Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

La procedura per i licenziamenti collettivi

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Reintegrazione e onere della prova del requisito dimensionale dell'impresa

Premio di fedeltà e computo del Tfr

Prova del danno da demansionamento

La procedura per i licenziamenti collettivi

Cass. Sez. Lav. 18 novembre 2015, n. 23609

Pres. Stile; Rel. Venuti; P.M. Ceroni; Ric. B. S.p.A.; Controric. R.C.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Indicazione nella comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 - Necessità - Possibilità di deroga da parte del datore di lavoro - Esclusione - Ratio - Controllo della correttezza e trasparenza dell'operazione

La determinazione datoriale di ridurre il personale, insindacabile nel merito, in quanto frutto di valutazione discrezionale, subisce una limitazione solo nel momento della individuazione dei soggetti coinvolti. Ne consegue che il datore di lavoro, una volta stabiliti i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, non può derogare a tali criteri, atteso che tale condotta non consente alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza e la trasparenza dell'operazione e non pone in grado il lavoratore di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l'illegittimità della misura espulsiva.

Nota

La Corte d'Appello di Bari, confermando la sentenza di primo grado, accertava l'illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991, in quanto non solo erano stati adottati criteri di scelta difformi da quelli indicati nella comunicazione di cui all'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991, ma non era stato dato conto, per ciascuno dei lavoratori, dei criteri di comparazione adottati, in modo da consentire ai sindacati e agli organi amministrativi di assolvere alla loro funzione di controllo.

Nello specifico, osservava la Corte territoriale che, sebbene nella comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/91, la società datrice aveva dichiarato di aver applicato i criteri legali di cui all'art. 5, c. 1, l. n. 223/1991 in concorso tra di loro (id est: carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico organizzative), di fatto, poi, la selezione del personale da porre in mobilità era avvenuta esclusivamente in base al criterio dei carichi di famiglia, come, del resto, ammesso dalla società nel giudizio di primo grado. Avverso la predetta sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso la lavoratrice, la quale, a sua volta, proponeva ricorso incidentale avverso la declaratoria di parziale compensazione delle spese. La Suprema Corte, ha respinto il ricorso principale, evidenziando come la specificità dell'indicazione dei criteri di scelta adottati, nonché delle modalità di applicazione degli stessi, nell'ambito della comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. 223/1991, rappresenti un momento decisivo ed essenziale della procedura di mobilità, in quanto funzionale a garantire, da un lato il controllo, da parte delle OO.SS. e degli organi amministrativi (cui è indirizzata la comunicazione finale), della corretta applicazione dei criteri di scelta, secondo i principi generali di correttezza e buona fede; dall'altro, la conoscenza, da parte del lavoratore, dei motivi del licenziamento, in modo da consentirgli una puntuale contestazione della misura espulsiva.

Partendo da tale premessa, la Suprema Corte è giunta ad affermare che il datore di lavoro, una volta stabiliti i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (legali e/o contrattuali) e indicati nella comunicazione finale ex art. 4, c. 9, l. n 223/1991, non può derogare agli stessi (in fase applicativa), atteso che tale comportamento, di fatto, impedisce, da un lato, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza e la trasparenza dell'operazione e, dall'altro, al lavoratore di percepire perché lui, e non altri, sia stato licenziato.

La Corte di legittimità ha, invece, ritenuto fondato il ricorso incidentale (e, pertanto, cassato la sentenza impugnata), avendo la Corte di merito errato nel ritenere che la lavoratrice fosse rimasta parzialmente soccombente, solo perché tenuta alla restituzione del trattamento di fine rapporto (per effetto dell'accoglimento delle domande di illegittimità del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro). Ha osservato, infatti, la Corte, da un lato, che la restituzione del TFR è una mera conseguenza dell'accoglimento delle domande e, dall'altro, che non risultava che la lavoratrice si fosse mai opposta a detta restituzione.



Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2015, n. 23791

Pres. Napoletano; Rel. De Marinis; P.M. Celeste; Ric. M.F.; Contr. C.F.S. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giustificato motivo - Oggettivo - Per soppressione della posizione di lavoro - Necessità di uno stato di crisi aziendale, di esigenze di riorganizzazione o riduzione dei costi - Esclusione - Insindacabilità delle scelte imprenditoriali - Fattispecie.

