Contenzioso

Licenziamento disciplinare e principio di immutabilità della contestazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare e principio di immutabilità della contestazione
Contratto di apprendistato e obbligo formativo
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Cessione di ramo d'azienda: autonomia funzionale e preesistenza del ramo


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 6 giugno 2018, n. 14527

Pres. Manna; Rel. Boghetich; P.M. Matera; Ric. FCA. I. S.p.A.; Controric. M.D. e altri

Lavoro Subordinato - Licenziamento Individuale - Giusta Causa - Diritto di critica delle decisioni aziendali - Limiti - Modalità idonee a ledere l'onore e il decoro del datore di lavoro - Carenza degli elementi costitutivi del reato di diffamazione - Irrilevanza

L'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana. Ne consegue che, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale o ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.

NOTA
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul diritto di critica (e di satira) nell'ambito del rapporto di lavoro.
Il caso in esame ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa di cinque lavoratori che avevano messo in scena una macabra rappresentazione del suicidio dell'amministratore delegato della società tramite impiccagione su un patibolo accerchiato da tute macchiate di rosso e del successivo funerale, con contestuale affissione di un manifesto, ove si attribuivano all'amministratore medesimo le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la deportazione di altri ad un diverso stabilimento aziendale.
Mentre in primo grado il Tribunale aveva confermato il licenziamento, ritenendo che la rappresentazione integrasse un illegittimo esercizio del diritto di critica da parte dei dipendenti, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della predetta sentenza, aveva ritenuto che tali licenziamenti fossero illegittimi, sul presupposto che la rappresentazione scenica fosse priva di «efficacia offensiva», poiché era stata realizzata «una rappresentazione sarcastica priva di violenza e di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della critica che si intendeva realizzare». Secondo la Corte distrettuale il diritto di critica da parte dei lavoratori era stato esercitato nel rispetto dei limiti di continenza sostanziale, vista la «rispondenza al criterio della verità soggettiva» e formale.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la società, con diversi motivi di ricorso. I lavoratori resistevano con controricorso.
In particolare, la società denunciava la violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 2 Cost., anche in relazione all'art. 2119 cod. civ., per avere la Corte d'Appello operato una indebita dilatazione del diritto di critica, superando il limite della verità oggettiva dei fatti e della correttezza delle modalità di espressione.
Con ulteriore motivo di ricorso, la società censurava la sentenza impugnata per l'avere la stessa escluso la ricorrenza della giusta causa di licenziamento, nonostante il comportamento tenuto dai lavoratori avesse compromesso, sul piano morale, l'immagine del datore di lavoro.
Secondo la società, la Corte distrettuale avrebbe inoltre trascurato la gravità della messa in scena allestita dai lavoratori licenziati, ai fini del giudizio di proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione.
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso della società, ha cassato la sentenza della Corte territoriale ritenendo violato il parametro normativo che prevede il bilanciamento effettivo dei due interessi costituzionalmente rilevanti nella fattispecie, ossia il diritto di critica e la tutela della persona.
In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che «anche il diritto di satira non si sottrae al limite della c.d. continenza formale (cfr. Cass. n. 14485 del 2000, Cass. n. 7091 del 2001), ossia non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva». Tra i due interessi collidenti (dell'impresa, cui le affermazioni lesive sono rivolte, e dell'autore della libera manifestazione del pensiero) occorre dunque trovare un «punto di intersezione e di equilibrio che va individuato nel limite in cui il secondo interesse non rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è destinatario».
Ad avviso della Corte di Cassazione, sebbene la plateale inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica porti, in genere, a escludere la loro capacità di offendere l'altrui reputazione, tuttavia «neppure la satira può esorbitare dalla continenza, ossia dai limiti di correttezza formale che le sono imposti, nel caso di attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il dispregio e il dileggio».
Pertanto, ove tali limiti siano superati, il comportamento del dipendente può costituire, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione, giusta causa di licenziamento.
A parere della Corte, la rappresentazione scenica operata dai lavoratori licenziati, considerata in tutti i suoi elementi (il patibolo, il manichino impiccato con la foto dell'amministratore delegato, lo scritto affisso al palo come testamento, le tute macchiate di vernice color rosso sangue), ha dunque ecceduto i limiti della continenza formale e, contravvenendo al c.d. “minimo etico” (inteso come rispetto dei canoni dell'ordinaria convivenza civile), ha leso irrimediabilmente il rapporto fiduciario che lega datore e prestatore di lavoro, con ciò legittimando il licenziamento per giusta causa del secondo.
Applicando i suddetti principi al caso di specie, la Suprema Corte ha perciò ritenuto che la modalità espressiva della critica manifestata dai lavoratori avesse «travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile, mediante offese gratuite, spostando una dialettica sindacale anche aspra ma riconducibile ad una fisiologica contrapposizione tra lavoratori e datori di lavoro, su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a se stesso».

