l’art. 27 lett. d) del regolamento sub Allegato A del r.d. 148/1931, prevedendo l'ipotesi dello scarso rendimento come diversa e separata da quella concernente la malattia, impedisce che, in sede di valutazione dello scarso rendimento, possa tenersi conto, oltre che delle diminuzioni di rendimento determinate da imperizia, incapacità e negligenza, anche di quelle determinate da assenze per malattia, atteso che queste ultime possono rilevare solo nell'ambito della diversa previsione regolamentare e delle correlative, specifiche, modalità di adozione del provvedimento di recesso.

Nota

Un dipendente di un’azienda esercente, in regime di concessione, il servizio pubblico di trasporti conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro per sentir accertare l’illegittimità del licenziato intimatogli per scarso rendimento dovuto alle continue assenze per malattia. E ciò, nonostante le assenze per malattia non avessero ancora raggiunto il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto).

Il ricorso del lavoratore veniva rigettato dal giudice di primo grado, con sentenza confermata anche in appello.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione, lamentando, tra le altre censure, violazione e falsa applicazione dell’art. 27 lett. d) del regolamento allegato al r.d. 148/1931 (recante il coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) che legittima il recesso "per scarso rendimento o per palese insufficienza imputabile a colpa" del dipendente nell’adempimento delle mansioni. Ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata era errata per non aver considerato che le assenze per malattia non gli erano ascrivibili a titolo di colpa.

La Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, precisando che, nella stessa disciplina regolamentare allegata al r.d. 148/1931, l’ipotesi dello scarso rendimento è esplicitamente distinta da quella delle ripetute assenze per malattia che, in base alla lett. b) dell’art. 27, sono rilevanti solo ove determinino inabilità al servizio. Tale espressa distinzione comporta che ai fini della valutazione dello scarso rendimento non possa tenersi conto delle assenze per malattia, anche perché non imputabili alla colpa del lavoratore. Infatti, per giurisprudenza costante, in caso di reiterate assenze per malattia, il datore di lavoro non può recedere per giustificato motivo, ai sensi dell'art 3 Legge 604/1966, potendo, al contrario, licenziare il dipendente solo dopo che si sia esaurito il periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva o, in difetto, determinato secondo equità.

La sentenza annotata, sebbene relativa ad un caso del tutto particolare, sembra in parte contraddire quanto affermato dalla stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 18678 del 4 settembre 2014, secondo cui deve considerarsi legittimo il giustificato motivo oggettivo di licenziamento per eccessiva morbilità, anche senza superamento del periodo di comporto, quando le assenze sono tali da rendere la prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile dal datore di lavoro, al punto da diventare non solo inadeguata sotto il profilo produttivo ma anche pregiudizievole per l'organizzazione aziendale.




Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 5 agosto 2015, n. 16462

Pres. Stile; Rel. Berrino; P.M. Celeste; Ric. P.B.; Controric. T.I. s.p.a.;

Superamento del periodo di comporto - Permanenza del rapporto di lavoro - Rinuncia implicita al potere di licenziamento - Esclusione - Prova del nesso causale tra superamento del comporto e recesso - Onere del datore in caso di ampio intervallo tra scadenza del comporto e recesso Necessità

In ipotesi di avvenuto superamento del periodo di comporto, l'accettazione, da parte del datore di lavoro, della ripresa dell’attività lavorativa del dipendente non equivale di per sé a rinuncia al diritto di recedere dal rapporto, ai sensi dell'art. 2110 c.c., e quindi non preclude (salvo diversa previsione della disciplina collettiva) l'esercizio di tale diritto, ferma peraltro la necessità della sussistenza di un nesso causale fra l’intimazione del licenziamento ed il fatto (superamento del periodo di comporto) addotto a sua giustificazione.

Nota

La Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto negando che il periodo intercorso tra il superamento ed il recesso equivalesse ad un’implicita rinunzia da parte datoriale all’esercizio del diritto di risolvere il rapporto di lavoro.

Avverso tale decisione il dipendente ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la Corte territoriale non ha considerato, in primis, il fatto che il lungo lasso temporale intercorso (più del doppio del periodo previsto) gli aveva ingenerato la convinzione della rinunzia da parte del datore alla facoltà di risolvere il rapporto per superamento del comporto.

Inoltre, secondo il ricorrente, la Corte ha errato laddove, nonostante il lasso temporale intercorso, ha ritenuto sussistente in re ipsa il nesso eziologico tra superamento del comporto e recesso. A detta del dipendente, infatti, la dilatazione temporale impone al datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza di tale nesso. Nel rigettare tutti i motivi di doglianza la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, aderendo a specifici precedenti in termini (Cass. 6 luglio 2000, n. 9032). Sempre in continuità col precedente orientamento la Cassazione precisa che la prova della sussistenza del nesso causale è in re ipsa in ipotesi di licenziamento intimato immediatamente dopo il superamento del comporto, pertanto, qualora il recesso avvenga a distanza di pochi giorni dalla riammissione in servizio, è onere del lavoratore provare che tale riammissione costituisce una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso. Diversamente, nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo dal superamento della soglia del comporto, la prova del fatto che il recesso trovi in esso la sua giustificazione deve essere fornita dal datore di lavoro.