Il giustificato motivo oggettivo del recesso datoriale non deve necessariamente collegarsi ad uno stato di crisi o, comunque, ad oggettive esigenze di riorganizzazione aziendale o riduzione dei costi. Milita in tal senso l'operatività, riconosciuta ora anche in via legislativa, del principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, che assegna al giudice un mero potere di verifica della corrispondenza del provvedimento espulsivo rispetto all'esigenza organizzativa invocata, qualunque sia la finalità perseguita, fosse anche quella della maggiore redditività.

Nota

La sentenza in commento trae origine da una pronuncia della Corte d'Appello di Perugia che, confermando la decisione di primo grado, respingeva la domanda di un lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dalla società sua datrice di lavoro.

In particolare, la Corte territoriale, riteneva comprovata l'intervenuta soppressione del posto di adibizione del ricorrente, sulla base del dato per cui alla cessazione del rapporto non aveva fatto seguito alcuna assunzione che prefigurasse una sostituzione di altro dipendente nel livello di inquadramento e nel ruolo del ricorrente medesimo.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione lamentando la non conformità a diritto e l'incongruità logica del convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine alla legittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, in particolare sotto il profilo della sussistenza dell'esigenza organizzativa addotta e del suo impatto sul rapporto di lavoro in questione. In particolare, il ricorrente lamentava come la Corte territoriale si fosse discostata dall'insegnamento della Cassazione per il quale nella nozione di giustificato motivo oggettivo rientra l'ipotesi, nella specie - secondo l'assunto del ricorrente - non ravvisabile, di riassetti organizzativi attuati per la più economica gestione dell'azienda, purché non pretestuosi o strumentali bensì volti a fronteggiare situazioni sfavorevoli e non contingenti che influiscano decisamente sulla normale attività produttiva, imponendo l'effettiva necessità di riduzione dei costi.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso affermando in particolare che il giustificato motivo oggettivo del recesso datoriale non deve necessariamente collegarsi ad uno stato di crisi o, comunque, ad oggettive esigenze di riorganizzazione aziendale o riduzione dei costi. Milita in tal senso l'operatività, riconosciuta ora anche in via legislativa, del principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, che assegna al giudice un mero potere di verifica della corrispondenza del provvedimento espulsivo rispetto all'esigenza organizzativa invocata, qualunque sia la finalità perseguita, fosse anche quella della maggiore redditività (cfr. Cass. 3 luglio 2015, n. 13678).



Reintegrazione e onere della prova del requisito dimensionale dell'impresa

Cass. Sez. Lav. 11 novembre 2015, n. 23073

Pres. Venuti; Rel. Doronzo; P.M. Mastroberardino; Ric. S.G.S..S.C.; Contr. Z.A.

Licenziamento disciplinare - Rito c.d. Fornero - Tutela reintegratoria ex art. 18, co. 4, l. 300/1970 - Requisito dimensionale dell'azienda - Onere della prova - Lavoratore - Non sussiste

Il lavoratore che chieda di usufruire della tutela reale apprestata dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970 non ha l'onere di provare il requisito dimensionale dell'impresa in cui era inserito, gravando tale onere sul datore di lavoro che ne eccepisca l'inesistenza.

Nota

Con la pronuncia in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso di impugnativa giudiziale di licenziamento disciplinare, in cui il lavoratore chiedeva l'applicazione della tutela reintegratoria apprestata dall'art. 18, comma 4, della l. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), come novellato dalla l. 92/1012 (c.d. legge Fornero). Come è noto, tale ultima legge ha modificato l'art. 18 suddetto graduando l'intensità della tutela in relazione alla "gravità" del vizio del licenziamento: aprendo, nei casi ritenuti meno gravi, anche a tutele meramente indennitarie in luogo della precedente - monolitica - tutela reintegratoria. La sentenza, che si occupa altresì di molteplici aspetti processuali, in gran parte attinenti al giudizio di Cassazione, riprende un principio già affermato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 10 gennaio 2006, n. 141), ribadendo che non è onere del lavoratore dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale dell'azienda qualora proceda all'impugnativa giudiziale del licenziamento chiedendo l'applicazione dell'art. 18 l. 300/1970, e ciò anche in relazione alle fattispecie incardinate secondo il sopravvenuto rito c.d. "Fornero". Al contrario, i Giudici sostengono che tale onere ricade sul datore di lavoro che intenda resistere in giudizio a tali domande eccependo il difetto del requisito dimensionale previsto dal citato art. 18, comma 8, l. 300/1970.

