Contenzioso

Il licenziamento per scarso rendimento dovuto alle troppe assenze

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per scarso rendimento
Limiti all'onere di repechage
Registrazione effettuata dal dipendente, valore probatorio
Demansionamento e danno biologico
Disdetta di un accordo collettivo aziendale

Licenziamento per scarso rendimento

Cass. Sez. Lav. 8 maggio 2018, n. 10963

Pres. Bronzini; Rel. Amendola; Ric. A. S.p.A.; Controric. D.M.V.;

Licenziamento per scarso rendimento – Assenze per malattia del dipendente - Illegittimità

Il licenziamento per c.d. scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, riconducibile al genus della risoluzione per inadempimento prevista dagli artt. 1453 e segg. cod. civ.. Pertanto ove il recesso sia intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all'elevato numero di assenze, che non siano tali da esaurire il periodo di comporto, il licenziamento deve considerarsi ingiustificato.

NOTA
La Corte di Appello di Firenze confermava la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato illegittimo l'esonero dal servizio intimato da un'azienda di trasporti nei confronti di un conducente di linea per scarso rendimento, ex art. 27 lett. d) dell'allegato A al R.D. n. 148 del 1931, in relazione ad una serie di assenze realizzate dal dipendente.
A fondamento della propria decisione la Corte territoriale osservava che la disposizione richiamata configurava una ipotesi soggettiva di giustificato motivo di recesso per inadempimento del lavoratore, che non poteva ritenersi realizzata nel caso di ripetute assenze giustificate da certificati medici di malattia.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su tre motivi.
La ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 27, lett. d) dell'allegato A al R.D. n. 148 del 1931, sostenendo che la fattispecie di scarso rendimento delineata da tale norma avesse natura oggettiva e che pertanto dovesse ritenersi realizzata nella specie, attesa l'impossibilità per la società di fruire della prestazione del conducente di linea a causa delle reiterate ed improvvise assenze realizzate da quest'ultimo, non conciliabili con un corretto espletamento del pubblico servizio.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Richiamando il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sull'argomento, la Suprema Corte ha rilevato che il licenziamento per c.d. scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, riconducibile al genus della risoluzione per inadempimento prevista dagli artt. 1453 e segg. cod. civ.. La Suprema Corte ha altresì osservato che deve considerarsi oramai superato il diverso e risalente orientamento (cfr. Cass. 22 novembre 1996, n. 10286) alla stregua del quale si riteneva che lo scarso rendimento, previsto dal citato art. 27, rilevasse a prescindere dall'imputabilità dello stesso alla colpa del lavoratore.
La Cassazione ha precisato che l'esonero per scarso rendimento è collegato in modo imprescindibile ad un fatto imputabile alla condotta negligente dell'agente, lesiva di obblighi contrattuali, nonché alle diminuzioni di rendimento – consistenti nella indaguatezza qualitativa o quantitativa della prestazione - determinate da imperizia, incapacità e negligenza del lavoratore, e non già a quelle dovute ad assenze per malattia o alla fruizione di permessi.
Pertanto, ove il recesso sia intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all'elevato numero di assenze, che non siano tali da esaurire il periodo di comporto, il licenziamento deve considerarsi ingiustificato.
Ed infatti, la Suprema Corte ha chiarito che nel contratto di lavoro subordinato il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato bensì soltanto a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento (cfr. ex plurimis Cass. 14 febbraio 2017, n. 3855; Cass. 22 novembre 2016, n. 23735; Cass. 2 settembre 2015, n. 17436; Cass. 7 agosto 2015, n. 16582; Cass. 5 agosto 2015, n. 16472; Cass. 9 luglio 2015, n. 14310; Cass. 12 giugno 2013, n. 14758).
Alla stregua di tali principi la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente escluso la natura oggettiva della fattispecie della risoluzione per scarso rendimento, rigettando conseguentemente il ricorso.