La Suprema Corte precisa, tuttavia, che tale criterio temporale di distribuzione dell'onere probatorio ha valore solo indicativo, essendo, comunque, riservata al giudice del merito la valutazione della congruità del tempo intercorso fra la ripresa del lavoro ed il licenziamento facendo riferimento alle circostanze significative ed, in particolare, alle caratteristiche organizzative e dimensionali dell'impresa (Cass. 28 marzo 2011, n. 7037). Come affermato anche in precedenti analoghi (Cass. 25 novembre 2010, n. 23920) il giudizio sulla tempestività del recesso non può, infatti, conseguire alla rigida applicazione di criteri temporali prestabiliti, ma va considerata ogni significativa circostanza idonea a incidere sulla valutazione datoriale circa la sostenibilità, o meno, delle assenze del lavoratore in rapporto con le esigenze dell'impresa, in un'ottica delle relazioni aziendali improntata ai canoni della reciproca lealtà e della buona fede, che comprendono, fra l'altro, la possibilità, rimessa alla valutazione dello stesso imprenditore nell'ambito delle funzioni e delle garanzie di cui all'art. 41 Cost., di conservazione del posto di lavoro anche oltre il periodo di tutela predeterminato dalle parti collettive, compatibilmente con le esigenze di funzionamento dell'impresa.

Alla luce di tale principi la Suprema Corte rigetta il ricorso, ritenendo che la Corte territoriale ne abbia fatto corretta applicazione laddove ha negato che vi fosse stata implicita rinunzia al potere di recesso da parte del datore, avendo questi irrogato il licenziamento nel permanere dello stato di malattia del lavoratore, pertanto il considerevole lasso temporale dalla scadenza non aveva in alcun modo manifestato una volontà datoriale di conservazione del posto di lavoro.




Condotte illecite extralavorative e giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 06 agosto 2015, n. 16524

Pres. Stile; Rel. Manna; P.M. Fresa; Ric. M.R.; Controric. T.S. S.p.A.;

Licenziamento - Giusta causa - Condotte illecite extralavorative - Idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti - Rilievo disciplinare - Sussistenza

La giusta causa di licenziamento ricorre, oltre che nel caso di inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, anche nell’ipotesi in cui il lavoratore ponga in essere condotte extralavorative che, seppure formalmente estranee alla prestazione oggetto di contratto, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. Ciò in quanto il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario.

Nota

La Corte di appello di Firenze confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento intimato al sig. M. perché imputato del delitto di detenzione a fini di spaccio di 200 gr. di hashish, reato per il quale il lavoratore era stato dapprima arrestato in flagranza ed aveva ricevuto, in seguito, sentenza penale non definitiva di condanna.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il dipendente fondato su due motivi.

In particolare, sosteneva il ricorrente che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello nella pronuncia impugnata, il fatto addebitatogli - detenzione a fini di spaccio di 200 gr. di hashish - non rivestisse alcun rilievo disciplinare in quanto, essendosi verificato mentre il lavoratore si trovava in ferie, era avvenuto al di fuori dell’espletamento dell’attività lavorativa.

La Suprema Corte rigettava il ricorso sulla base delle considerazioni di seguito svolte.

Rilevava la Suprema Corte che il concetto di giusta causa non si limita all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extralavorative che, seppure formalmente estranee alla prestazione oggetto di contratto, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. In altri termini, proseguiva la Suprema Corte, la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (cfr. Cass. 19 gennaio 2015, n. 776).

Con specifico riferimento al caso di specie, osservava la Suprema Corte che la Corte territoriale, con motivazione immune da vizi logici e giuridici ed, in quanto tale, incensurabile in sede di legittimità, aveva ritenuto la condotta posta in essere dal ricorrente particolarmente grave in termini di prognosi di futura affidabilità del dipendente e, quindi, di lesione del vincolo fiduciario, sia in virtù dei diretti rapporti con la clientela intrattenuti dal lavoratore nell’espletamento delle sue mansioni, sia per aver egli acquistato la sostanza stupefacente da un collega di lavoro avvalendosi, quindi, dell’ambiente lavorativo per condurre i propri traffici illeciti.

Per tali ragioni la Suprema Corte ha ritenuto che la condotta illecita extralavorativa posta in essere dal dipendente fosse di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti e che, pertanto, integrasse appieno la giusta causa di recesso.

La Suprema Corte ha, dunque, rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata.




