Contenzioso

La conclusione anticipata non porta alla reintegra

di Monica Lambrou

La regola generale sul patto di prova prevista dall’articolo 2096 del Codice civile sulla possibilità per le parti del rapporto di lavoro di sciogliersi dal vincolo assunto, è rappresentata dalla libera recedibilità di entrambi i soggetti.

Salvo il caso in cui il patto risulti nullo per assenza di forma scritta o mancata indicazione delle mansioni oggetto di prova, quindi, il datore di lavoro può astrattamente optare per un recesso ad nutum e, segnatamente, allontanare il lavoratore a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia giustificato motivo o giusta causa.

Tuttavia, nel silenzio della legge sul punto, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta a offrire alcune garanzie in favore del lavoratore in prova e, in particolare, a tutelare quest’ultimo laddove la durata del periodo di prova alle dipendenze del datore sia del tutto insufficiente a garantirgli un’effettiva esecuzione dell’esperimento.

È il caso che si verifica, ad esempio, quando le parti stabiliscono una durata del patto in linea con le disposizioni della contrattazione collettiva e, tuttavia, la parte datoriale recede anticipatamente, adducendo il mancato superamento (o l’esito negativo) della prova.

Ebbene, in una ipotesi simile, si è osservato che, nonostante la natura totalmente discrezionale della scelta dell’imprenditore, quest’ultimo abbia comunque l’onere di esercitare il potere di recesso in maniera «coerente con la causa del patto di prova», cosicché, se in concreto alle parti non sia consentito di verificare, in maniera effettiva, la reciproca convenienza dell’assunzione, in quanto «la durata dell’esperimento non risulti adeguata ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova», non è configurabile un esito negativo della prova (in questo senso, si veda la sentenza della Cassazione n. 19558 del 13 settembre 2006).

Appare difficile, in questo senso, individuare con precisione un periodo minimo di riferimento: la congruità della durata non può che essere oggetto di valutazione in sede giurisdizionale, sulla base del concreto esplicarsi del rapporto e della tipologia di mansione cui risulterebbe addetta la persona da assumere, con onere probatorio a carico del prestatore che ne adduca l’insufficienza. Risulta, ad ogni modo, evidente che, a fronte di una maggiore complessità tecnica dell’attività lavorativa richiesta, debba ritenersi proporzionalmente necessaria una durata della prova superiore, perchè la verifica della sua idoneità non si riveli soltanto apparente.

Fatte queste premesse, bisogna anche osservare che, quand’anche si accerti l’illegittimità del recesso anticipato per l’ipotesi considerata, le conseguenze giuridiche in cui può incorrere il datore di lavoro si limitano a una potenziale condanna alla «prosecuzione della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato» ovvero, ricorrendone i presupposti, al risarcimento del danno, dovendosi, per converso, escludere che «il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito», o che possa trovare applicazione il regime sanzionatorio previsto dalla legge 604/1966 sui licenziamenti individuali e dallo Statuto dei lavoratori, la legge 300/1970 (si veda la sentenza della Cassazione 23231 del 17 novembre 2010).

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