Limiti all'onere di repechage

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2018, n. 11413

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. P.A.; Controric. T.P.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Per motivo oggettivo - Soppressione della posizione - Onere di repechage - Limiti - Fattispecie.

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve dimostrare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita (c.d. repechage), purché ricomprese nelle capacità professionali del dipendente.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Per motivo oggettivo – Comparazione con altri lavoratori - Criteri individuati per il licenziamento collettivo - Inapplicabilità - Fattispecie.

A differenza del licenziamento collettivo, il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, il quale non può in tal caso invocare (diversamente dal licenziamento collettivo) situazioni personali per ottenere che la scelta del licenziamento cada su altro soggetto.

NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo, dichiarato inizialmente legittimo sia in primo che secondo grado.
In particolare, la Corte d'Appello di Roma giungeva a tale conclusione rilevando sia che fosse stata provata in giudizio la soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente, sia che fosse stato assolto l'onere probatorio gravante sulla società datrice di lavoro circa l'impossibilità di adibire utilmente quest'ultimo ad altre mansioni (c.d. “onere di repechage”).
Il lavoratore ha impugnato la sentenza di secondo grado lamentando che, successivamente al licenziamento, la società avesse posto in essere svariate nuove assunzioni, ciò a riprova del fatto che egli avrebbe potuto essere utilmente ricollocato, eventualmente anche in mansioni inferiori; conseguentemente, l'onere di repechage doveva ritenersi non assolto da parte della Società.
La Corte di Cassazione ha rilevato innanzitutto che, sul punto, il giudice di merito aveva ritenuto provata l'impossibilità di utilizzare il ricorrente in mansioni diverse a causa delle differenti capacità professionali richieste.
Ed infatti, l'eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali, rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda, lascia venire meno il fondamento stesso dell'obbligo di repechage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate (cfr. Cass. n. 13089/2017); sicché l'accertamento in fatto svolto dai giudici di merito circa l'inadeguatezza del dipendente escludeva in radice la praticabilità di una sua ricollocazione.
Il ricorrente ha lamentato, inoltre, la mancata comparazione della propria posizione con quella di altri dipendenti nella scelta del lavoratore da licenziare.
Sul punto, la Corte ha sottolineato che il giudice di merito aveva correttamente rilevato che, in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, di regola il lavoratore non può comparare la propria posizione con quella di altri addetti, invocando situazioni personali per fare in modo che la scelta datoriale cada su altro dipendente; il destinatario del provvedimento espulsivo risulta, infatti, identificato dal nesso causale tra la ragione oggettiva addotta a giustificazione del recesso e la soppressione del singolo posto di lavoro occupato dal dipendente licenziato. Solo nel caso in cui il giustificato motivo oggettivo di licenziamento si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale assolutamente omogeneo e fungibile, ai fini del controllo della conformità della scelta dei lavoratori da licenziare ai principi di correttezza e buona fede di cui all'art. 1175 c.c., può farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che l'art. 5 della legge n. 223/1991 ha dettato per i licenziamenti collettivi.
La Corte territoriale ha però accertato che tale ipotesi non ricorresse nella fattispecie, in quanto l'esigenza di riduzione di personale riguardava specificamente la posizione ricoperta dal ricorrente.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Registrazione effettuata dal dipendente, valore probatorio

Cass. Sez. Lav. 10 maggio 2018, n. 11322

Pres. Napoletano; Rel. Marotta; P.M. Celeste; Ric. C.A.; Controric. A.H.I.

Riproduzioni meccaniche - Valore probatorio - Colloquio tra lavoratore e datore di lavoro - Registrazione del lavoratore - Natura - Utilizzazione in giudizio - Ammissibilità - Illecito disciplinare - Insussistenza.

La registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel “genus” delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile, sicché la sua effettuazione, operata dal lavoratore ed avente ad oggetto un colloquio con il proprio datore di lavoro, non integra illecito disciplinare. Nè tale condotta, comunque scriminata ex art. 51 cod. pen., in quanto esercizio del diritto di difesa, la cui esplicazione non è limitata alla sede processuale, può ritenersi lesiva del rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, che concerne esclusivamente l'affidamento di quest'ultimo sulle capacità del dipendente di adempimento dell'obbligazione lavorativa.

NOTA
Un lavoratore proponeva ricorso con rito Fornero per impugnare il provvedimento espulsivo della società comunicato all'esito di un procedimento disciplinare.
Il Tribunale rigettava il ricorso e la decisione veniva confermata anche in sede di opposizione.
La Corte di appello di L'Aquila, decidendo sul reclamo proposto dal lavoratore, riteneva, in riforma della pronuncia del Tribunale, l'illegittimità del provvedimento espulsivo per sproporzione rispetto ai fatti contestati e per l'effetto condannava la società a corrispondere al lavoratore un'indennità pari a 15 mensilità.
Nel caso in esame, il lavoratore, in sede di giustificazioni orali in merito ad altra precedente contestazione della società, aveva consegnato una chiavetta usb contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi e aveva provveduto ad ulteriori registrazioni, anche video, come riportato da parte di colleghi di lavoro che avevano riferito di aver visto il lavoratore scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, il tutto in violazione della legge sulla privacy e con la recidiva rispetto ad altre precedenti contestazioni.
Per la Corte il comportamento del lavoratore non doveva essere considerato disciplinarmente rilevante posto che il lavoratore aveva adottato tutte le cautele al fine di evitare la diffusione dei dati raccolti e, contrariamente a quanto riportato nella lettera di contestazione circa le segnalazioni di suoi colleghi di lavoro, le persone registrate non avevano saputo nulla di tali registrazioni prima di esserne informati dal direttore delle risorse umane cui erano stati trasmessi i files delle registrazioni consegnati dal dipendente su pennetta usb ad un delegato dell'azienda in occasione di un incontro relativo a precedente contestazione disciplinare.
D'altra parte poi il lavoratore non aveva in alcun modo utilizzato o reso pubblico il contenuto di quelle registrazioni per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto.
Per la Corte di Appello la condotta del dipendente pur potendo essere motivo di sanzione disciplinare - in relazione al clima di tensione e di sospetti venutosi a creare tra gli ignari colleghi dopo la rivelazione delle registrazioni - tuttavia non era tale da integrare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso in Cassazione da una parte il lavoratore contestando alla Corte di aver applicato la mera tutela risarcitoria, laddove, considerata l'insussistenza del fatto contestato, avrebbe dovuto applicarsi la tutela reintegratoria. D'altra parte la società ha proposto ricorso incidentale contestando alla Corte di non aver considerato che il comportamento del lavoratore era da ritenersi idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore e rigettato quello incidentale sulla base delle seguenti argomentazioni.
Per trattamento dei dati personali si deve intendere qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati; d'altra parte, per dato personale si deve intendere qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale e così, dunque, qualunque informazione che possa fornire dettagli sulle caratteristiche, abitudini, stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale, situazione economica, stato civile, stato di salute etc. della persona fisica ma anche e soprattutto le immagini e la voce della persona fisica.
Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 23, il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato.
L'art. 167, comma 1, sotto la rubrica trattamento illecito di dati prevede due distinte condotte tipiche, diversamente sanzionate: l'una relativa al trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare dei dati stessi e l'altra consistente nella comunicazione o diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi. Entrambe le condotte presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali altrui, realizzato in violazione delle prescrizioni dettate dalla norma.
Ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. m), la condotta di diffusione consiste, poi, nel dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione. Tuttavia, il trattamento dei dati personali può essere eseguito anche in assenza del consenso del soggetto interessato, se, come statuisce l'art. 24, comma 1, lett. f), è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla L. n. 397 del 2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia finalizzato all'esercizio delle prerogative di difesa, è insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici previste dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 1.
Secondo la Cassazione, infatti, la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisce deroghe ed eccezioni quando si tratta di far valere in giudizio il diritto di difesa, ciò sulla scorta dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente lavoristico è stato ulteriormente precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale. Si è, quindi, ritenuto che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile.
L'unica condizione richiesta è che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Nella fattispecie in esame, la Corte, dopo aver premesso che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di colloqui del lavoratore, vale a dire di una delle persone presenti e partecipi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. La condotta era stata posta in essere dal dipendente per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda.
Altro sarebbe stato se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il senso della contestazione disciplinare per cui è causa che, per quanto si rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato nella sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la gravissima ed intollerabile violazione della legge sulla privacy comportante l'ipotesi del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione da 6 a 24 mesi.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del lavoratore non poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del dipendente di adempiere in modo puntuale l'obbligazione lavorativa, dovendo escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera di contestazione potessero configurare inadempimenti contrattuali di sorta o - peggio - azioni delittuose.