Licenziamento disciplinare e principio di immutabilità della contestazione

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2018, n. 15524

Pres. Napoletano; Rel. Arienzo; Ric. E.S.R. S.p.A.; Controric. A.D.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Atto di contestazione ed atto di recesso - Principio di immutabilità della contestazione - Rilevanza penale del fatto - Qualificazione - Fattispecie.

In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l'immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell'infrazione, dovendosi garantire l'effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare, di cui all'art. 7 st.lav., assicura al lavoratore incolpato.

NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte è chiamata a valutare l'idoneità della condotta di un lavoratore – consistente nell'avere accettato da un terzo un orologio al fine di compiere atti relativi al suo impiego di funzionario incaricato di pubblico servizio – ad integrare una giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ.
Il medesimo comportamento era, altresì, oggetto di procedimento penale.
Il lavoratore impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatogli, censurando, tra il resto, la diversità del fatto contestato in sede disciplinare rispetto a quello accertato in sede penale, ove l'originario reato corruttivo ascritto (consistente nell'aver favorito, a fronte della dazione di un cronografo, l'ottenimento da parte di un terzo di rimborsi non dovuti) era stato derubricato ad una forma più tenue di corruttela (integrata dall'aver posto in essere, a fronte della predetta dazione, «con eccessivo zelo» una «condotta di accertamento e “stimolazione”» affinché la società datrice «erogasse più puntualmente e celermente rimborsi erariali al corruttore»).
Entrambi i giudici del merito rigettavano l'azione del dipendente, dichiarando la legittimità del licenziamento.
In dettaglio, la Corte territoriale affermava che la citata derubricazione in sede penale non aveva determinato una «discrasia tale da rendere illegittima la sanzione comminata, essendo rimasto in essere un comportamento illecito non solo penalmente rilevante, ma gravemente incidente sul rapporto di lavoro, che, sebbene meno grave sotto il profilo penale rispetto alla condotta originaria oggetto di imputazione, rientrava nel fatto come contestato ed era portatore di un grave disvalore».
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, censurando la supposta «diversità della contestazione rispetto al fatto di rilevanza disciplinare come emerso in giudizio, anche a seguito della sentenza penale».
La Suprema Corte respinge l'impugnazione, rammentando, anzitutto, che, in tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare, dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso. In particolare – statuisce il Collegio – la condotta giudizialmente accertata, anche se meno grave sotto il profilo penale rispetto a quella originariamente oggetto di imputazione, rientra comunque nel fatto contestato e viola il vincolo di lealtà, correttezza e buona fede su cui si basa il rapporto di lavoro, ponendosi in violazione dell'art. 32 del CCNL applicato, il quale prevede che «il personale, nell'esplicazione della propria attività di lavoro, deve tenere una condotta costantemente informata ai principi di disciplina, di lealtà e moralità».
Ad ulteriore comprova della correttezza dell'iter argomentativo della Corte territoriale, i Giudici di legittimità soggiungono che, in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il Giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il Giudice – nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva.

Contratto di apprendistato e obbligo formativo

Cass. Sez. Lav. 22 giugno 2018, n. 16571

Pres. Di Cerbo; Rel. De Gregorio; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. T.D.;

Lavoro subordinato – Contratto di apprendistato – Inadempimento dell'obbligo formativo – Conseguenze – Trasformazione in rapporto subordinato a tempo indeterminato – Requisiti – Inadempimento di non scarsa importanza – Necessità

In relazione al contratto d'apprendistato l'inadempimento degli obblighi di formazione ne determina la trasformazione, fin dall'inizio, in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ove l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e trasfusi nel contratto, ferma la necessità per il giudice, in tale ultima ipotesi, di valutare, in base ai principi generali, la gravità dell'inadempimento ai finì della declaratoria di trasformazione del rapporto in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza.

