Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Attività extralavorativa durante la malattia e licenziamento
Recesso per raggiungimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia
Lavoro giornalistico e subordinazione
Sulla validità del recesso verbale dal contratto collettivo
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Attività extralavorativa durante la malattia e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 13 marzo 2018, n. 6047

Pres. Di Cerbo; Rel. Tricomi; P.M. Celentano; Ric. A. STS S.p.A.; Controric. A.G.;

Licenziamento disciplinare - Lavoratore assente dal lavoro per malattia - Mancata adozione da parte del dipendente di ogni cautela possibile per non mettere a rischio o ritardare la propria guarigione - Violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede - Giusta causa di recesso - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie

L’espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento deriva un’effettiva impossibilità temporanea alla ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa è solo messa in pericolo dalla condotta imprudente, con una valutazione di idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata al momento in cui il comportamento viene realizzato.

Pertanto, sebbene il lavoratore assente per malattia non debba necessariamente astenersi dallo svolgere altre attività, queste ultime devono però essere compatibili con lo stato di malattia ed essere conformi all’obbligo di correttezza e buona fede gravante sul lavoratore di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia, con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro.  

Nota

Il caso oggetto della pronuncia in commento tratta di un lavoratore licenziato per giusta causa all’esito di un procedimento disciplinare per l’essersi esibito come suonatore di fisarmonica in uno spettacolo canoro di tipo amatoriale (evento pubblicizzato anche sulla stampa locale, nonché sul profilo Facebook del lavoratore) durante un periodo di malattia in cui era assente dal lavoro per “lombosciatalgia”.

Il licenziamento veniva dichiarato legittimo in primo grado, mentre la Corte d’Appello di Genova accoglieva l’impugnazione del lavoratore, condannando la Società alla reintegrazione del dipendente e al pagamento di un’indennità risarcitoria nella misura massima di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, per “insussistenza del fatto”. Ciò in quanto la Società non aveva contestato la sussistenza della malattia, ma solo l’adozione di una condotta che avrebbe potuto ritardare la guarigione, ritardo che nei fatti non si era concretizzato, posto che il lavoratore, terminato il periodo di assenza dal lavoro indicato nei certificati medici, aveva regolarmente ripreso il servizio.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la Società. Il lavoratore resisteva con controricorso.

In particolare, con il primo motivo di ricorso la Società sosteneva che la Corte territoriale avesse errato nel non esaminare la dedotta insussistenza della malattia, posto che la contestazione riguardava un’unica situazione di fatto consistente nell’essersi il lavoratore esibito in uno spettacolo canoro durante l’asserito stato di malattia. 

Con ulteriore motivo di ricorso, la Società censurava la pronuncia impugnata per non aver la stessa tenuto conto di alcuni elementi che evidenziavano la simulazione dello stato di malattia quali, ad esempio, la fissazione con anticipo delle date delle rappresentazioni, la distanza del luogo del concerto dalla residenza del lavoratore, una foto sul profilo di Facebook del lavoratore da cui si evinceva che questi suonava la fisarmonica in piedi, la durata del periodo di malattia a cavallo dell’esibizione, l’invito del medico curante a riguardarsi in ragione dello stato di salute.

La Corte di Cassazione nel ritenere infondati i primi due motivi di ricorso, ha anzitutto ricordato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro - in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà - oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione della stessa, anche nel caso in cui la medesima attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (ex plurimis, in tal senso, Cass. n. 17625/2014, Cass. n. 24812/2016, Cass. n. 21667/2017).

Ciò purché dalla contestazione dell’addebito emerga con chiarezza il profilo fattuale che consenta una adeguata difesa del lavoratore. Proprio in relazione a tale aspetto la Corte, confermando quanto disposto dal giudice del merito, ha ritenuto che la contestazione, per come formulata, non riguardasse l’inesistenza in sé della malattia, bensì l’adozione di una condotta che potesse ritardare la guarigione del lavoratore.

La Suprema Corte ha invece accolto gli ulteriori quattro motivi di ricorso formulati dalla Società.

Anzitutto, secondo la Società, il lavoratore avrebbe violato l’obbligo sancito dagli artt. 1175 e 1375 c.c., poiché, con il proprio comportamento, avrebbe potuto ritardare la guarigione, a nulla rilevando che ciò poi non sia accaduto. Con l’ulteriore motivo di ricorso eccepiva che la Corte d’Appello aveva escluso la giusta causa del licenziamento senza valutare se la supposta lombosciatalgia avrebbe comunque consentito al lavoratore di svolgere la propria prestazione lavorativa in azienda. Infine, la Società deduceva che il giudice del merito da un lato, aveva supplito all’onere gravante sul lavoratore di dimostrare la compatibilità delle attività extra-lavorative con la malattia, dall’altro, aveva valutato tale compatibilità ex post (non già ex ante come avrebbe dovuto fare). 