Demansionamento e danno biologico

Cass. Sez. Lav. 20 aprile 2018, n. 9901

Pres. Nobile; Rel. Marotta; P.M. Matera; Ric. E. T. s.p.a; Controric. S.F. ;

Demansionamento - Danno biologico - Presupposti per la sua risarcibilità - Intenzionalità della condotta inadempiente del datore - Insussistenza

La violazione del diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro, responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale. Se essa prescinde, cioè, da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa dall'esercizio di poteri imprenditoriali garantiti dall'art. 41 Cost - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato.

NOTA
La Corte di Appello di Genova ha confermato la sentenza di primo grado con cui la società era stata condannata a risarcire alla ricorrente il danno biologico subito per effetto di un demansionamento. Per quanto qui rileva, la Corte territoriale ha ritenuto che fosse irrilevante l'assenza di intenzionalità del comportamento datoriale nonchè il fatto che la società non avesse dimostrato la non imputabilità dell'inadempimento.
Avverso tale decisione l'azienda ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola sotto svariati profili, tra cui la mancata valorizzazione da parte dei giudici di merito dell'assenza di una condotta intenzionale volta a demansionare la dipendente.
La Suprema Corte rigetta il ricorso ed, in ordine alla specifica censura indicata, afferma il principio di cui alla massima, già sancito in vari precedenti (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766; Cass. 3 giugno 1995, n. 6265). Secondo la Cassazione la responsabilità del datore di lavoro in tema di demansionamento prescinde da uno specifico intento imprenditoriale di declassare o svilire il lavoratore mediante la privazione dei suoi compiti. Ad avviso della Corte, infatti, in caso di assegnazione di mansioni dequalificanti, l'ingiustizia del danno consegue alle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche in cui si articola il rapporto di lavoro, sostanziandosi la condotta lesiva nelle specifiche modalità di gestione del rapporto (in tal senso Cass. S.U. 8 luglio 2008, n, 18623 richiamata in motivazione). Partendo dal generale dovere di protezione del datore nei confronti del prestatore di lavoro sancito dall'art. 2087 c.c. la Corte afferma che determinati comportamenti, imputabili a scelte dell'imprenditore, seppur non si caratterizzano per uno specifico intento persecutorio, laddove suscettibili di considerazione in termini di privazione e mortificazione per il lavoratore e, dunque, di idoneità offensiva, possono essere ascritti a responsabilità del datore di lavoro, che pertanto è chiamato a rispondere dei danni derivatine.
La Cassazione ha, quindi, ritenuto corretta la decisione di merito laddove la Corte territoriale ha ritenuto che l'evidenza dello svuotamento delle mansioni, la durata dello stesso, la conoscenza all'interno dell'azienda dell'operata dequalificazione integrassero una lesione del diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione e fossero fonte di responsabilità risarcitoria non essendo emerso che l'inattività della lavoratrice fosse in qualche modo riconducibile ad un lecito comportamento del datore giustificato dall'esercizio dei poteri imprenditoriali garantiti dall'art. 41 Cost.. Correttamente, pertanto la Corte territoriale ha ritenuto che tale situazione fosse qualificabile come un inadempimento della datrice di lavoro produttivo di conseguenze risarcitorie.

