Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci


Licenziamento disciplinare

Sulla legittimità della reintegra in luogo diverso da quello originariamente assegnato

Licenziamento disciplinare e investigatori privati

Nullità del patto di prova

Giusta causa di licenziamento e permessi ex lege 104

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 25 agosto 2016, n. 17337

Pres. Amoroso; Rel. Manna; P.M. Servello; Ric. S.S. s.r.l.; Controric. L.D..

Licenziamento disciplinare - Tipizzazione delle ipotesi di sanzioni conservative da parte del CCNL - Rilevanza - Autonoma valutazione da parte del giudice - Esclusione - Licenziamento - Sproporzione - Illegittimità

In materia di licenziamento disciplinare, se il fatto addebitato al dipendente è assoggettato dalla contrattazione collettiva a sanzioni meramente conservative anche nei casi di maggiore gravità, il giudice non può estendere il catalogo delle giusta cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti. Viceversa, può controllare che le pattuizioni collettive disciplinari rispondano all'art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo condotte per loro natura assoggettabili a sanzioni conservative.

Nota

Il Tribunale di Salerno dichiarava illegittimo, in quanto sproporzionato, il licenziamento disciplinare senza preavviso intimato ad un lavoratore e ne ordinava la reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18 Stat. Lav. (nel testo previgente alla novella di cui all'art. 1, L. n. 92/12).

Il licenziamento era stato intimato per avere il dipendente deliberatamente danneggiato l'auto di un proprio collega di lavoro parcheggiata nel complesso industriale dello stabilimento della società.

La Corte d'Appello di Salerno, ai sensi del combinato disposto degli artt. 436 bis e 348 ter c.p.c., dichiarava inammissibile il gravame proposto dalla società.

In ragione di tale provvedimento, la società impugnava direttamente la sentenza di primo grado, proponendo ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 348 ter c.p.c., denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e della normativa del CCNL di settore (industria del vetro), per avere il giudice del merito ritenuto rilevante - ai fini dell'esclusione della proporzionalità della sanzione - la circostanza della successiva riappacificazione tra l'autore dell'illecito e la vittima, dovendosi, invece avere riguardo, nel giudizio di proporzionalità della sanzione, all'attitudine dell'infrazione contestata a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario proprio del rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, sulla scorta dei seguenti principi: a) la gravità della condotta va accertata prima in astratto (verificando la sussumibilità della stessa nelle previsioni pattizie e/o nella nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo), e poi in concreto (tenendo conto delle circostanze soggettive e oggettive che l'hanno caratterizzata), sicchè il difetto di uno dei due profili esclude la sufficienza dell'altro; b) la gravità (in concreto) dell'infrazione va valutata sotto il profilo oggettivo e soggettivo (tenendo presente, ad esempio di fattori, quali: il danno arrecato, l'intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari, etc.) e deve essere tale da ledere il vincolo fiduciario e la futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto (cfr. ex plurimis Cass. 17/07/2015, n. 15058; Cass. 13/02/2012, n. 2013).

Il Giudice, una volta accertato il fatto addebitato, deve, quindi: in primo luogo, controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell'art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte, per loro natura, assoggettabili solo ad eventuali sanzioni conservative; in secondo luogo - e solo dopo che tale verifica consenta di escludere la nullità delle clausole del contratto collettivo e permetta comunque di ritenere che l'infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso - procedere ad una valutazione in concreto della gravità degli addebiti. Inoltre, la Suprema Corte, ha ribadito il ben noto principio (cfr. ex plurimis Cass. 17/07/2015, n. 15058; Cass. 22/02/2013, n. 4546; Cass. 17/06/11, n. 13353) secondo cui, se è vero che, essendo quella di giusta causa o giustificato motivo una nozione legale, la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice di merito (tant'è che il giudice di merito può disattendere le previsioni di CCNL che prevedano il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo per condotte di oggettiva tenuità) è altresì vero che il giudice non può fare l'inverso, cioè estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti, con la conseguenza che ove il CCNL preveda (per la condotta contestata) sanzioni conservative il giudice è vincolato alla tipizzazione del CCNL e non può ritenere giustificato il licenziamento nelle stesse ipotesi.