Anche se il danno è solo potenziale può fondare il licenziamento in tronco

Cass. Sez. Lav. 4 agosto 2015, n. 16336

Pres. Vidiri; Rel. Doronzo; P.M. Ceroni; Ric. C.C.S. a.r.l.; Controric. G.M.;

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Gravità della condotta del lavoratore - Valutazione - Criteri - Potenzialità del danno - Specificità delle mansioni assegnate al lavoratore - Rilevanza - Tipizzazione delle sanzioni disciplinari contenuta nel contratto collettivo - Irrilevanza

In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della gravità della condotta e, quindi, della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, rileva il pregiudizio anche solo potenziale, purché concreto e non meramente ipotetico, derivante dalla condotta del lavoratore, che va valutata tenendo conto della specificità delle mansioni assegnate, anche a prescindere da eventuali tipizzazioni del contratto collettivo.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito al licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, infermiere professionale, che si era reso responsabile di essersi accinto ad effettuare un prelievo di sangue ad una paziente per la quale non era previsto alcun prelievo (poi non eseguito solo per la pronta reazione della paziente) e di aver inviato presso un altro pronto soccorso una paziente accompagnata da una scheda sanitaria e copia del documento di identità di un’altra paziente, causando ritardi nelle prescrizioni degli esami diagnostici e l’errata archiviazione degli esami eseguiti nel sistema applicativo.

A seguito dell’impugnazione in giudizio del predetto licenziamento, il Giudice di prime cure rigettava la domanda del lavoratore, così come faceva il Giudice dell’opposizione, mentre la Corte territoriale adita annullava il licenziamento in sede di reclamo, ordinando l’immediata reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso del datore di lavoro avverso la predetta decisione della Corte territoriale, afferma con la sentenza in commento che, nel formulare il giudizio sulla sussistenza della giusta causa, occorre sempre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (Cass., 3 dicembre 2014, n. 25608). Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (Cass., 19 agosto 2004, n. 16260; Cass., 14 febbraio 2005, n. 2906; Cass., 26 aprile 2012, n. 6498).

Alla luce dei principi sopra richiamati, secondo la Corte di Cassazione la valutazione compiuta dalla Corte territoriale nel caso di specie, pervenuta al giudizio di illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore, non è appagante.

In particolare, i fatti contestati al lavoratore risultavano incontrovertibilmente accertati e riguardavano due diversi episodi, collocati a breve distanza di tempo l'uno dall'altro. Ciò nonostante, la Corte territoriale aveva ritenuto che entrambe le condotte poste in essere dal lavoratore fossero caratterizzate da "disattenzione" nell'esecuzione della prestazione lavorativa. Inoltre, la Corte territoriale aveva ritenuto che la contrattazione collettiva applicata, nel distinguere la "grave negligenza" da cui sia derivato un "pregiudizio all'incolumità delle persone" (sanzionata con il licenziamento senza preavviso), dalla disattenzione o negligenza che non arrechino danno (per cui è prevista la sanzione della multa), escludesse radicalmente la possibilità, al fine di valutare la condotta del dipendente, di far riferimento al concetto di potenzialità del danno, concetto invece evocato dal datore di lavoro.

Rispetto a tale valutazione del Giudice del merito, la Corte di Cassazione si pone in netto disaccordo; infatti, secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale non ha tenuto in adeguato conto le specifiche mansioni di infermiere professionale attribuite al lavoratore, le particolari condizioni di soggezione e di inferiorità psico-fisica in cui versavano le due pazienti (la seconda, in coma e senza accompagnatori) e, in genere, le persone di cui egli era tenuto a prendersi cura nell'ambito dei compiti inerenti al suo profilo professionale e, da ultimo, il tipo di disattenzione commessa. Inoltre, erroneamente, la Corte territoriale ha ritenuto che, ove nel contratto collettivo applicato si prevede il licenziamento in tronco in caso di "grave negligenza nell’esecuzione dei lavori che implichino pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli ambienti affidati", il riferimento al pregiudizio all'incolumità delle persone richieda necessariamente, per l’irrogazione della sanzione espulsiva, che tale pregiudizio sia effettivo e non meramente potenziale. Una corretta lettura della norma induce invece a ritenere che il "pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli ambienti" debba collegarsi causalmente non già alla negligenza, seppur connotata da gravità, quanto piuttosto ai lavori o agli ordini i quali involgano, per il loro contenuto oggettivo, persone (e la loro incolumità) o gli ambienti (e la sicurezza). In sostanza, secondo la Suprema Corte, da nessun dato testuale è dato di evincere che il pregiudizio dev'essere necessariamente attuale, ma è sufficiente che esso sia anche solo potenziale, purché concreto e non meramente ipotetico.

Alla luce delle considerazioni che precedono la Corte di Cassazione accoglie dunque con la pronuncia in commento il ricorso del datore di lavoro avverso la decisione della Corte territoriale che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato nel caso di specie, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa nuovamente al Giudice del merito per ogni conseguente decisione in sede di riesame della vicenda.

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