Repechâge, appesantiti gli oneri difensivi datoriali
È noto che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede la presenza di ragioni inerenti all'attività produttiva o all'organizzazione del lavoro, così come è altrettanto noto che tra gli elementi costitutivi della fattispecie, alla luce di una consolidata elaborazione giurisprudenziale, rientra l'impossibilità di esercitare il repechage.
Un indirizzo consolidato della Cassazione ha ritenuto sin qui che l'onere del datore di lavoro di dimostrare in giudizio l'inesistenza di posizioni alternative ove poter ricollocare il lavoratore, in alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sia condizionato alla preventiva allegazione, a carico del lavoratore che impugni il licenziamento, in un'ottica di collaborazione processuale, dell'esistenza di altre mansioni a cui poter essere utilmente assegnato.
Con la sentenza n. 5592 depositata ieri la Corte ribalta completamente la prospettiva e sostiene che, alla luce dei principi generali in materia di riparto degli oneri della prova, al lavoratore licenziato non può essere richiesto di collaborare in via preventiva allo scopo di identificare un suo possibile repechage e, pertanto, non può essere posto a suo carico l'onere di allegare e dedurre la presenza di altri posti di lavoro aziendalmente disponibili.
Facendo una rigida applicazione dell'articolo 5 della legge 604/66, a norma del quale l'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento spetta al datore di lavoro, la Cassazione afferma che l'onere della prova sul repechage ricade unicamente in capo al datore di lavoro, eliminando tout court anche la semplice necessità che il lavoratore cooperi nelle battute iniziali del giudizio con una, sia pur generica, indicazione di mansioni alternative.
La tesi espressa dalla Cassazione con quest'ultima pronuncia non può essere condivisa, perché finisce per confondere l'onere della prova, che senza alcun dubbio compete al solo datore di lavoro (ma questo non è mai stato oggetto di contestazione), con la mera individuazione di elementi presuntivi volti a circoscrivere l'ambito di indagine sul repechage del lavoratore licenziato.
Pensiamo ad un'impresa di medio/grandi dimensioni con uno stabilimento produttivo di 300 dipendenti, nel quale viene disposto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di due operai, a fronte di una popolazione inquadrata nella medesima categoria composta da non meno di 250 persone. In un simile contesto, l'onere di collaborazione richiesto al lavoratore, che decida di impugnare il licenziamento davanti al Giudice del Lavoro, mediante l'individuazione di possibili mansioni alternative nell'ambito dello stabilimento produttivo, ha esclusivamente una funzione di semplificazione dell'attività istruttoria e certamente non equivale a porre sulle sue spalle un onere di prova circa la violazione del repechage.
È in questo passaggio della sentenza, laddove si pretende di assimilare l'allegazione prodromica, richiesta al lavoratore, di possibili alternative occupazionali alla dimostrazione, invece, di non aver violato il diritto di repechage posto a carico del datore di lavoro, che risiede l'errore in cui è incorsa la Cassazione con la sentenza n. 5592 depositata ieri.
Inevitabilmente, se la Cassazione non vorrà porre pronto rimedio a questo suo improvviso e inaspettato “revirement”, le nuove cause di impugnazione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo finiranno per essere appesantite da un onere difensivo datoriale più consistente, con inevitabili ricadute sull'incremento dell'attività istruttoria demandata al giudice e, quindi, sulla durata complessiva del processo.