Ebbene, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia con la quale il Giudice del merito ha dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare, e ciò in quanto la condotta in oggetto: 1) non rientra tra quelle astrattamente suscettibili di licenziamento, bensì in una sanzione conservativa; 2) comunque, non riveste carattere di gravità, considerato che tra il danneggiante e il danneggiato c'è stata una riappacificazione.

Quanto al primo profilo, la Corte di legittimità lo ha ritenuto correttamente indagato, poiché il contratto collettivo applicabile prevede sanzioni conservative, anche nei casi di maggiore gravità, per atti che "arrechino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene e alla sicurezza dello stabilimento". Ed invero, procedendo ad un'esegesi delle clausole del CCNL per l'industria del vetro, la Suprema Corte ha escluso che il fatto contestato fosse assoggettabile a sanzione espulsiva, avendo le parti sociali considerato come meritevole di licenziamento soltanto delitti (salvo il diverbio litigioso seguito da vie di fatto e/o rissa nello stabilimento) che vedano come soggetto passivo l'azienda e consistenti, nello specifico, nel danneggiamento volontario di materiale dello stabilimento o di materiale di lavorazione. Nel caso di specie, conclude la Corte, il fatto è stato commesso ai danni di un collega di lavoro (e non dell'azienda), al di fuori dell'orario di lavoro e in una mera pertinenza aziendale.

Quanto al secondo profilo (id est: quello inerente alla gravità in concreto dell'infrazione) la Corte lo ha ritenuto - ancor prima che confinato nell'area dell'apprezzamento di merito (e, quindi, non censurabile in sede di legittimità) - irrilevante, poiché il fatto addebitato, pur arrecando pregiudizio alla disciplina dello stabilimento si colloca, per esplicito dettato contrattuale, nell'area della sanzioni non espulsive (alla cui tipizzazione il Giudice è vincolato), anche se lo si valutasse di maggiore gravità.

 

Sulla legittimità della reintegra in luogo diverso da quello originariamente assegnato

Cass. Sez. Lav. 24 agosto 2016, n. 17298

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. A.V.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Reintegra nel posto di lavoro - Corrispondenza con le mansioni e il luogo di lavoro originari - Necessità - Trasferimento - Requisiti - Rifiuto del lavoratore a riprendere il servizio in luogo diverso - Licenziamento per assenza ingiustificata - Illegittimità

L'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti.

Nota

La sentenza in esame ha ad oggetto la legittimità della reintegra nel posto di lavoro in luogo diverso da quello originariamente assegnato.

Nel caso di specie la lavoratrice otteneva una prima volta la condanna della società datrice di lavoro alla reintegra nel posto di lavoro. A seguito di tale provvedimento la società datrice di lavoro non disponeva la reintegra immediata presso la sede cui la lavoratrice era assegnata in precedenza (Aversa), bensì la invitava dapprima a presentarsi presso la struttura Risorse Umane di Napoli della società per le pratiche amministrative relativa alla riammissione, preannunciando l'indisponibilità di posti nella sede di Aversa; successivamente la società comunicava alla lavoratrice che avrebbe dovuto riprendere servizio presso una sede sita in un altro comune (Frattamaggiore). Non essendosi mai presentata presso la sede di nuova assegnazione la lavoratrice veniva licenziata per assenza ingiustificata.

Il ricorso della lavoratrice contro tale decisione veniva rigettato dal giudice di prime cure il quale riteneva legittimo il licenziamento sulla base, tra l'altro, del ragionamento per cui la lavoratrice avrebbe prima dovuto presentarsi presso la nuova sede e poi impugnare il trasferimento.

A seguito del ricorso in appello della lavoratrice la Corte d'Appello di Napoli riformava la sentenza di cui sopra e dichiarava illegittimo il trasferimento della lavoratrice così come il conseguente licenziamento, con le relative conseguenze risarcitorie.

La sentenza della Corte d'Appello, infatti, si basava sull'assunto per cui a seguito dell'ordine di reintegra del giudice, il datore di lavoro deve operare la riammissione in servizio nelle medesime mansioni e nello stesso luogo di lavoro precedentemente assegnati.