NOTA
Il caso in esame riguarda le conseguenze dell'inadempimento dell'obbligo formativo previsto dal contratto di apprendistato.
Nel caso in esame la Corte d'Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la nullità del contratto di apprendistato tra il lavoratore e la società datrice di lavoro e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con decorrenza dall'inizio del contratto di apprendistato, con la conseguente condanna alla riammissione in servizio del lavoratore ed al pagamento delle retribuzioni corrispondenti all'inquadramento ordinario.
La decisione della Corte d'Appello era dovuta alla rilevata mancanza della formazione professionale prevista dal contratto. Sul punto la società datrice, sempre secondo la Corte territoriale, aveva omesso di assolvere all'onere della prova su di lei incombente e – peraltro – la testimonianza del tutor assegnato al lavoratore aveva evidenziato che lo stesso ignorasse in cosa consistessero le mansioni dell'apprendista e se lo stesso avesse effettivamente frequentato corsi di formazione.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro, sulla base di vari motivi. In particolare e per quanto qui interessa la società sosteneva di aver messo il lavoratore nella condizione di ricevere la dovuta formazione avendo organizzato corsi ed avendolo affiancato ad un tutor di comprovata esperienza. Ciò, sempre nella ricostruzione datoriale, avrebbe dovuto escludere la trasformazione del rapporto di apprendistato in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, essendo tale conseguenza prevista dalla giurisprudenza soltanto per un inadempimento che si concretizzi in una totale mancanza di formazione teorica e pratica.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi di impugnazione e rigettato l'intero ricorso.
In particolare ha affermato che la Corte d'Appello aveva fatto coerente e logica applicazione delle risultanze testimoniali e probatorie in genere le quali non avevano «fornito elementi tali da distinguere il rapporto di causa da un qualsiasi rapporto di lavoro ordinario». La Cassazione stessa ha poi ricordato il proprio costante orientamento secondo il quale in relazione al contratto d'apprendistato « l'inadempimento degli obblighi di formazione ne determina la trasformazione, fin dall'inizio, in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ove l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e trasfusi nel contratto, ferma la necessità per il giudice, in tale ultima ipotesi, di valutare, in base ai principi generali, la gravità dell'inadempimento ai finì della declaratoria di trasformazione del rapporto in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza.».
In applicazione di tale principio e delle risultanze probatorie, la decisione della Corte territoriale è stata ritenuta legittima. La mancanza di un'apprezzabile attività formativa in favore del lavoratore ha determinato, infatti, la trasformazione del rapporto di apprendistato in un ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla sua instaurazione.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 18 giugno 2018, n. 16047

Pres. Nobile; Rel. Patti; Ric. D.R.V. e L.P.L.; Controric. F.B.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Salvaguardia della salute del lavoratore - Comportamento colposo del lavoratore – Responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità e imprevedibilità della condotta del prestatore rispetto al procedimento lavorativo tipico ed alle direttive ricevute - Necessità - Rischio elettivo del prestatore di lavoro.

Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento ed integrando il c.d. “rischio elettivo”.

NOTA
Nella sentenza in oggetto il Supremo Collegio ribadisce i limiti della responsabilità datoriale ex art. 2087 cod. civ.
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo il risarcimento del danno differenziale non patrimoniale per l'infortunio occorsogli a causa della «caduta del pilone di ferro, poggiato su una parete sovrastante, sulla schiena» mentre era «intento a lavorare alla realizzazione di una scala lungo lo scavo eseguito».
Entrambi i Giudici di merito accoglievano la domanda del dipendente ma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, che aveva accertato il concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell'infortuno, la Corte d'Appello «rideterminava, escluso il concorso di colpa del lavoratore, il risarcimento del danno differenziale non patrimoniale» a favore del lavoratore. In particolare, la Corte d'Appello argomentava che «non era stata provata la consapevolezza del medesimo di un tale pericolo così prossimo, né tanto meno la responsabilità del posizionamento precario del pilone».
La Società proponeva ricorso per Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1227 cod. civ. e 41, comma 2, cod. pen. per «l'abnormità del comportamento tenuto dal lavoratore, interruttivo del nesso di causalità tra l'omessa adozione delle misure di protezione necessarie e l'infortunio».
La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che, in tema di responsabilità ex art. 2087 cod. civ., nell'ipotesi di infortunio sul lavoro, la colpa da imputare al lavoratore per imprudenza, negligenza o imperizia non esclude quella del datore di lavoro, il quale è tenuto a provare di aver fatto il possibile per evitare il danno, non essendo sufficiente il concorso di colpa del lavoratore per caducare il nesso di causalità. La responsabilità del datore di lavoro viene meno unicamente qualora vengano accertate l'abnormità, l'opinabilità e l'esorbitanza del comportamento del lavoratore, necessariamente riferite al procedimento lavorativo tipico ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento. Solo in questo caso, infatti, si considera integrato il c.d. “rischio elettivo”, ossia «una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata».
Pertanto, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente.
Ebbene - conclude la Cassazione - nella fattispecie, come accertato dai Giudici d'appello, «la prova del fatto (discutibilmente) prospettato come abnorme, ossia della consapevolezza del lavoratore “della condizione precaria del pilone e quindi del pericolo che ciò creava” (…) è stata addirittura esclusa con un accertamento in fatto adeguatamente motivato (…) peraltro insindacabile in sede di legittimità».

