Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Illegittimità del licenziamento orale
Licenziamento per giusta causa
Pluralità di episodi rilevanti sul piano disciplinare e licenziamento
Licenziamento per giusta causa e sentenza penale

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 14 maggio 2019, n. 12787

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric. D.L.; Controric. I.S. s.p.a.;

Licenziamento per giusta causa - Dipendenti di istituti di credito - Violazione obblighi di fedeltà e diligenza - Criterio di valutazione - Maggior rigore - Necessità - Dichiarazioni confessorie in sede di audizione ex art. 7 St. Lav. - Valutazione congiunta con altri elementi indiziari.

Nel caso dei dipendenti di istituti di credito gli obblighi di fedeltà e diligenza vanno valutati secondo criteri più rigorosi, dovendosi valorizzare le mansioni svolte ed il tipo di condotta, dimodochè anche mancanze disciplinari più lievi possono essere idonee ad incrinare fortemente il rapporto di fiducia.
NOTA
Il Tribunale di Sulmona, in parziale riforma dell'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, riteneva legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una cassiera di un istituto di credito per un ammanco di denaro e per lo sconfinamento del fido concessole sul proprio conto corrente. La Corte di Appello di L'Aquila confermava la sentenza di prime cure ritenendo corretta la procedura disciplinare espletata, provati i fatti contestati ed adeguata e proporzionata la sanzione espulsiva adottata.
Avverso tale decisione la dipendente ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi e la società ha resistito con controricorso.
La Cassazione, nel rigettare il terzo motivo, afferma il principio di cui alla massima, precisando che il medesimo è conforme a precedenti in termini (Cass. 27 gennaio 2004, n. 1475; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293), e sottolinea la necessità di valorizzare la tipologia delle mansioni svolte dal dipendente che compie un'infrazione disciplinare, potendo nel caso degli istituti di credito - come avvenuto nella fattispecie oggetto di giudizio - anche ove la violazione sia dipesa da un errore, ledere insanabilmente il rapporto di fiducia. Sulla base di tale assunto la Suprema Corte ritiene corretta la decisione dei giudici di merito, che hanno ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva valutando la gravità del fatto non solo con riguardo all'elemento soggettivo dell'autore, ma con riferimento all'avvenuta lesione del vincolo fiduciario accertata considerando tutti gli elementi di contorno idonei a dare la misura della lesione, quale il tipo di attività svolta, i compiti assegnati, le dimensioni del contesto sociale nel quale i fatti sono stati posti in essere, giungendo alla conclusione che un ammanco di denaro non evidenziato (che esclude la buona fede) incrina fortemente il rapporto di fiducia per un cassiere di un istituto di credito, anche ove dipeso da un errore, perchè dimostra superficialità nella gestione dei beni.
La Suprema Corte rigetta, inoltre, anche i primi due motivi di ricorso, attinenti gli aspetti probatori, ritenendo corretta ricostruzione della vicenda di tipo indiziario compiuta nelle fasi di merito e fondata sulle dichiarazioni rese in sede di giustificazione dalla dipendente (ritenute concretanti una confessione stragiudiziale), riscontrate con altri argomenti logici e di fatto. Osserva la Cassazione che, nel caso in esame, i giudici territoriali hanno ritenuto raggiunta la prova non solo sulla base del valore confessorio delle giustificazioni rese dalla lavoratrice, ma attraverso una completa disamina di elementi logici e ontologici che hanno portato a ritenere a lei addebitabile l'ammanco contestato.
Il ricorso viene, quindi, integralmente respinto.

Illegittimità del licenziamento orale

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2019, n. 13195

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. J.; Controric. J.S.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Onere della prova - Applicabilità dell'art. 2697 cod. civ. – Fattispecie.

Il lavoratore che impugna un licenziamento deducendo che esso si è realizzato senza il rispetto della forma prescritta, ha l'onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti.
NOTA
Il Tribunale accoglieva la domanda d'illegittimità del licenziamento promossa dalla lavoratrice per aver la società comunicato oralmente la volontà di recedere dal rapporto di lavoro.
La Corte di appello, in riforma della pronuncia del tribunale, ha ritenuto non dimostrato l'avvenuto licenziamento orale e ha considerato non determinante la mancata prova delle dimissioni dedotte dalla Società.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso la lavoratrice lamentando, tra le altre cose, la violazione dell'art. 2697 c.c. per aver attribuito alla lavoratrice, anziché alla società, l'onere di provare il licenziamento orale.
La Cassazione ha respinto il ricorso.
Ed, infatti, per la Suprema Corte trova applicazione il principio generale stabilito dall'articolo 2697 c.c. secondo cui «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento». Mutatis mutandis, il soggetto che impugna un licenziamento deducendo che esso si è realizzato senza il rispetto della forma prescritta, ha l'onere di provare il fatto costitutivo della sua domanda.
In questo senso per la Cassazione la Corte territoriale ha correttamente statuito, avendo accertato che, nel corso del giudizio di merito -pur in mancanza di prova delle dimissioni della lavoratrice- non era stata fornita la prova del licenziamento orale ma solamente della cessazione delle prestazioni lavorative.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 14 maggio 2019, n. 12786

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Cimmino; Ric. I.I. S.r.l.; Controric. M.C.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Nozione – Uso di espressioni volgari e offensive nei confronti del datore di lavoro – Insubordinazione – Limiti – Assenza di intenti realmente offensivi ed aggressivi – Insussistenza giusta causa – Previsioni del codice disciplinare rilevanza.