Contro tale decisione la società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione articolato in vari motivi denunciando, tra l'altro, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il mancato ripristino del rapporto presso la sede originaria, oltre che violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2103, 1460, 1175 e 1375 c.c. La società, infatti, sosteneva la legittimità del proprio operato anche sulla base del fatto che il mancato ripristino del rapporto presso la sede di Aversa era ascrivibile a colpa della lavoratrice che non si era presentata al primo incontro presso la struttura Risorse Umane di Napoli (incontro finalizzato alla reintegra presso la sede originaria) oltre che in virtù della sussistenza dei requisiti legali per il trasferimento della dipendente.

La Cassazione ha ritenuto infondati tali motivi e rigettato l'intero ricorso. Secondo la Cassazione, infatti, non solo il percorso logico seguito dalla Corte territoriale aveva portato ad escludere qualsiasi colpa della lavoratrice e ad accertare che la società datrice aveva disatteso a monte l'ordine di reintegra del giudice ordinando la riammissione presso sede diversa da quella originaria, ma aveva altresì fatto corretta applicazione del principio di diritto applicabile nel caso di specie per cui l'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio "implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti".

Nel caso di specie, in pratica, è da considerarsi legittimo il rifiuto della lavoratrice a riprendere servizio in una sede diversa da quella assegnata precedentemente alla reintegra. Il trasferimento della lavoratrice sarebbe potuto avvenire solo in presenza dei requisiti di legge che, in tal caso, sono stati ritenuti non sussistenti. Pertanto il rifiuto della lavoratrice a rendere la prestazione era legittimo, con conseguente illegittimità del licenziamento per assenza ingiustificata "non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che impongano l'ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio".

Licenziamento disciplinare e investigatori privati

Cass. Sez. Lav. 16 agosto 2016, n. 17113

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Mastroberardino; Ric. M.G.; Contr. S. s.p.a.;

Licenziamento disciplinare - Simulazione stato di malattia - Accertamento effettuato mediante agenzia di investigazione provata - Legittimità

Gli artt. 2 e 3 della l. 300/1970 non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (come, nella specie, un'agenzia investigativa) diversi dalle guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né rispettivamente, di controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Tale controllo delle guardie giurate particolari, o di un'agenzia investigativa, deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione. Ed infatti, dette agenzie, per operare lecitamente, non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione. Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso di licenziamento seguito alla simulazione, da parte del dipendente, dello stato di malattia: frode accertata mediante investigazioni private disposte dal datore di lavoro. Nella specie, tali indagini avevano accertato che il lavoratore, nel corso del periodo di malattia, svolgeva attività incompatibili con la patologia diagnosticata.

In buona sostanza, le censure mosse dalla difesa dell'ex dipendente alla sentenza di merito riguardavano presunte violazioni della normativa in materia di tutela della dignità del lavoratore (artt. 2, 3, 4, e 5 della l. 300/1970) e di privacy (d.lgs. n. 196/2003). In particolare, si sosteneva in ricorso che il ricorso ad agenzie private di investigazione non sarebbe stato consentito dalle predette disposizioni e, dunque, che il licenziamento scaturito dall'utilizzo di tale strumento investigativo sarebbe stato invalido per inutilizzabilità delle risultanze di quest'ultimo.

La Corte rigetta il ricorso argomentando sulla differenza tra attività di vigilanza, svolte da personale esterno all'organizzazione aziendale (come ad es. le guardie giurate, cui si riferisce l'art. 2 della l. 300/1970), e tendenti alla perpetrazione di un controllo sull'attività lavorativa o, comunque, sul corretto adempimento delle prestazioni lavorative dedotte nel contratto di lavoro e attività diverse, volte, invece, all'accertamento di eventuali atti illeciti "non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione". Secondo la Cassazione, solo le prime sono da ritenersi vietate ai sensi delle norme dello Statuto dei lavoratori, in quanto violative del principio secondo cui il potere di controllo sull'attività lavorativa (e sul suo corretto svolgimento da parte dei dipendenti) spetta unicamente al datore di lavoro o a suoi collaboratori inseriti nell'organizzazione gerarchica dell'impresa.

