Rapporti di lavoro

Il limite al subappalto nei contratti pubblici è illegittimo e penalizza le Pmi

di Rossella Schiavone

L’articolo 105, comma 2, del Codice dei contratti pubblici (Dlgs n. 50/2016) stabilisce quale limite ai subappalti la quota del 30% dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture e, in merito il Dl 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, ha disposto che, nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti pubblici, il subappalto non possa superare la quota del 40% dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture.

Il fatto
Con bando di gara pubblicato nel mese di agosto 2016, Autostrade per l'Italia spa ha indetto una procedura ristretta per l'affidamento, mediante gara, dei lavori di ampliamento della quinta corsia dell'autostrada italiana A8 tra la barriera di Milano Nord e l'interconnessione di Lainate.
Una società privata italiana è stata esclusa dalla gara per avere superato il limite previsto in materia di subappalto dal Codice dei contratti pubblici e ha proposto ricorso davanti al giudice del rinvio per ottenere la sua riammissione in gara.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia Ue la seguente questione pregiudiziale:
«Se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 [Tfue], l'articolo 71 della direttiva 2014/24, il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio di diritto dell'Unione europea di proporzionalità, ostino all'applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell'articolo 105, comma 2, terzo periodo, del Dlgs n. 50/2016, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture».

La decisione della Corte di giustizia
Per la Corte di giustizia Ue il contrasto al fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del Tfue che si applicano nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, tuttavia una restrizione come quella prevista dal Codice dei contratti pubblici italiana eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo e non lascia alcuno spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell'ente aggiudicatore.
Quindi, in Italia, per tutti gli appalti pubblici, una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi deve essere realizzata dall'offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell'appalto, anche nel caso in cui l'ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell'ambito dell'appalto in questione.
In effetti ci sarebbero altre misure idonee a raggiungere l'obiettivo perseguito dal legislatore italiano e il nostro diritto prevede già numerose attività interdittive espressamente finalizzate a impedire l'accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese.
Pertanto per la Cgue - sentenza del 26 settembre 2019, causa C-63/18 - la restrizione al ricorso del subappalto prevista dal Dlgs n. 50/2016 non è compatibile con la direttiva 2014/24/Ue.

Le Pmi penalizzate dal Codice dei contratti pubblici
È il caso di rammentare che già la Commissione europea il 24 gennaio scorso aveva inviato al nostro Paese una lettera di costituzione in mora (infrazione 2018/2273) che, tra l'altro, contestava le norme riguardanti il subappalto, rilevando, nello specifico, che nelle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue non vi sono disposizioni che consentano un limite obbligatorio all'importo dei contratti pubblici che possa essere subappaltato.
Al contrario, le direttive si basano sul principio secondo cui occorre favorire una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, ed il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo può essere raggiunto.
La suddetta conclusione è stata già confermata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue nella causa C-406/14, in cui la Corte ha statuito che una clausola la quale impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell'appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso - e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale delle prestazioni di cui si tratta - è incompatibile con la direttiva 2004/18/Ce.
La Commissione in tale occasione aveva, peraltro, rilevato che, per quanto la succitata giurisprudenza della Corte di giustizia fosse stata elaborata in relazione alle precedenti direttive contratti pubblici del 2004, non vi è alcuna ragione per ritenere che le nuove direttive contratti pubblici del 2014 ammettano (contrariamente alle direttive del 2004) restrizioni quantitative al subappalto fissate in maniera astratta in una determinata percentuale dell'appalto.
La recentissima sentenza della Cgue pone quindi fine alla diatriba e obbliga l'Italia a rivedere le norme sul ricorso al subappalto nei contratti pubblici, in linea con la richiesta a suo tempo fatta dall'Associazione dei costruttori (Ance) che vede nella norma in questione una grave violazione della libertà di organizzazione d'impresa incompatibile con le direttive Ue sugli appalti.

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