Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Giusta causa di licenziamento
Licenziamento per motivo discriminatorio
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dirigente
Autonomia e subordinazione
Incentivo all'esodo e contribuzione previdenziale

Giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 5 luglio 2016, n. 13676

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Matera; Ric. M.M.; Controric. L. S.p.A.;

Licenziamento individuale - Giusta causa - Condotta extra lavorativa pregiudizievole per l'organizzazione dell'impresa - Gravità del fatto ai fini della sussistenza della giusta causa - Sussiste - Fattispecie

In tema di licenziamento per giusta causa, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta, anche extra lavorativa, che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per aver tenuto un comportamento pregiudizievole per la propria salute poiché, durante un periodo di assenza dal lavoro per malattia, causata da una discopatia e lombalgia che avevano richiesto appositi interventi chirurgici, sollevava alcune bombole di gas di notevole peso.

La Corte d'Appello di Cagliari, confermando la sentenza di primo grado, respingeva l'impugnazione del lavoratore, ritenendo il fatto compiuto dallo stesso obiettivamente grave ed idoneo ad integrare una giusta causa di licenziamento, anche alla luce del contesto del rapporto lavorativo ormai conflittuale, a causa della richiesta del lavoratore, da anni insoddisfatta, di adibizione a mansioni non più operaie, ma impiegatizie.

Successivamente il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la violazione dell'art. 2119 c.c., per inesistenza dei requisiti oggettivi, soggettivi e di proporzionalità della giusta causa di licenziamento.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha ribadito innanzitutto i più noti principi in materia di licenziamento per giusta causa, ricordando che il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, dovendosi integrare l'art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi, in modo da non danneggiare il datore di lavoro (Cass. n. 2550/2015).

La giusta causa di licenziamento deve inoltre rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (da ultimo, Cass. n. 15654/2012).

Per quanto riguarda in particolare l'elemento fiduciario, sottolinea la Corte di Cassazione, rileva ogni condotta del lavoratore che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (da ultimo, Cass. n. 21017/2015).

Ebbene, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'Appello di Cagliari ha correttamente applicato tali principi al caso di specie, accertando, sulla base di un'argomentata e coerente motivazione, esente da vizi logici e giuridici, come il comportamento del lavoratore dovesse essere ascritto, tenuto conto del ricostruito contesto del rapporto lavorativo in un clima da anni conflittuale, ad un quadro di slealtà, che induce a dubitare seriamente della correttezza dei rapporti futuri del lavoratore con l'azienda, e che giustifica pertanto il recesso per giusta causa della società. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso.

Licenziamento per motivo discriminatorio

Cass. Sez. Lav. 22 giugno 2016, n. 12898

Pres. Napoletano; Rel. Riverso; Ric. B.C.; Controric. P.V.C.O.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per motivi relativi alla vita privata del lavoratore - Motivo discriminatorio - Esclusione - Rilevanza ai fini della valutazione relativa alla sussistenza della motivazione addotta

Il fatto che il licenziamento sia stato intimato per motivi attinenti esclusivamente alla vita privata del lavoratore e per fatti che non hanno comportato un effettivo danno al datore di lavoro può comportare l'illegittimità o la mancanza della ragione addotta ma non conduce alla violazione di alcun divieto discriminatorio.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per esercizio della prostituzione a mezzo internet. Il comportamento del lavoratore era stato ritenuto dall'ente datore di lavoro lesivo della sua immagine. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento chiedendo esclusivamente che ne venisse dichiarata la nullità per essere fondato su motivi discriminatori, a detta del ricorrente legati al suo orientamento sessuale. Molti dei siti su cui l'attività di prostituzione veniva esercitata, infatti, erano rivolti prevalentemente ad un pubblico omosessuale o bisessuale. Investito della controversia il Tribunale di Verbania aveva escluso la nullità del licenziamento ritenendo che lo stesso era dovuto alla pubblica e riconoscibile attività di prostituzione esercitata dal lavoratore attraverso siti internet, e non all'orientamento sessuale. Conseguentemente non veniva ravvisata l'esistenza di alcun motivo discriminatorio. La Corte d'Appello di Torino aveva confermato tale ricostruzione respingendo interamente l'appello depositato dal lavoratore.