Invero, in ragione della formulazione della norma, è da ritenersi che il dictum della Corte si applichi a tutti i casi in cui il lavoratore impugni il licenziamento chiedendo l'applicazione delle tutele di cui all'art. 18, commi 4 e seguenti: vale a dire anche nei casi (forse, "di scuola") in cui si chieda solo l'applicazione della tutela meramente indennitaria ex art. 18, commi 5, 6 e 7, l. 300/1970; dunque, con l'unica esclusione del caso in cui l'ex dipendente lamenti la natura discriminatoria del recesso: vizio che - se accertato - porta alla reintegrazione indipendentemente dal numero di lavoratori occupati (art. 18, commi da 1 a 3, l. 300/1970).

Per giungere a tale risultato interpretativo, la Corte sviluppa la questione della prova del requisito dimensionale in primo luogo con riferimento all'instaurazione del processo secondo il rito speciale previsto dall'art. 1, commi 48 e ss., l. 92/2012 (c.d. rito "Fornero"): ed infatti va ricordato che tale rito si applica solo alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa di licenziamenti rientranti nell'ambito applicativo dell'art. 18 l. 300/1970.

Sul punto, la Cassazione - dopo aver ribadito che in tali ipotesi la scelta del rito processuale è sottratta alla disponibilità delle parti - afferma che "l'individuazione dei presupposti per l'applicabilità" del rito "Fornero" "rientra nei poteri-doveri del giudice, al quale compete in via preliminare verificare la compatibilità della domanda con il tipo di rito e di tutela prescelta". Inoltre, a parere della Corte, dall'accennata "obbligatorietà del rito scaturisce, come logica conseguenza, l'attribuzione, in via esclusiva all'autorità giudiziaria, secondo il principio iura novit curia, del potere di qualificare la domanda in base al petitum sostanziale e di individuare così il rito concretamente applicabile". Sulla base di tali argomentazioni, i giudici di legittimità giungono ad affermare che "ai fini dell'adozione del rito speciale, il ricorrente non ha l'onere della specifica allegazione della sussistenza del requisito dimensionale". Logica conseguenza di quanto appena detto è che se il lavoratore che impugni un licenziamento non è tenuto a provare la sussistenza del requisito dimensionale ai fini dell'applicazione del rito processuale speciale (c.d. "Fornero"), perché spetta al giudice la corretta qualificazione della domanda e la conseguente riconduzione del procedimento al rito appropriato, lo stesso principio - secondo i giudici della Corte - non potrebbe non valere anche per l'accesso alla tutela sostanziale specificamente prevista dall'art. 18 l. 300/1970. In ragione di ciò, il lavoratore che chieda l'applicazione del succitato art. 18 non è tenuto a provare che l'azienda presso la quale lavorava soddisfa il requisito dimensionale previsto dal comma 8 di tale ultima norma, spettando invece a quest'ultima eccepirne il difetto.



Premio di fedeltà e computo del Tfr

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2015, n. 23800

Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. I.S. S.p.A.; Contr. S.M.;

Calcolo TFR - Criteri - Non occasionalità della prestazione - Premio di fedeltà – Inclusione

In tema di trattamento di fine rapporto - premesso che la nozione di retribuzione accolta dall'art. 2120, comma 2, c.c., prescinde dalla ripetitività regolare e continua e dalla frequenza delle prestazioni e dei relativi compensi, i quali vanno esclusi dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto solo in quanto sporadici ed occasionali - il premio fedeltà erogato al lavoratore, salva diversa ed espressa previsione dei contratti collettivi, è computabile nella base di calcolo ai fini della determinazione del trattamento medesimo, trovando la propria fonte di riferimento nella protrazione dell'attività lavorativa per un certo tempo ed essendo rigorosamente collegato allo svolgimento del rapporto di lavoro, anche se non alla effettiva prestazione.

Nota

La Corte di appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale, accoglieva la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere l'accertamento del suo diritto al computo nel TFR del premio di fedeltà previsto dalla contrattazione collettiva integrativa aziendale.

A fondamento della propria decisione la Corte di merito rilevava che il premio di fedeltà in parola trovava la propria fonte nella protrazione dell'attività lavorativa per un certo tempo ed era rigorosamente collegato allo svolgimento del rapporto di lavoro sicché aveva i requisiti di dipendenza dal rapporto stesso e di non occasionalità come prescritto dall'art. 2120 c.c.

Avverso tale decisione il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2120 c.c. e delle norme del contratto collettivo.

