Rassegna della Cassazione
Nozione di infortunio in itinere
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa
Demansionamento e risarcimento del danno
Nozione di infortunio in itinere
Cass. Sez. Lav. 17 giugno 2015, n. 12487
Pres. Vidiri; Rel. Nobile; P.M. Matera; Ric. F.A.; Controric. I.N.A.I.L; Intim. M.A. S.n.C.;
Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Infortunio - Occasione di lavoro - Infortunio in itinere - Uso di mezzo di trasporto privato - Indennizzabilità dell'infortunio - Condizioni - Fattispecie
In materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l'infortunio in itinere non può essere ravvisato in caso di incidente stradale subito dal lavoratore che si sia spostato con il proprio automezzo ove l'uso del veicolo privato non rappresenti una necessità, in assenza di soluzioni alternative, ma una libera scelta del lavoratore, tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio della strada.
Nota
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Roma che, confermando la decisione di primo grado, aveva respinto la domanda proposta dalla lavoratrice nei confronti dell'INAIL e del datore di lavoro per ottenere il pagamento delle indennità conseguenti ad un asserito infortunio sul lavoro.
Nello specifico, i giudici di merito avevano accertato che l'infortunio subito dalla lavoratrice mentre utilizzava il proprio ciclomotore non era ricollegabile ad una "occasione di lavoro" e che non era neppure emersa, in sede di istruttoria, la necessità di utilizzare tale ciclomotore per l'espletamento di un incarico di lavoro.
La lavoratrice ha presentato ricorso per cassazione, deducendo la violazione del D.P.R. 1124/1965 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) e censurando la sentenza della Corte d'Appello di Roma nel punto in cui ha ritenuto che l'infortunio de quo non fosse ricollegabile ad una occasione di lavoro.
La Corte di Cassazione ha rilevato innanzitutto che quando l'infortunio si verifica al di fuori, dal punto di vista spazio-temporale, della materiale attività lavorativa e delle vere e proprie prestazioni di lavoro, la ravvisabilità dell'occasione di lavoro, ai sensi del D.P.R. 1124/1965, è rigorosamente condizionata all'esistenza di circostanze (la cui prova, a norma dell'art. 2697 c.c., incombe sul lavoratore che agisce in sede giudiziaria per ottenere la prestazione previdenziale) che non ne facciano venir meno la riconducibilità eziologica al lavoro; in particolare, l'attività non intrinsecamente lavorativa, e non coincidente per modalità di tempo o di luogo con le prestazioni dovute, deve essere richiesta "ex necessitate" o dalle modalità di esecuzione imposte dal datore di lavoro o da circostanze di tempo e di luogo che prescindono dalla volontà di scelta del lavoratore. Nello specifico, poi, la Corte di Cassazione ha chiarito che, con riguardo all'infortunio in itinere (rispetto al quale la nozione di rischio elettivo assume una connotazione più ampia), l'occasione di lavoro non può essere ravvisata ove l'uso del veicolo privato non rappresenti una necessità, in assenza di soluzioni alternative, ma una libera scelta del lavoratore, tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio della strada.
Ebbene, nella fattispecie la Corte di merito aveva accertato che la tesi attorea, secondo cui l'infortunio sarebbe ricollegabile ad una occasione di lavoro, essendo avvenuto in esecuzione di un ordine del datore di lavoro, non è stata provata, così come non è stato provato che il ciclomotore (notoriamente più pericoloso dei mezzi pubblici) fosse l'unico mezzo che la lavoratrice potesse utilizzare o che ci fosse un'urgenza tale da esigere l'utilizzo dello stesso. Tale valutazione, a detta della Corte, risulta conforme ai principi sopra ribaditi e sorretta da congrua motivazione; per tale motivo, il ricorso è stato rigettato.