Disdetta di un accordo collettivo aziendale

Cass. Sez. Lav. 4 aprile 2018, n. 8379

Pres. Napoletano; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.A.; Controric. E.D. e G.P.;
Contrattazione collettiva – Necessità della forma scritta – esclusione – Principio di libertà della forma – Recesso orale – Validità – Prova testimoniale – Ammissibilità.

Il principio di libertà della forma si applica anche all'accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, con la conseguenza che ben possono essere conclusi anche verbalmente ovvero per fatti concludenti. Tale libertà della forma si applica anche ai negozi connessivi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, comma 2 c.c.
La parte che eccepisce l'avvenuto recesso unilaterale è onerata della relativa prova e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta degli altri contraenti, una comunicazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo — anziché innovativo — di tale successiva dichiarazione. Prova che può essere offerta anche mediante testimoni.

NOTA
Due dipendenti agivano in giudizio al fine di ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento del premio aziendale previsti da alcuni accordi collettivi aziendali che prevedevano il tacito rinnovo annuale salvo eventuale disdetta da comunicarsi entro il 31 gennaio di ciascun anno.
La società eccepiva di aver comunicato la propria disdetta dagli accordi aziendali, dapprima, verbalmente, nel corso di un incontro sindacale del 27 gennaio 2004 e poi, per iscritto, con lettera del 29 gennaio 2004 che, tuttavia, veniva recapitata ad una delle organizzazioni sindacali solamente in data 3 febbraio.
La Corte d'Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, considerava tardiva la disdetta scritta della società con conseguente rinnovo degli accordi collettivi aziendali fino al luglio 2005 e condanna del datore a riconoscere il premio aziendale fino a tale data.
Avverso tale decisione la società ricorreva in Cassazione; i dipendenti resistevano con controricorso, promuovendo altresì ricorso incidentale.
Per quel che interessa ai fini della presente nota, con il ricorso principale si lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 1373 c.c. con riferimento alla ritenuta necessità della disdetta scritta, nonostante per il recesso tale forma sia richiesta solo ove espressamente pattuita ovvero in presenza di contratti per i quali la forma scritta è prevista a pena di nullità. La Società lamentava altresì la violazione dell'art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., per la mancata ammissione del capitolo di prova volto a dimostrare la comunicazione orale della disdetta nel corso dell'incontro sindacale del 27 gennaio 2004.
La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso principale, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata in applicazione del principio di diritto (già affermato dalla sentenza a Sezioni Unite 3318/1995 e confermato da Cass. 11111/1997) secondo cui un accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto, in mancanza di norme che prevedano per i contratti collettivi la forma scritta e in applicazione del principio generale di libertà della forma di cui all'art. 1325, n. 4 c.c.
Una volta stabilita la libertà della forma dell'accordo o del contratto collettivo di lavoro, la medesima libertà deve essere ravvisata anche riguardo agli atti che ne siano risolutori, come il mutuo dissenso ovvero il recesso unilaterale. E ciò, anche in applicazione del consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale per cui il recesso è un negozio recettizio che, pur non richiedendo formule sacramentali, resta assoggettato ai soli vincoli formali eventualmente prescritti per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato (così Cass. 14730/2000).
La Corte di Cassazione, infine, ha affermato l'ammissibilità della prova testimoniale ritualmente formulata dal datore di lavoro al fine di dimostrare sia l'effettiva disdetta verbale espressa nel corso dell'incontro sindacale, sia il carattere meramente confermativo della successiva lettera del 29 gennaio 2004, per superare la contraria affermazione dei controricorrenti, secondo i quali, nel corso del suddetto incontro, le parti avrebbero pattuito la comunicazione scritta del recesso.

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