Discorso diverso, invece, va fatto in relazione ad attività di verifica, tra cui possono ricomprendersi altresì le investigazioni svolte da agenzie private appositamente incaricate dal datore di lavoro, finalizzate unicamente all'accertamento della (eventuale) perpetrazione di atti illeciti in danno della parte datoriale: atti diversi, o comunque ulteriori, rispetto al mero inadempimento dell'obbligazione lavorativa e che, quindi, si pongono su di un piano differente rispetto a quello tutelato dagli artt. 2 e 3 dello Statuto.

La Corte aggiunge inoltre che, per le ragioni suddette, tali attività non entrano in contrasto neppure con l'art. 4 dello Statuto, così come col dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto, ricadente su entrambe le parti: ciò in quanto il lavoratore è tenuto ad operare diligentemente nel corso dell'intero rapporto di lavoro, senza che il potere della parte datoriale di effettuare controlli in qualsiasi momento - e quindi anche al di fuori dell'orario lavorativo, ovvero in una fase in cui rapporto è sospeso per malattia del prestatore - possa risultare in alcun modo compresso o limitato.

 

Nullità del patto di prova

Cass. Sez. Lav. 12 settembre 2016, n. 17921

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Fresa; Ric. C.F.P.S.G.A.; Contr. D.G.;

Contratto di lavoro - Patto di prova - Nullità - Intimazione licenziamento - Conseguenze - Applicazione art. 18 L. 300/70 o L. 604/1966

Il licenziamento intimato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soggiace alla disciplina del licenziamento ordinario, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per l'applicabilità della tutela reale.

Nota

La Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva integralmente la domanda avanzata da un lavoratore, dichiarando la nullità del patto di prova apposto ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato, annullando l'atto di recesso intimato e condannando il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni dalla data di cessazione del rapporto fino alla effettiva reintegrazione. A fondamento della decisione la Corte di merito rilevava che, nei due anni antecedenti la stipula del contratto di lavoro, il lavoratore, quale collaboratore a progetto, aveva già svolto le medesime mansioni indicate nel nuovo contratto a tempo indeterminato, conseguentemente la Corte riteneva privo di causa il patto di prova e il licenziamento su di esso fondato, considerato che la verifica era già avvenuta con esito positivo e da tale nullità ne era discesa la automatica conversione del rapporto.

Avverso tale sentenza il datore di lavoro propone ricorso per cassazione sulla base di due distinti motivi.

Con il primo motivo il ricorrente censura il capo della sentenza relativo alla nullità del patto di prova, sostenendo che il patto, in quanto destinato alla verifica delle qualità professionali e del comportamento del lavoratore, è ammissibile ogniqualvolta risponda ad una "finalità apprezzabile" che, nel caso di specie, sarebbe consistita nella differenza quantitativa e qualitativa delle mansioni svolte sulla base dei precedenti contratti a progetto.

La Corte di Cassazione respinge il motivo evidenziando che la giurisprudenza della sezione è consolidata nell'affermare che la causa del patto di prova è quella di tutelare l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicché detta causa è insussistente qualora la verifica sia già avvenuta, con esito positivo, in virtù della prestazione resa dal lavoratore, per un lungo lasso di tempo, a favore del medesimo datore di lavoro (cfr. Cass. del 17 luglio 2015, n. 15059). A parere della Suprema Corte il giudice di merito si è attenuto ai princìpi appena richiamati evidenziando che l'attività - di insegnamento - affidata al lavoratore, nel corso dei contratti a progetto, era del tutto sovrapponibile a quella oggetto del contratto di lavoro impugnato.

Con il secondo motivo l'ente ricorrente sostiene che, diversamente da quanto affermato dalla Corte di merito, alla nullità del patto di prova non consegue automaticamente la ricostituzione del rapporto con condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate, ma, in caso di insussistenza del requisito dimensionale, si applicano le previsioni di cui all'art. 8, L. 604/1966.

La Cassazione accoglie il motivo rilevando che, in linea generale l'art. 2096 c.c. consente il recesso ad nutum durante il periodo di prova a condizione che tale patto sia stato validamente apposto; al contrario, qualora, come nel caso in esame, difettino i presupposti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola determina la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario e trova applicazione la disciplina del licenziamento individuale e, quindi, l'art. 10, L. 604/1966, per cui il recesso costituisce un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo (cfr. Cass. del 19 agosto 2005, n. 17045).