Quest'ultimo decideva di ricorrere in Cassazione contro tale sentenza lamentando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 4 l. 604/1966 nonché dell'art. 15 dello Statuto dei lavoratori attesa la natura discriminatoria del licenziamento, fondata sull'orientamento sessuale dello stesso. In particolare, secondo il lavoratore, tale natura discriminatoria derivava dal fatto che i comportamenti posti alla base del licenziamento si sarebbero svolti tutti al di fuori dell'ambito lavorativo e che alcuni elementi contestati dal datore di lavoro (che per la loro natura erano suscettibili di rivelare la posizione lavorativa del soggetto ledendo l'immagine dell'ente) non erano presenti nei siti di pubblico accesso, ove mancava ogni riferimento al datore di lavoro con conseguente non configurabilità del danno all'immagine.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo e rigettato il ricorso. In primo luogo la Corte ha confermato quanto affermato dalle due corti territoriali e cioè che il licenziamento era stato intimato esclusivamente in virtù dell'attività di prostituzione esercitata dal lavoratore e non per ragioni discriminatorie connesse al suo orientamento sessuale. In secondo luogo la Cassazione ha avuto modo di affermare che anche a voler ritenere fondate le argomentazioni del ricorrente circa l'esclusiva attinenza dei fatti alla sua sfera personale e l'insussistenza di danni all'immagine dell'ente, le stesse potrebbero portare ad una dichiarazione di illegittimità o insussistenza della giusta causa addotta, ma mai alla violazione di un divieto di discriminazione.

Nel caso di specie, poi, siccome il licenziamento è stato impugnato esclusivamente per la sua pretesa natura discriminatoria e non in relazione alla sussistenza della giusta causa la Cassazione non si è potuta pronunciare su tale ultimo profilo.

Sempre secondo la Suprema Corte, infatti, la domanda di accertamento della carenza di giusta causa non può ritenersi compresa in quella di nullità per motivo discriminatorio.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dirigente

Cass. Sez. Lav. 20 giugno 2016, n. 12668

Pres. Napoletano; Rel. Berrino; P.M. Celentano; Ric. A.A.; Controric. J. S.p.A.;

Dirigente d'azienda - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Riorganizzazione aziendale - Soppressione del posto di lavoro - Legittimità - Sussiste

Il licenziamento individuale del dirigente di azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost..

Nota

La Corte di appello di Palermo rigettava il reclamo proposto dal lavoratore, con la qualifica di dirigente d'azienda, avverso la sentenza del Tribunale di Agrigento, che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento intimato allo stesso, per giustificato motivo oggettivo, a seguito della riorganizzazione aziendale che aveva interessato la società datrice di lavoro.

La Corte di appello osservava in proposito che la sussistenza del giustificato motivo oggettivo doveva ritenersi dimostrata, nella specie, dalle prove testimoniali raccolte, dalle quali si evinceva la soppressione, a seguito di riorganizzazione aziendale, del posto di responsabile della produzione del reparto stampa, cui era addetto il dipendente, le cui funzioni erano state ripartite tra il responsabile di produzione aziendale ed i capi reparto. La Corte di appello osservava, inoltre, che il lavoratore non aveva eccepito l'inosservanza dell'obbligo datoriale di repechage.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore, fondato su tre motivi.

In particolare, il dipendente sosteneva che la Corte di merito aveva ritenuto raggiunta la prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in assenza di qualsiasi elemento atto a dimostrare l'effettività delle ragioni addotte dalla datrice di lavoro a giustificazione del recesso (crisi economica, riduzione della produzione, riorganizzazione aziendale). Secondo il ricorrente, la Corte di appello si era limitata a valutare la legittimità del licenziamento, alla stregua del solo fatto della soppressione del posto di lavoro da lui precedentemente occupato, disinteressandosi, in tal modo, delle effettive motivazioni che avevano indotto la società convenuta ad adottare tale decisione. Il ricorrente sosteneva, altresì, che del tutto erroneamente la Corte di merito avesse ritenuto legittimo il licenziamento, pur senza la prova, da parte del datore di lavoro, dell'adempimento del cosiddetto obbligo di repechage.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

La Suprema Corte ha, innanzitutto, osservato che il licenziamento individuale del dirigente di azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost.. Per tali ragioni, è rimessa alla valutazione del datore di lavoro l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, con conseguente soppressione del posto o del reparto cui era addetto il lavoratore licenziato - ferma restando l'effettività della ragione economica -, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione aziendale, ben potendo le relative mansioni essere solo diversamente ripartite ed attribuite (in tal senso cfr. Cass., sez. lav., 8 marzo 2012, n. 3628; Cass., sez. lav. 15 luglio 2009, n. 16498; Cass., sez. lav., 18 agosto 2004, n. 16163).

Applicando tali principi al caso in oggetto, la Suprema Corte ha rilevato che, correttamente, la Corte di appello di Palermo aveva ritenuto sufficiente, ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, la dimostrazione, da parte della datrice di lavoro, dell'avvenuta riorganizzazione aziendale, come comprovata dalle deposizioni testimoniali. Da tali deposizioni si era, infatti, potuto evincere che alla predetta riorganizzazione era seguita la soppressione del posto di responsabile della produzione del reparto stampa, cui era addetto il lavoratore, le cui funzioni erano state poi suddivise tra il responsabile della produzione aziendale ed i capi reparto.