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Cass. Sez. Lav. 12 giugno 2015, n. 12241
Pres. Lamorgese; Rel. Ghinoy; P.M. Celeste; Ric. A.S.; Controric. P.T.R.T s.p.a.;
Licenziamento - Superamento periodo di comporto - Infortunio sul lavoro - Violazione art. 2087 c.c. - Danno - Nocività ambiente lavoro - Nesso causale - Onere della prova incombente sul lavoratore
Incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno a causa dell'attività lavorativa svolta l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Nota
La Corte d'Appello di Roma ha confermato la sentenza di rigetto dell'impugnativa di un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto che assumeva l'illegittimità del recesso sul presupposto che una parte rilevante delle assenze erano dipese da infortunio sul lavoro - per il quale l'INAIL aveva aperto la relativa pratica - a suo dire addebitabile ex art. 2087 c.c. alla società che non aveva adottato le misure idonee ad impedire il danno. Nello specifico l'operaio aveva riportato un infortunio a seguito di caduta mentre si recava alla toilette, da lui riconnesso causalmente alla necessità di compiere tale operazione frettolosamente ed in tempi molto ristretti a cagione della difficoltà di trovare un sostituto e dell'eccessiva distanza dei bagni dalla sua postazione di lavoro. La Corte territoriale ha motivato il rigetto sull'insufficienza delle allegazioni del lavoratore al fine di dimostrare l'ascrivibilità dell'evento occorsogli alla nocività dell'ambiente di lavoro. In particolare, secondo la Corte, non è emersa né un'eccessiva distanza dei bagni dalla postazione cui il ricorrente era addetto, né l'esistenza di insidie sul tragitto. Inoltre i Giudici del gravame hanno ritenuto ascrivibile esclusivamente al lavoratore la mancata ricerca di una sostituzione.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione articolato su un unico motivo con il quale ha lamentato plurimi vizi di motivazione. In particolare assume che, avendo egli provato la sussistenza del danno e la sua riconducibilità all'obbligazione lavorativa, la Corte territoriale, diversamente da quanto compiuto, avrebbe dovuto porre a carico della società la prova liberatoria.
La Suprema Corte rigetta il motivo affermando che, seppur sussistono divergenze di opinioni in merito alla necessità o meno che il lavoratore indichi specificamente le misure di sicurezza che il datore deve adottare per prevenire il danno (affermano tale esigenza: Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 28 agosto 2013, n. 19826; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184; Cass.7 novembre 2000, n. 14469, mentre la negano: Cass. 17 febbraio 2009, n. 3788; Cass. 13 agosto 2008, n. 21590; Cass. 6 luglio 2002, n. 9856; Cass. 3 aprile 1999, n. 3234), è pacifico il principio riportato nella massima, secondo cui è il lavoratore a dover dimostrare il danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale tra l'uno e l'altra (Cass. 23 dicembre 2014, n. 27364; Cass. 21 ottobre 1997, n. 10361; Cass. 11 dicembre 1995, n. 12661: Cass. 17 novembre 1993, n. 11351). La Corte specifica, poi, che allegare e provare la nocività dell'ambiente di lavoro significa indicare il comportamento che il datore avrebbe dovuto tenere, evidenziando una condotta del datore contraria o a misure di sicurezza espressamente imposte da una disposizione normativa che le individua concretamente, ovvero a misure di sicurezza che, sebbene non individuate specificamente da una norma, siano comunque rinvenibili nel sistema dell'art. 2087 c.c..
La Cassazione precisa, inoltre, non essere dirimente l'avvenuto riconoscimento della rendita da parte dell'INAIL, dovendosi tenere distinti i presupposti per l'azionabilità della tutela garantita dall'istituto e quelli necessari per l'accertamento di una responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.. Diversamente, infatti, dal meccanismo assicurativo pubblico - che prescinde dall'accertamento della colpa e si fonda sulla mera occasione di lavoro, cioè su di una condizione di collegamento, anche indiretta, dell'evento all'attività lavorativa - il giudizio risarcitorio proposto nei confronti del datore di lavoro implica la sussistenza e la dimostrazione da parte del lavoratore di un colpevole inadempimento, non potendo il lavoratore limitarsi a dedurre di avere riportato un danno in occasione o durante la prestazione lavorativa (Cass. 23 dicembre 2014, n. 27364).
