Contenzioso

Tutela reintegratoria se il fatto non ha rilievo disciplinare

di Angelo Zambelli

Con la sentenza 12174/19, la Cassazione si è pronunciata sui confini applicativi della tutela reintegratoria prevista dall’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/15, qualora – a fronte di un licenziamento per giusta causa in regime di Jobs Act – venga accertata l’irrilevanza disciplinare del fatto materiale contestato.

Nel caso di specie, sia il Tribunale, sia la Corte d'appello di Genova, accertata l'illegittimità del licenziamento intimato ad una dipendente che si era allontanata dal posto di lavoro, avevano dichiarato estinto il rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di 4 mensilità (l'indennità risarcitoria minima prevista nella formulazione normativa antecedente le modifiche introdotte dal Decreto dignità).
I giudici dei primi due gradi di giudizio avevano respinto la domanda principale della lavoratrice volta a ottenere la tutela reintegratoria, in quanto la condotta addebitata non era stata negata nella sua realtà storica.
Purtroppo la sentenza in commento non consente di recuperare nella sua materialità effettiva (modalità e tempi) il comportamento ascritto alla dipendente, sì che non è possibile apprezzare completamente il ragionamento effettuato dai giudici del merito, tanto più in un procedimento contumaciale.
La Cassazione, nell'accogliere il ricorso della lavoratrice, con un interessante principio di diritto ha precisato che «ai fini della pronuncia di cui all'articolo 3, comma 2, del Dlgs 23 del 2015, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare».
Il percorso logico giuridico della Corte ha preso le mosse dall'analisi della formulazione contenuta nell'articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori, che, nell'attribuire la tutela reintegratoria «attenuata» al dipendente, richiama l'«insussistenza del fatto contestato».
Si ricorda che già nell'imminenza dell'entrata in vigore della legge 92/2012, era sorto il problema di cosa si dovesse intendere per «fatto contestato» rilevante ai fini della determinazione del regime di tutela applicabile.
La giurisprudenza di legittimità, in relazione alla norma statutaria, ha elaborato una nozione di «insussistenza del fatto contestato» che, come efficacemente sintetizzato nella sentenza n. 10019/16, «comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare».
Benché la formulazione contenuta nel Jobs act sia parzialmente diversa rispetto a quella contenuta nel testo statutario («fatto materiale contestato» rispetto a «fatto contestato»), la Cassazione, con la pronuncia in commento, ha precisato che il medesimo criterio razionale che ha già portato la stessa Corte a ritenere che «non è possibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità» trovi applicazione altresì ai fini e per gli effetti previsti dall'articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015.
Tale conclusione – precisa la Corte – trova conforto non solo in una lettura costituzionalmente orientata della norma, ma altresì nel riferimento normativo al termine «contestazione» già valorizzato dalla giurisprudenza di legittimità per equiparare all'insussistenza del fatto la completa irrilevanza disciplinare dello stesso.
Se da un lato la pronuncia in commento risulta condivisibile per la coerenza logica dimostrata, dall'altro non si può non rilevare come la teoria del “fatto giuridico” rischi di vanificare la portata normativa dell'articolo 3, comma 2, laddove il legislatore del Jobs Act, probabilmente quale reazione ai dubbi interpretativi suscitati dalla Riforma Fornero, ha voluto introdurre e specificare nella novella normativa l'aggettivo «materiale».

La sentenza n. 12174/19 della Corte di cassazione

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