La Suprema Corte respinge il ricorso rilevando preliminarmente che, come più volte affermato dalla sezione, l'abbandono da parte del legislatore del 1982 della nozione di "continuità" ravvisabile nel vecchio testo dell'art. 2120 c.c. e la sostituzione del sistema di determinazione del trattamento di fine rapporto non più basato, come in passato, sull'ultima retribuzione percepita, bensì sulla sommatoria di quote di retribuzione annue accantonate, ha condotto la prevalente giurisprudenza a non assegnare rilievo alla frequenza delle erogazioni ma a far leva sulla "qualità" dell'emolumento corrisposto, dando così rilevanza al titolo dell'erogazione, escludendo solo quelle prestazioni collegate a ragioni aziendali del tutto eventuali, imprevedibili e fortuite (cfr. Cass. del 5 giugno 2000, n. 7488; Cass. del 21 aprile 2008, n. 10303). Tra queste ultime non può certo essere compreso, prosegue la Suprema Corte, il premio di anzianità erogato al lavoratore, nel caso di specie, in occasione del ventesimo anno di attività che è certamente computabile nella base di calcolo ai fini della determinazione del TFR, trovando la propria fonte di riferimento sostanziale nella protrazione dell'attività lavorativa per un certo tempo ed essendo rigorosamente collegato allo svolgimento del rapporto di lavoro, anche se non alla effettiva prestazione lavorativa (cfr. Cass. del 21 luglio 2014, n. 16591).

Fermo restando che ai sensi dell'art. 2120, comma 2, c.c., la contrattazione collettiva è abilitata a definire liberamente la retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, escludendovi o includendovi qualsiasi voce, spettando all'autonomia delle parti determinare il peso che questa forma di retribuzione differita deve assumere nell'economia del rapporto, tuttavia quando la contrattazione collettiva non disponga diversamente si applica, con riferimento alle singole voci erogate - in denaro o in natura - a titolo non occasionale, la regola della onnicomprensività della retribuzione. Nel caso di specie, a parere della Cassazione, la corte di merito ha fatto corretta applicazione dei princìpi sopra richiamati nella interpretazione delle disposizioni contrattuali invocate ai fini della individuazione delle singole voci da includere nella base di computo del TFR.



Prova del danno da demansionamento

Cass. Sez. Lav. 23 novembre 2015 n. 23838

Pres. Stile; Rel. Berrino; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. M.F.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Demansionamento - Prova del danno - Prova per presunzioni - Ammissibilità – Sufficienza

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

Nota

La sentenza in commento ha ad oggetto il demansionamento del lavoratore e, in particolare, la possibilità di raggiungere la prova del relativo danno esclusivamente sulla base di presunzioni.

La Corte d'Appello di Milano, riformando parzialmente la sentenza del Giudice di prime cure, condannava la società datrice di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore, per l'intervenuta illegittima dequalificazione dello stesso.

Il lavoratore, infatti, aveva svolto per oltre sei mesi il ruolo di Direttore di un ufficio postale che era stato appena riclassificato ad un livello superiore (A1) e, successivamente, era stato trasferito ad altro ufficio di livello inferiore (A2), sempre con mansione di Direttore. Secondo il contratto collettivo applicato al rapporto al ruolo di Direttore di un ufficio A1 doveva corrispondere un livello d'inquadramento del lavoratore superiore rispetto a quello attribuito al Direttore di ufficio di livello A2.

Contro la sentenza della Corte territoriale la società ha proposto ricorso per Cassazione, cui il lavoratore resisteva con controricorso e proponendo, a sua volta, ricorso incidentale. La Corte, dopo aver riunito i giudizi, ha rigettato entrambi i ricorsi.

In particolare, la società ha, da un lato, contestato l'attribuzione automatica del livello superiore al lavoratore per effetto della sola riclassificazione dell'ufficio cui era adibito, senza alcuna valutazione sulle mansioni espletate in concreto; dall'altro lato, ha ritenuto errata l'affermazione circa l'esistenza del diritto del lavoratore al risarcimento del danno da dequalificazione professionale fondata su semplici presunzioni e in mancanza di ulteriori approfondimenti istruttori.

Quanto al primo punto, la Suprema Corte ha giudicato corretta la valutazione della Corte d'Appello secondo la quale l'esplicita attribuzione di un determinato livello da parte del contratto collettivo alle mansioni di Direttore di un ufficio classificato come A1 escludeva la necessità di un accertamento di merito sul punto.

Quanto, poi, al secondo profilo la Cassazione ha affermato che "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni (...)".

Secondo la Suprema Corte, pertanto, la Corte d'Appello ha correttamente applicato tale principio nel rilevare, sulla base di soli elementi presuntivi quali la durata dell'accertata dequalificazione e lo spostamento del lavoratore alla direzione di una struttura di minore importanza e minor rilievo, l'esistenza di un danno da demansionamento.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©