Secondo la Suprema Corte i giudici del gravame hanno fatto corretta applicazione dei principi menzionati, motivando adeguatamente, ed il lavoratore chiede sostanzialmente una nuova valutazione delle risultanze degli atti di causa, ovvero un giudizio di fatto inammissibile in sede di legittimità, pertanto il ricorso viene rigettato.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Cass. Sez. Lav. 24 giugno 2015, n. 13116
Pres. Roselli; Rel. Tria; P.M. Matera; Ric. D.M.; Controric. S.R.E. S.A.;
Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Sussistenza - Valutazione della situazione di fatto esistente al momento della comunicazione del recesso – Necessità
La valutazione della genuina sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, determinato da ragioni inerenti l'attività produttiva - disciplinato dall'art. 3 della legge n. 604 del 1966 - deve essere effettuata sulla base degli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti al tempo di intimazione dello stesso.
Nota
La fattispecie rispetto alla quale si è pronunciata la Suprema Corte ha ad oggetto la vicenda di una lavoratrice licenziata nel 2005 per giustificato motivo oggettivo con la motivazione della necessità di soppressione della posizione funzionale attribuitale, nell'ambito di un più ampio processo di riduzione dei costi e dell'organico. All'incirca tre anni e mezzo prima del predetto licenziamento, a seguito della crisi internazionale dell'impresa assicurativa che aveva coinvolto anche la S.R. s.p.a., da cui la ricorrente dipendeva, quest'ultima società aveva attivato una procedura di mobilità. Nell'ambito della predetta procedura la società aveva comunicato alle RSA la necessità di scorporare l'attività svolta fino al 2002 da quella da effettuare dal 2003 in poi, con una riduzione dei costi, da attuare con la fuoriuscita di 130 lavoratori eccedenti, i cui profili professionali venivano individuati nella stessa comunicazione. A seguito di trattative con le OO.SS., l'8 maggio 2002 veniva stipulato un accordo per gli esodi incentivati del personale, che prevedeva che i contratti di lavoro sottoscritti dal 2003 avrebbero dovuto essere gestiti dalla neo costituita S.R.C. s.r.l. (società "figlia"), dove sarebbero transitate le unità di personale in eccedenza della S.R. s.p.a. (società "madre"), che non avessero usufruito dell'esodo incentivato, da accettare volontariamente da parte degli interessati. Per effetto del suddetto accordo la ricorrente, non avendo aderito all'esodo volontario incentivato, a far data dal settembre 2002 transitava alle dipendenze della S.R.C. s.r.l.. All'incirca tre anni e mezzo dopo la ricorrente veniva licenziata. La Corte di appello di Roma, confermando la sentenza del giudice di primo grado, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice in data 5 agosto 2005. In particolare, la Corte di appello dava rilievo alla pregressa vicenda da cui era scaturita la procedura di esodo volontario incentivato alla quale la ricorrente non aveva prestato adesione pure avendone i requisiti. La Corte di appello, inoltre, precisava che l'obbligo di repechage andasse verificato soltanto con riferimento alla situazione della società presso la quale la dipendente lavorava al momento del licenziamento e non già avendo riguardo alla situazione della società "madre". La lavoratrice proponeva ricorso avverso la sentenza della Corte di appello sorretto da tre motivi. In sintesi, la ricorrente sosteneva che la Corte di appello avesse omesso di valutare la reale natura dei rapporti intercorrenti tra la S.R. s.p.a. e la S.R.C. s.r.l. e, quindi, non avesse considerato che le due società, benchè formalmente autonome, rappresentassero nei fatti una realtà giuridica unica, ragion per cui la possibilità di ricollocamento, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte di appello, non andava considerata tenendo conto esclusivamente della situazione della società presso la quale la dipendente lavorava al momento del recesso, ma tenendo conto anche della situazione dell'altra società. La ricorrente denunciava, altresì, violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all'art. 3 della legge n. 604 del 1966 