La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. In tale valutazione, il giudice non può prescindere dalla considerazione delle previsioni del contratto collettivo relative all'individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e alla relativa graduazione delle sanzioni.
NOTA
Una guardia giurata veniva licenziata per giusta causa per aver, da un lato, contattato ripetutamente ed insistentemente la sede centrale per motivi amministrativi non urgenti (richiesta di documentazione amministrativa) durante lo svolgimento di compiti di sicurezza presso un cliente e, dall'altro, per aver usato espressioni volgari con il collega del centralino nonché per essersi riferito al datore di lavoro con l'espressione «azienda di m.…».
In riforma delle pronunce prese al termine della fase a cognizione sommaria e di opposizione, la Corte d'Appello di Roma dichiarava illegittimo il licenziamento condannando l'azienda alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno.
I giudici del reclamo non ritenevano sussistente alcuna offesa al datore di lavoro tale da minare l'elemento fiduciario, poiché le espressioni utilizzate non apparivano suscettibili di arrecare un pregiudizio all'organizzazione aziendale, in quanto del tutto prive di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli, pur avendo travalicato i limiti della educazione e della correttezza.
Avverso tale sentenza l'azienda ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.
Tra gli altri motivi di ricorso veniva lamentata violazione e falsa applicazione del CCNL Vigilanza – laddove impone ai dipendenti di usare modi cortesi e corretti verso il superiore e il pubblico – per aver i giudici di appello escluso che la violazione di tale norma, dovendo essere considerata parte integrante dei doveri generali del dipendente, potesse legittimare il licenziamento, non solo una sanzione conservativa.
La Suprema Corte ha anzitutto ribadito il pacifico principio secondo cui la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. In tale valutazione, il giudice non può prescindere dalla considerazione del contratto collettivo e, in particolare, dalla scala valoriale insita nell'individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, avvallando la sentenza impugnata per aver – in applicazione dei principî di diritto sopra richiamati – ritenuto applicabile alla condotta contestata solamente una sanzione conservativa, all'esito di una complessa valutazione, da un lato, delle previsioni del contratto collettivo in materia disciplinare e, dall'altro, della portata soggettiva ed oggettiva degli addebiti in relazione al venire meno del vincolo fiduciario.

Pluralità di episodi rilevanti sul piano disciplinare e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 15 maggio 2019, n. 13024

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Cimmino; Ric. M. S.p.A.; Controric. D.A.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Pluralità di episodi oggetto di contestazione disciplinare - Valutazione complessiva della condotta - Necessità - Fattispecie.

In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutare complessivamente la loro incidenza sul rapporto di lavoro e sul vincolo fiduciario.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento disciplinare di un dipendente (dirigente medico di una società titolare di un presidio ospedaliero) in relazione ad alcune condotte - caratterizzate da forme di negligenza - attuate in due giorni diversi con riferimento alla gestione di un paziente sottoposto ad intervento chirurgico presso il suddetto presidio ospedaliero.
La Corte d'Appello di Milano, riformando la sentenza di primo grado, annullava il licenziamento de quo e condannava la società datrice di lavoro a reintegrare il lavoratore, rilevando che i fatti addebitati a quest'ultimo erano in parte insussistenti e in parte solo astrattamente rilevanti da un punto di vista disciplinare, ma in concreto non antigiuridici per mancanza di volontà colpevole del lavoratore.
La Società datrice di lavoro impugnava la sentenza di secondo grado, rilevando che la Corte d'Appello aveva erroneamente esaminato in modo parcellizzato i singoli episodi addebitati al lavoratore, svalutandone in tal modo il giudizio di gravità, anziché considerarli unitariamente.
La Corte di Cassazione ha rilevato innanzitutto che, in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutare complessivamente la loro incidenza sul rapporto di lavoro (cfr. Cass. n. 1890/2009 e Cass. 6668/2004).
Tale principio, prosegue la Corte, è stato correttamente osservato dal giudice di seconde cure, che aveva proceduto alla disamina di tutte le condotte addebitate al dipendente. La valutazione del giudice di merito non è stata, pertanto, atomistica, ma sommatoria e complessiva di singole fattispecie che non tutte, però, si sono rivelate disciplinarmente rilevanti e, comunque, considerate unitariamente, si sono rivelate inidonee a rendere sussistente la condotta incolpata e a ledere il vincolo fiduciario. Per tali motivi la Corte ha rigettato il ricorso.