In ordine all'obbligo di repêchage, la Suprema Corte ha, in primo luogo, ribadito che è onere del datore di lavoro provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in senso rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore, che impugni il licenziamento, una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato. A tale allegazione consegue l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti (cfr. in tal senso Cass., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3040).

Con specifico riferimento al caso in oggetto, la Suprema Corte ha ritenuto provata l'osservanza dell'obbligo di repechage da parte dell'azienda tenuto conto che, come era stato evidenziato dalla Corte di appello, la società aveva dedotto di non aver proposto al ricorrente l'adibizione alle mansioni di stampatore in quanto il relativo posto era occupato da cinque mesi da altro dipendente, ed in quanto tale proposta avrebbe comportato una violazione dell'art. 2103 c.c..

N.B.: mette conto ricordare che con recentissima sentenza la stessa Sezione Lavoro della Suprema Corte (Cass. sez. lav. 12 luglio 2016 n. 14193) ha affermato che l'obbligo datoriale di repêchage va escluso nei confronti del dirigente in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale assistita da un regime di libera recedibilità (cfr. Cass. 3175/2013), senza che possano essere richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del non dirigente.

Autonomia e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2016, n. 12199

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; P.M. Matera; Ric. S.B. e A.S s.r.l.; Controric. INPS;

Autonomia e subordinazione - Carattere discontinuo della prestazione - Lavoratori addetti ad agenzie di scommesse - Possibilità di rifiutare il turno assegnato e di farsi sostituire da altri addetti - Irrilevanza ai fini della qualificazione della prestazione in termini di subordinazione

E' irrilevante, ai fini della subordinazione, che il singolo lavoratore sia libero di accettare o non accettare l'offerta, di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, nonché, con il preventivo consenso del datore di lavoro, di farsi sostituire da altri, atteso che il singolo rapporto (con riferimento, nella specie, a sportellisti presso un'agenzia ippica) può anche instaurarsi volta per volta, anche giorno per giorno, sulla base dell'accettazione della prestazione data dal lavoratore ed in funzione del suo effettivo svolgimento, e la preventiva sostituibilità incide sull'individuazione del lavoratore quale parte del singolo specifico contingente rapporto, restando la subordinazione riferita a colui che del rapporto è effettivamente soggetto, svolgendo la prestazione e percependo la retribuzione.

Nota

La Corte d'Appello di Firenze ha respinto il gravame proposto da due società di scommesse sportive avverso la sentenza di rigetto del ricorso in opposizione a cartelle esattoriali emesse dall'INPS per il pagamento di contributi sul presupposto della natura subordinata di alcuni rapporti di lavoro da esse intrattenuti con vari lavoratori titolari di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Premesso che si trattava di svolgimento di mansioni pacificamente semplici e ripetitive e con compenso fisso e rapportato al numero di ore prestato, la particolarità su cui le società avevano posto l'accento era la possibilità per i lavoratori di non accettare la richiesta di coprire un determinato turno assegnato dall'agenzia di scommesse e di farsi sostituire in caso di impossibilità sopravvenuta. Secondo la Corte territoriale, tuttavia, tali caratteristiche non erano sufficienti ad escludere la subordinazione, mancando nel caso in esame ogni profilo di autonomia operativa e dimensione imprenditoriale. Né l'astratta possibilità di gestione della singola disponibilità incide sulla qualificazione del rapporto, essendo evidente che la prolungata mancata disponibilità avrebbe comportato la cessazione della collaborazione per volontà datoriale.

Avverso tale decisione, con separati atti di contenuto sostanzialmente analogo, le società sportive hanno proposto ricorso per Cassazione, censurando, in particolare, la statuizione laddove, richiamandosi a precedenti non in termini, ha omesso di valorizzare la discontinuità della prestazione e la circostanza che essa fosse rimessa ad una scelta dei lavoratori.