sotto il profilo della mancata prova del giustificato motivo oggettivo. La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso. La Suprema Corte, in particolare, rilevava che, a prescindere dai rapporti intercorrenti tra le suindicate società, il licenziamento intimato alla ricorrente, essendo intervenuto ben tre anni e mezzo dopo la crisi dell'impresa assicurativa, non avrebbe dovuto essere valutato come se fosse da collegare alla suddetta crisi, verificatasi molto tempo prima, ma con riguardo alla situazione sussistente al momento della comunicazione del licenziamento nell' agosto 2005. Ed infatti, ha osservato la Suprema Corte che, essendo il licenziamento della ricorrente da qualificare come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni inerenti l'attività produttiva, la Corte di appello avrebbe dovuto uniformarsi al consolidato principio secondo cui la valutazione della genuina sussistenza di tale motivo di licenziamento deve essere effettuata sulla base degli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti in quel momento e non svoltesi ormai da molto tempo (in tal senso Cass. 20 agosto 2003, n. 12261; Cass. 2 aprile 2000, n. 5301; Cass. 16 maggio 2000, n. 6363). La Suprema Corte ha, infine, rilevato che il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro, cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa - alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l'espletamento di mansioni equivalenti -, ma anche di aver prospettato, senza ottenere il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purchè tali mansioni siano compatibili con l'assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579). In virtù dei suesposti principi la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma.
Licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa
Cass. Sez. Lav. 17 giugno 2015, n. 12489
Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Matera; Ric. C.C.P. S.p.A.; Controric. T.R.;
Licenziamento - Inabilità totale alle mansioni precedentemente svolte - Accertamento medico sanitario ex art. 5 L. n. 300/70 - Impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa - Condizioni - Inesistenza nell'organizzazione aziendale di mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore - Onere della prova a carico del datore di lavoro – Sussiste
L'accertamento medico sanitario effettuato ex art. 5 L. n. 300/70 di totale inabilità del lavoratore alle mansioni precedentemente svolte integra un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa tale da giustificare il licenziamento del lavoratore solo qualora il datore di lavoro fornisca la prova dell'inesistenza in azienda di altre mansioni (anche diverse ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore e a lui attribuibili senza alterare l'organizzazione aziendale.
Nota
Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione conferma la decisione del giudice del merito che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice addetta alle mansioni di ausiliaria socio-sanitaria, motivando tale recesso con la sopravvenuta totale inabilità al lavoro della stessa. Nel caso di specie il datore di lavoro era giunto alla decisione di procedere al predetto licenziamento in base al giudizio che era stato reso da un organismo pubblico, una commissione medica ospedaliera, che, ai sensi dell'art. 5 della L. n. 300 del 1970, aveva giudicato la lavoratrice totalmente e permanentemente inabile al lavoro, il che di per sé impediva la prosecuzione del rapporto e giustificava il recesso, senza che si dovesse accertare la possibilità di adibire la dipendente ad altre mansioni equivalenti o inferiori e dovendosi avere riguardo solo alla accertata situazione di totale inabilità. Tuttavia, tale giudizio medico di totale inabilità al lavoro non veniva confermato dall'accertamento peritale eseguito in corso di causa, da cui emergeva, invece, un giudizio di non incompatibilità (fatte salve alcune limitazioni) dell'infermità riscontrata nella lavoratrice con le mansioni di ausiliaria socio-sanitaria alla stessa assegnate, come era peraltro risultato già all'epoca del licenziamento dalla relazione tecnica all'epoca redatta.
