Contenzioso

Le incertezze giuslavoristiche danneggiano il sistema

di Massimiliano Biolchini

Chi opera quotidianamente con il diritto del lavoro, o abbia anche solo avuto occasione di chiedere o fornire una consulenza in tale ambito, sa bene quanto le disposizioni legislative e contrattuali in materia lavoristica siano spesso ambigue, disarticolate o finanche tra loro apertamente contrastanti.

Tutto questo è il frutto innanzitutto del concorso di un legislatore iperattivo, contraddittorio e spesso frettoloso e di una cattiva tecnica redazionale spesso adottata nella stesura di leggi e provvedimenti (rara eccezione alcuni, ma non tutti, i decreti attuativi del Jobs act), insieme con le stesse parti sociali, la cui opera di regolamentazione del lavoro risente inevitabilmente dei compromessi negoziali di cui è frutto, i quali si traducono in disposizioni contrattuali (spesso volutamente) ambigue e fumose.

In tale contesto, l'operatore non può che affidarsi all'interpretazione giurisprudenziale, nell'ambito della quale assume (o meglio dovrebbe assumere) straordinaria importanza la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, a cui la legge affida il compito di assicurare «l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale» (articolo 65, del Regio decreto 12/1941).

Senonché l'esperienza insegna come siano assai frequenti i casi di interpretazioni discordanti da parte della stessa Suprema corte. A tali contrasti non sono nuove nemmeno le sezioni unite della Cassazione, alle quali spetta il compito di risolvere i casi più importanti, ovvero quelli su cui si registrano orientamenti giurisprudenziali difformi. In proposito basti pensare, per citarne uno dei più clamorosi, alla vicenda dell'applicabilità ai dirigenti della procedura di licenziamento disciplinare ai sensi dell'articolo 7 dello statuto dei lavoratori, che è stata, nell'ordine, affermata dalla Corte costituzionale (sentenza 204/1982), negata dalle sezioni unite (sentenza 6041/1995) e infine ribadita dalle medesime sezioni unite (sentenza 7880/2007), non senza che nel frattempo le sezioni semplici si fossero espresse in modo contrastante. Parimenti, soltanto nel 2014 le sezioni unite (sentenza 18353/2014) hanno risolto un conflitto sulla interpretazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in vigore dal 1970, circa la determinazione del momento esatto di cessazione del rapporto di lavoro nel caso di rifiuto della reintegrazione.

Questo principio di assoluta libertà di giudizio e interpretazione delle leggi, che trova fondamento nell'articolo 101 della nostra Costituzione («I giudici sono soggetti soltanto alla legge») differenzia fortemente il sistema giuridico-giudiziario italiano da quello dei paesi di “common law”, improntati al principio dello “stare decisis”, per cui il giudice è sempre tenuto a uniformarsi a un precedente, laddove questo si sia pronunciato su una fattispecie identica.

Il quadro sopra delineato ha, naturalmente, rilevantissime conseguenze pratiche. L'operatore, infatti, si vede spesso costretto ad adottare soluzioni ambigue o ambivalenti, cercando di rispettare l'uno e l'altro orientamento, ovvero, laddove ciò non sia possibile, si assume il conseguente (e spesso rilevante) rischio di contenzioso (che tale situazione contribuisce ovviamente ad alimentare).

Queste incertezze del nostro sistema giuslavoristico sono estremamente dannose perché creano un deficit di affidabilità del quadro di riferimento degli investimenti (percepito soprattutto all'estero), un incremento dei costi derivanti dal contenzioso e in ultima analisi impattano negativamente sulla stessa competitività del nostro sistema paese.

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