Conseguentemente, la Suprema Corte, cassa la sentenza, rinviando nuovamente alla Corte di merito che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "il licenziamento intimato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per l'applicabilità della tutela reale".

 

Giusta causa di licenziamento e permessi ex lege 104

Cass. Sez. Lav. 13 settembre 2016, n. 17968

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; Ric. L.P.; Controric. C.D.V.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Prestazione del lavoro - Esercizio del diritto ex art. 33 L. 104/92 - Sviamento dalla funzione di assistenza del familiare - Abuso del diritto verso il datore di lavoro e l'ente di previdenza - Configurabilità - Fondamento

In tema di esercizio del diritto di cui all'art. 33, comma 3, L. 104/92, la fruizione del permesso da parte del dipendente deve porsi in nesso causale diretto con lo svolgimento di un'attività identificabile come prestazione di assistenza in favore del disabile per il quale il beneficio è riconosciuto, in quanto la tutela offerta dalla norma non ha funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un'assistenza comunque prestata. L'uso improprio del permesso può integrare, secondo le circostanze del caso, una grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente, idonea a giustificare anche la sanzione espulsiva.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i requisiti di legittima fruizione dei permessi per l'assistenza di un disabile ex art. 33, comma 3, L. 104/92.

Nel caso di specie, era stato accertato che un dipendente aveva richiesto ed ottenuto permessi ex art. 33 cit. per finalità diverse dall'assistenza al familiare disabile e, specificamente, per frequentare lezioni universitarie. Appreso ciò, il datore di lavoro lo aveva licenziato per giusta causa.

I Giudici di merito respingevano l'impugnazione del recesso, confermando la fondatezza della motivazione addotta.

Il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per Cassazione e lamentava, tra il resto, violazione e falsa applicazione dell'art. 33 cit., argomentando che la norma non imponeva alcun obbligo di contemporaneità della prestazione di assistenza al disabile con la fruizione dei permessi, dovendosi ravvisare la sua ratio in una funzione non direttamente strumentale, bensì "compensativa" delle cure ed incombenze prestate in momenti temporali diversi dalla fruizione del permesso.

La Suprema Corte rigetta il gravame, valorizzando il tenore letterale della disposizione legislativa su cui si controverte: poiché il beneficio del permesso è espressamente riconosciuto in ragione dell'assistenza al disabile, che costituisce la causa stessa dell'istituto, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza assistenziale per il cui soddisfacimento il diritto all'assenza dal lavoro è riconosciuto. Di contro, a parere dei Giudici di legittimità, nessun elemento testuale o logico consente di attribuire al beneficio una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza prestata al disabile, né, tanto meno, permette di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: segnatamente, il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza delle esigenze esplicitamente riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Sicché, ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto, come nel caso in esame (l'accertamento del Giudice del merito ha, difatti, evidenziato che i permessi erano sistematicamente utilizzati dalla dipendente per proprie esigenze personali, in situazioni di tempo e di luogo incompatibili con l'espletamento dell'assistenza), non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque, conclude il Collegio, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto, come tale lesivo della buona fede del datore, privando ingiustamente quest'ultimo della prestazione lavorativa, in violazione dell'affidamento riposto nel prestatore ed integra altresì, nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.

Ciò posto - conclude la Suprema Corte - il carattere sistematico e la preordinazione nell'utilizzo improprio dei permessi costituiscono elementi sintomatici anche dell'intensità dell'elemento psicologico, come tali idonei ad integrare il precetto normativo della giusta causa, sol che si consideri che, oltre al disvalore sociale del comportamento, insito nello sviamento della funzione di assistenza del familiare, rilevano sia la consapevolezza dell'uso improprio, insita nel fatto di avere avanzato una richiesta di frazionamento dei permessi strumentale al soddisfacimento di esigenze personali prive di qualsiasi nesso con la prestazione di assistenza, sia il carattere continuativo dell'uso indebito, che ne esclude qualsiasi connotazione di eccezionalità o occasionalità.

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