Licenziamento per giusta causa e sentenza penale

Cass. Sez. Lav. 7 maggio 2019, n. 11948

Pres. Napoletano; Rel. Di Paolantonio; P.M. Visonà; Ric. M.P.; Controric. A.D.D.D.M.;

Licenziamento per giusta causa - Sentenza penale di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione – Efficacia nel giudizio civile – Condizioni.

Il giudice, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali; e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, potendo la parte contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.
La Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda formulata dal lavoratore, volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dall'amministrazione datrice di lavoro e la conseguente condanna della stessa alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento del danno, da quantificarsi in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso.
La Corte territoriale premetteva, in punto di fatto, che al lavoratore era stato contestato di aver svolto, in maniera abituale, attività extra lavorativa di consulente del lavoro, mai autorizzata, e di aver posto in essere una condotta truffaldina nei confronti dell'istituto previdenziale, prodigandosi per far ottenere a numerosi braccianti agricoli indebite prestazioni economiche, nonché vantaggi contributivi ed assicurativi, per giornate mai lavorate.
I procedimenti disciplinari, avviati nell'anno 2004 e poi riuniti, erano stati sospesi e riavviati a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale che aveva dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati ascritti al lavoratore.
A fondamento della propria decisione il giudice d'appello rilevava che, contrariamente a quanto asserito dal reclamante, il Tribunale non aveva fondato l'affermazione della responsabilità disciplinare del dipendente sul giudicato penale, avendo, al contrario, ammesso la prova testimoniale richiesta dall'opponente e valutato le risultanze della stessa unitamente agli atti del procedimento penale, ivi compresi quelli assunti nella fase delle indagini preliminari, senza dubbio utilizzabili dal giudice civile.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su tre motivi.
Il ricorrente sosteneva che i giudici di merito avevano erroneamente ritenuto vincolante nel giudizio civile la sentenza penale di non luogo a procedere per prescrizione. Nello specifico, il ricorrente assumeva che, essendo mancato l'accertamento con sentenza passata in giudicato della responsabilità penale del dipendente, l'amministrazione, prima, ed il giudice, poi, avrebbero dovuto procedere ad un'autonoma attività di indagine, senza poter utilizzare gli atti assunti nel procedimento penale al di fuori del dibattimento ed, in particolare, le sommarie informazioni acquisite durante la fase delle indagini preliminari.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
In primo luogo, la Suprema Corte ha rilevato che, ai sensi dell'art. 67 del CCNL di settore applicabile, l'irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva è consentita, a prescindere dalla rilevanza penale dell'azione, in relazione a "fatti o atti anche dolosi che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto" (Cass. 28 agosto 2018, n. 21260).
Con riferimento alla succitata previsione contrattuale, la Suprema Corte ha osservato che in detta fattispecie poteva essere certamente sussunta anche la condotta del dipendente astrattamente idonea ad integrare un delitto quando, per il sopravvenire di una causa estintiva del reato, non fosse stato possibile accertare con efficacia di giudicato la responsabilità penale.
Il Collegio, inoltre, nel dare continuità all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in subiecta materia, ha affermato che nulla impedisce alla Pubblica Amministrazione di avvalersi, a fini disciplinari, degli atti del procedimento penale, con la conseguenza che l'amministrazione datrice di lavoro è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente (Cass. 28 agosto 2018, n. 21260; Cass. 5 aprile 2018, n. 8410; Cass. 1 marzo 2017, n. 5284; Cass. 28 settembre 2016, n. 19183; Cass. 16 gennaio 2006, n. 758).
La Suprema Corte ha altresì rilevato che il giudice, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, potendo la parte contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. 6 agosto 2018, n. 20562).
Quanto, poi, alla rilevanza della sentenza penale nel successivo procedimento disciplinare, la Cassazione ha ribadito il principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, "una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione - operato nel giudizio penale" (Cass. S.U. 9 luglio 2015, n. 14344 in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati). Il giudicato di assoluzione e, a maggior ragione, la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato non determinano l'automatica archiviazione del procedimento disciplinare perchè, fermo restando che il fatto non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare.
Con specifico riferimento al caso concreto, la Suprema Corte ha dunque ritenuto che la Corte territoriale si fosse correttamente attenuta a detti principi, non avendo attribuito efficacia di giudicato alla sentenza penale di proscioglimento per intervenuta prescrizione. Ed infatti, in relazione ad entrambi gli addebiti contestati al lavoratore, i giudici di merito, dopo avere dato spazio alle richieste istruttorie del ricorrente, hanno proceduto ad una complessiva valutazione del materiale probatorio acquisito in sede civile e nel corso del procedimento penale, ed hanno ritenuto provato sia lo svolgimento dell'attività di consulente non autorizzata, sia la condotta truffaldina, finalizzata a far ottenere ai propri assistiti erogazioni di trattamenti assistenziali e previdenziali non dovuti.

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