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte riconosce la correttezza della decisione del giudice del merito che, anche a voler aver riguardo alla sola situazione in essere alla data del licenziamento, aveva correttamente dato atto che non sussisteva incompatibilità fra patologia e mansioni della lavoratrice. Peraltro, la Corte di Cassazione rileva come neppure un ipotetico mutamento di tale situazione verificatosi dopo il recesso avrebbe giustificato il licenziamento della lavoratrice, atteso che - ad ogni modo - il datore di lavoro non era vincolato al difforme giudizio all'epoca espresso dalla commissione medica ospedaliera ex art. 5 della L. n. 300 del 1970, perché esso non ha valore vincolante neÌ per il datore di lavoro neÌ per il giudice, che - infatti - può sottoporlo al proprio controllo nel contesto più ampio di tutte le prove acquisite in giudizio, avvalendosi, se del caso, dell'ausilio di un consulente tecnico. Conseguentemente, in caso di contrasto tra l'accertamento sanitario avvenuto in epoca anteriore al giudizio e la consulenza disposta nel corso del processo, il giudice del merito eÌ tenuto a porre a raffronto le diverse risultanze allo scopo di stabilire quale sia maggiormente attendibile e convincente, con un apprezzamento valutativo sottratto al sindacato di legittimità ove correttamente e logicamente motivato (cfr. Cass. n. 4507/92; Cass. n. 6607/87; Cass. n. 4560/84).
Ciò posto, la Suprema Corte con la pronuncia in esame osserva come un giudizio pur di totale inabilitaÌ del lavoratore alle mansioni precedentemente svolte, formulato dalla commissione medica ospedaliera ex art. 5 della L. n. 300 del 1970, come non impone il licenziamento cosiÌ non integra un caso di impossibilitaÌ sopravvenuta della prestazione lavorativa tale da risolvere il rapporto di lavoro, essendo pur sempre onere del datore di lavoro dimostrare l'inesistenza in azienda di altre mansioni (anche diverse ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore e a lui attribuibili senza alterare l'organizzazione produttiva (cfr. Cass. n. 15500/09; Cass. n. 3245/03), sempre che il dipendente non abbia già manifestato, a monte, il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione (circostanza non verificatasi nel caso di specie).
Demansionamento e risarcimento del danno
Cass. Sez. Lav. 12 giugno 2015, n. 12253
Pres. Macioce; Rel. Amendola; P.M. Fuzio; R. S.p.A.; Controric. L.U.
Lavoro subordinato - Soppressione della mansione - Adibizione a mansioni inferiori - Illegittimità - Demansionamento - Risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
La soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza può giustificare l'adibizione del lavoratore a mansioni differenti, tuttavia, quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (sia nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, sia nel caso in cui le stesse siano soppresse), il mutamento di mansioni deve comunque attenersi alla regola della equivalenza e solo quando ciò non sia possibile si pone il problema della necessità di estinguere il rapporto di lavoro o, in alternativa, adibire il lavoratore a mansioni inferiori.
Nota
Una lavoratrice citava in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di sentir accertare l'illegittimità del demansionamento subito con conseguente condanna al risarcimento del danno sino al ripristino delle mansioni originariamente svolte o di mansioni ad esse equivalenti. La ricorrente sosteneva di essere stata assunta in qualità di annunciatrice televisiva, per essere poi adibita alla redazione di un telegiornale, dal quale era stata successivamente trasferita, dopo un periodo di assoluta inoperosità, ad un altro reparto aziendale con modifica della qualifica da "annunciatore" di 1° livello ad "aiuto regista-assistente alla regia" di 3° livello, con mantenimento però della medesima classe retributiva e di essere stata da ultimo collocata in un altro reparto, nel quale, tuttavia, non svolgeva alcuna attività lavorativa.