Cessione di ramo d'azienda: autonomia funzionale e preesistenza del ramo

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2018, n. 15522

Pres. Napoletano; Rel. Tricomi; Ric. B.G. e altri Contr. C. di V.;

Cessione ramo d'azienda – Art. 2112 c.c. – Autonomia funzionale e preesistenza del ramo – Necessità – Struttura creata ad hoc al momento della cessione – Esclusione.

Per “ramo d'azienda”, ai sensi dell'art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo.

NOTA
Un gruppo di lavoratori avevano adito il Tribunale del lavoro di Verona, affermando di essere stati dipendenti del Comune di V., che, nel 2009, era stata decentrata la gestione dei servizi di refezione scolastica conferiti ad un'azienda speciale e che il Comune aveva qualificato tale operazione come cessione di ramo d'azienda; in conseguenza di ciò erano stati trasferiti, senza soluzione di continuità, alle dipendenze della cessionaria. I lavoratori contestavano tale operazione sostenendo che, in realtà, si fosse realizzato un mero trasferimento di manodopera e perciò chiedevano che venisse dichiarata l'illegittima cessione del ramo di azienda e che il Comune venisse condannato alla loro reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ex art. 18, l. n. 300/70.
Il Tribunale respingeva la domanda e la pronuncia veniva confermata in sede di appello. La Corte di merito sosteneva che i trasferimenti si erano realizzati nel rispetto dell'art. 31 d. lgs. n. 165/2001 nonché dell'art. 2112 c.c., in quanto era stato dimostrato che i servizi di produzione e somministrazione pasti erano forniti dal Comune di V. attraverso una struttura produttiva dotata di autonomia funzionale ed organizzativa, preesistente al trasferimento e che aveva mantenuto la propria identità dopo il trasferimento.
Avverso tale sentenza i lavoratori propongono ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, la violazione dell'art. 2112 c.c. laddove la corte di appello aveva ritenuto preesistente il ramo alla cessione.
La Suprema Corte respinge il motivo rilevando che, la giurisprudenza della sezione è orientata nel ritenere che per “ramo d'azienda”, ai sensi dell'art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonomia ed obiettiva funzionalità (cfr. Cass. 12 agosto 2014, n. 17901; Cass. 4 dicembre 2012, n. 21711).
Tanto premesso, la Corte di appello, a parere della Cassazione aveva fatto corretta applicazione di tali princìpi, laddove, alla luce di un dettagliato accertamento di fatto, aveva evidenziato la preesistenza dell'unità organizzativa trasferita.
Con il secondo motivo i lavoratori denunciano la sentenza di appello nella parte in cui non avrebbe considerato che le mansioni dei lavoratori trasferiti erano eterogenee e che il contratto di cessione, era un comodato d'uso.
La Corte respinge anche tale motivo rilevando, per un verso, come il ramo trasferito deve avere sotto il profilo funzionale, idoneità ad esplicare l'attività di impresa, ragione per cui la diversità di mansioni dei lavoratori addetti non è di per sé un elemento che dimostri alcunché e, per altro verso, che il comodato non esclude la cessione di ramo di azienda atteso che anche tale contratto è idoneo a mettere a disposizione del cessionario dell'azienda i beni funzionalmente collegati alla produzione.

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