Lo smart working piace alle grandi aziende (meno alle Pmi)
Sono 250mila ma il loro numero è destinato a crescere con l’approvazione del disegno di legge sul lavoro flessibile. Sono gli smart worker, i lavoratori che svolgono i propri compiti stando a casa, in uno spazio di coworking o in un qualsiasi altro posto. Perché quello che conta è il risultato, non il luogo fisico in cui si è. Lo hanno capito, finora, soprattutto le grandi aziende: il 30% di queste ha messo in piedi nel 2016 programmi di smart working per i dipendenti (solo un anno fa il dato era fermo al 17%). Nelle piccole e medie imprese, invece, lo smart working è ancora poco utilizzato: solo il 5% ha attivato progetti strutturati.
Secondo i dati dell’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano ad oggi sono 250mila gli impiegati, i quadri e i dirigenti “smart” (il 7%) del totale: si tratta di lavoratori che godono di discrezionalità nella definizione delle modalità di lavoro in termini di luogo, orario e strumenti utilizzati. L’indagine dell’Osservatorio svela che lo smart worker tipo è uomo (nel 69% dei casi) con un’età media di 41 anni, che risiede al Nord (nel 52% dei casi, solo nel 38% nel Centro e nel 10% al Sud) e rileva benefici nello sviluppo professionale, nelle prestazioni lavorative e nel work-life balance rispetto ai lavoratori che operano secondo modalità tradizionali.
Nella maggior parte delle imprese di grandi dimensioni (il 40%), il progetto di smart working è ancora in fase di crescita e a fronte di risultati positivi si sta coinvolgendo una popolazione maggiore, mentre solo nel 25% viene considerata a regime e il 35% ha una sperimentazione su un limitato numero di persone. Il 97% delle organizzazioni che prevedono di introdurre in futuro lo smart working sta conducendo un'analisi di fattibilità.
La partecipazione generalmente non è un obbligo per i dipendenti: più della metà delle imprese (54%) ha definito la possibilità di candidarsi al progetto pilota, stabilendo i criteri per un’eventuale graduatoria.
Il 90% dei progetti realizzati in Italia ha introdotto la flessibilità nel luogo di lavoro, la leva più diffusa seguita dalla flessibilità nella gestione dell’orario (73%), poi il lavoro saltuario in altre sedi aziendali (54%), il lavoro saltuario in altri luoghi come spazi di coworking (51%), la riprogettazione degli spazi fisici (40%).
I lavoratori che fanno smart working rilevano effetti positivi nello sviluppo professionale e nella carriera, nelle prestazioni lavorative e nel work-life balance. L’analisi dell’Osservatorio rivela come siano falsi alcuni timori tipici legati all’applicazione del lavoro agile. Gli smart worker appaiono decisamente più soddisfatti rispetto alla media dei lavoratori riguardo allo sviluppo professionale e la carriera: il 41% valuta eccellente la propria capacità di sviluppare abilità e conoscenze propedeutiche a un’evoluzione professionale rispetto al 16% del campione complessivo. Una valutazione che vale in particolar modo per le donne smart worker, per cui il livello di soddisfazione è maggiore del 35% rispetto a quelle che lavorano in modo tradizionale (per gli uomini la differenza è pari al 22%).
Positivi anche gli effetti sulle performance professionali, come la qualità e quantità del lavoro svolto e la capacità di innovare nel proprio team di lavoro: lo smart working ha un effetto positivo sull’engagement delle persone: oltre un terzo del campione si sente di contribuire positivamente alla creazione di un buon clima aziendale e oltre il 40% degli smart worker è entusiasta del proprio lavoro.
Chi scegli lo smart working lo fa, in genere, per gestire meglio la vita professionale e privata: il 35% è molto soddisfatto di come riesce a organizzare il proprio tempo (rispetto al 15% di media) e il 29% riesce sempre a conciliare le esigenze personali e professionali (rispetto al 15% di media), anche in questo caso con un maggiore beneficio per le donne rispetto agli uomini.