La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, dichiarava l'illegittimità del provvedimento di assegnazioni a mansioni inferiori, ordinando all'impresa di adibire la lavoratrice alle mansioni precedentemente espletate o ad altre equivalenti e condannando il convenuto al risarcimento dei danni, liquidati - in via equitativa - in misura pari alla metà delle retribuzioni mensili dovute per il periodo in cui era perdurato il demansionamento. Ad avviso della Corte territoriale doveva ritenersi pacifico che il livello cui appartengono le mansioni di "aiuto regista-assistente alla regia" era inferiore al livello di appartenenza delle mansioni di "annunciatore", in quanto ammesso anche dal datore di lavoro che, infatti, aveva dovuto mantenere la lavoratrice nella stessa classe retributiva posseduta in precedenza.
Per la cassazione di tale sentenza ricorreva l'impresa; la lavoratrice resisteva con controricorso.
Il datore di lavoro lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. (nella formulazione antecedente al c.d. Jobs act) nella parte in cui la Corte territoriale aveva omesso di considerare che il processo di graduale soppressione delle mansioni a cui la lavoratrice era adibita comportava un affievolimento del diritto all'attribuzione di mansioni equivalenti, con conseguente possibilità di adibirla anche a mansioni inferiori.
La Corte di cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, precisando che il divieto di mutamento in peius delle mansioni può essere derogato solamente nei casi previsti espressamente dalla legge (come, ad esempio, ai sensi dell'art. 4, comma 11, L. 223/1991 in materia di accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di licenziamento collettivo; ai sensi dell'art. 4, comma 4 L 68/1999 in relazione al lavoratore divenuto inabile in conseguenza di infortunio o malattia; ai sensi dall'art. 7, comma 5 D.Lgs 151/2001 in relazione alla lavoratrice in gravidanza adibita a mansioni a rischio) ovvero in presenza di un c.d. patto di demansionamento (in forza del quale un lavoratore, per mantenere il proprio rapporto di lavoro e in alternativa al licenziamento, accetta di essere adibito a mansioni inferiori) a condizione che vi sia l'effettivo consenso del lavoratore e che sussistano le ragioni che, in mancanza dell'accordo, avrebbero legittimato il recesso del datore di lavoro.
Al di fuori di tali casi, non sussiste un principio generale in base al quale, in caso di soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del lavoratore, si determini un "affievolimento" del diritto garantito dall'art. 2103 c.c. Nel caso di specie, il datore di lavoro non aveva allegato un problema di mancanza di mansioni equivalenti a quelle di assunzione, con la conseguenza che il mutamento di mansioni doveva considerarsi effettuato nell'esercizio discrezionale del c.d. potere di ius variandi che, ai sensi dell'art. 2103 c.c. (nella formulazione antecedente al c.d. Jobs act), non può mai comportare l'adibizione a mansioni inferiori. La Suprema Corte ha altresì ritenuto adeguatamente motivata la sentenza impugnata, affermando che la pertinenza delle mansioni di destinazione ("aiuto regista-assistente alla regia") ad un livello contrattuale inferiore rispetto a quello di appartenenza, unitamente alla privazione di compiti di rilievo (quali "la presenza in video" ed "il contributo fattivo alla realizzazione del programma") potessero costituire elementi sufficienti per formare il convincimento in merito all'assegnazione a mansioni inferiori.
La Corte ha ritenuto infondati anche gli altri motivi del ricorso principale relativi al riconoscimento del danno da dequalificazione professionale e alla relativa quantificazione in via equitativa.
Sul punto, la Corte di cassazione ha infatti affermato che il divario tra le mansioni di assunzione e quelle di destinazione, da ultimo sconfinato nella totale erosione delle funzioni, unitamente alla durata della dequalificazione, rendevano plausibile il convincimento del giudice di secondo grado circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti aveva impedito alla stessa di esercitare il quotidiano "diritto di professionalizzarsi lavorando", cagionando il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze. Per quanto riguarda la quantificazione del danno, la Corte ha confermato che la retribuzione ben può essere utilizzata come parametro per liquidare il danno derivante dall'impoverimento professionale.
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Pubblico impiego: doverosa la ripetizione della retribuzione indebita
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