La Suprema Corte ha rigettato le censure mosse, affermando il principio di diritto riportato nella massima, già espresso in altri precedenti (Cass. 5 maggio 2005, n. 9343 relativo a sportellisti operanti presso un'agenzia ippica; Cass. 1 marzo 2001, n. 2970). La Cassazione, richiamando precedenti decisioni, ha ribadito che elemento essenziale e determinante del lavoro subordinato, discretivo rispetto al lavoro autonomo, è il vincolo della subordinazione, mentre altri elementi, quali le modalità della prestazione, la forma del compenso e l'osservanza di un determinato orario, assumono valore sussidiario. Pertanto, con specifico riferimento al personale addetto alla ricezione di scommesse in sala corse, gli elementi di fatto dai quali è desumibile la natura subordinata del rapporto sono l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale con prestazione di energie lavorative corrispondenti all'attività dell'impresa, nel rispetto di un orario di lavoro strettamente collegato con gli orari di apertura e chiusura delle sale corse, nonché il pagamento della retribuzione non in base al risultato raggiunto, ma secondo le ore prestate nei diversi turni, mentre resta irrilevante la discontinuità della prestazione non derivante da una libera scelta del lavoratore, ma rispondente a criteri di distribuzione del lavoro in turni prefissati dal datore e con modalità di erogazione prestabilite in considerazione delle esigenze aziendali. (Cass. 1 marzo 2001, n. 2970).

A parere della Suprema Corte i giudici del merito hanno correttamente applicato nella fattispecie sottoposta al loro giudizio gli enunciati principi, pertanto il ricorso viene respinto.

Incentivo all'esodo e contribuzione previdenziale

Cass. Sez. Lav. 23 giugno 2016, n. 13057

Pres. Bronzini; Rel. Doronzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.M.I. S.p.A.; Controric. I.N.P.G.I.;

Lavoro subordinato - Somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori - Esclusione dell'obbligo contributivo - Nozione - Omessa o infedele denuncia di emolumenti soggetti a contribuzione - Evasione contributiva - Sussiste

Le somme erogate a titolo di incentivo all'esodo, cioè quelle corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, sono escluse dall'obbligo contributivo anche se erogate successivamente alla risoluzione del rapporto.

Sul fatto costitutivo dell'obbligazione contributiva non può incidere in alcun modo la volontà negoziale, dovendosi aver riguardo all'effettiva natura dell'erogazione. Hanno natura retributiva e sono dunque assoggettate a contribuzione previdenziale le somme corrisposte in ragione della composizione delle reciproche pretese delle parti.

Nota

A seguito di un accertamento ispettivo, l'Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani otteneva un decreto ingiuntivo per il pagamento di contributi previdenziali relativi alle somme erogate da una società ad alcuni dipendenti a titolo di incentivazione all'esodo.

Il Tribunale di Roma rigettava l'opposizione all'ingiunzione promossa dalla società confermando la natura retributiva di tali somme. Tale conclusione veniva confermata anche dalla Corte d'Appello che, rigettando l'impugnazione del datore di lavoro, riconosceva come le erogazioni fatte ai lavoratori (tutti giornalisti) non costituissero incentivi all'esodo legati in via meramente occasionale al rapporto di lavoro, ma fossero funzionalmente collegate ad esso in quanto corrisposte, dopo la comunicazione del recesso, a composizione delle reciproche pretese delle parti.

La società ricorreva in Cassazione; l'istituto resisteva con controricorso.

Parte ricorrente lamentava, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell'art. 12 L. 153/1969 (che, al comma 4, lett. b, dispone l'esclusione contributiva delle somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro ai fini di incentivare l'esodo dei lavoratori) per aver la Corte territoriale ritenuto che l'incentivo all'esodo dovesse necessariamente essere antecedente alla risoluzione del rapporto.

La Corte di Cassazione ha ribadito il principio (già affermato, da ultimo, in Cass. 10046/2015) secondo cui rientrano tra le somme che vanno escluse dalla base imponibile, in quanto corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, non solo quelle conseguite con un accordo antecedente alla risoluzione del rapporto, ma tutte le somme che, a prescindere dal titolo indicato dalle parti, risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori.

La Suprema Corte ha comunque rigettato il ricorso, dando atto che la decisione di secondo grado si basava su una valutazione fattuale sufficientemente e non contraddittoriamente motivata e dunque insindacabile in sede di legittimità. In particolare, è stato valorizzato il fatto che gli accordi fossero intervenuti dopo la risoluzione del rapporto e, quindi, non in funzione di incentivo alla risoluzione, bensì di composizione delle reciproche pretese derivanti dal rapporto di lavoro, nonché il fatto che negli accordi non si prevedesse alcun pagamento ulteriore, nemmeno a titolo di indennità sostitutiva del preavviso.

Infine, la Corte ha chiarito che l'imputazione fittizia delle somme a titolo di incentivo all'esodo costituisce una forma di evasione contributiva, non già di mera omissione, ribadendo il principio secondo cui l'omessa o infedele denuncia di emolumenti soggetti a contribuzione fa presumere l'esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi previdenziali, salva la prova contraria del soggetto obbligato.

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