In accoglimento dei predetti motivi di ricorso, la Suprema Corte ha affermato che lo stato di malattia del lavoratore non comporta l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma è solo impeditiva delle normali prestazioni lavorative del dipendente, con la conseguenza che, nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente, secondo il principio dell’onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa e, quindi, la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche. 

Ne deriva che il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per questo deve asternersi da ogni altra attività. Tuttavia, l’espletamento di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza da lavoro costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia anche solo messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore, con una valutazione di idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante (non già ex post, come invece affermato nella sentenza impugnata). 

Precisato quanto precede, la Suprema Corte osserva come nel caso di specie la Corte d’Appello, pur richiamando correttamente i principi ora esposti, abbia però omesso di operare il giudizio di verifica della conformità a correttezza e buona fede della condotta contestata al dipendente rispetto all’obbligo di cautela sullo stesso gravante, poiché è sul lavoratore che grava l’onere di dimostrare la compatibilità delle attività svolte durante l’assenza da lavoro, con la malattia impeditiva dell’attività lavorativa.

La Corte ha pertanto cassato con rinvio la sentenza impugnata in relazione a tali ultimi motivi di ricorso, e, in luogo della reintegrazione, ha affermato che, al più, avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 18, comma 5, L. 300/1970, avendo la Corte d’Appello errato nel ritenere “insussistente” il fatto contestato.

 

Recesso per raggiungimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia 

Cass. Sez. Lav. 14 marzo 2018, n. 6157

Pres. Balestrieri; Rel. Garri; Ric. M. V.; Contoric. A. S.P.A.;

Lavoro subordinato - Recesso per raggiungimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia - Momento del recesso - Possibilità di intimare il recesso acausale prima del raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età con efficacia successiva a tale data - Sussistenza

Con riferimento al recesso per raggiungimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia, l'inizio del regime di recedibilità "ad nutum" del rapporto di lavoro, contemporaneo alla fine del regime di recedibilità causale, attribuisce al datore di lavoro il potere di far cessare immediatamente il rapporto, purché (e salva l'ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c.) il lavoratore abbia avuto la possibilità di giovarsi del periodo di preavviso grazie ad una tempestiva intimazione del licenziamento, valida anche se resa già in regime di recedibilità causale; pertanto è legittimo un licenziamento che, sebbene intimato in regime di recedibilità causale e privo di giustificazione, sia destinato a produrre effetto solo al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età del lavoratore e, quindi, in coincidenza del subentrare del regime di recedibilità "ad nutum".

Nota

La sentenza in commento ha ad oggetto la possibilità da parte del datore di comunicare il recesso ad nutum per raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età (età valida, all’epoca dei fatti, per il conseguimento della pensione di vecchiaia) prima del compimento di tale termine. Nel caso in esame il lavoratore riceveva da parte della società datrice una lettera in data 29 ottobre 2007 con cui si comunicava il recesso, con efficacia al 28 ottobre 2008, poiché in tale ultima data il lavoratore avrebbe raggiunto il sessantacinquesimo anno di età.

Tale recesso veniva impugnato dal lavoratore il quale richiedeva, conformemente al CCNL applicato e previa l’eventuale dichiarazione d’illegittimità del licenziamento, il riconoscimento del diritto ad un periodo di dieci mesi di preavviso. La domanda del lavoratore veniva respinta tanto in primo grado quanto in appello sulla base del fatto che, secondo le corti territoriali adite, il preavviso richiesto era già stato concesso dalla società datrice, ben potendo lo stesso - infatti - decorrere a partire da un momento precedente al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età. Contro tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione articolando vari motivi. In particolare e per quanto qui interessa il lavoratore sosteneva che nel caso di recesso per raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età la decorrenza del periodo di preavviso possa iniziare soltanto in un momento successivo al raggiungimento di tale limite.

La Suprema Corte ha dichiarato infondata la doglianza del lavoratore e respinto l’intero ricorso. 

Nella sua decisione la Corte di Cassazione, infatti, dapprima ha confermato che - nell’ambito del rapporto di lavoro privato - il raggiungimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia non determina una causa di risoluzione automatica del rapporto ma semplicemente l’entrata in un regime di recedibilità ad nutum dal rapporto di lavoro, successivamente ha ribadito che la comunicazione di tale recesso non configura un’ipotesi di licenziamento bensì un semplice atto risolutivo che non determina l’obbligo di preavviso né l’applicabilità della disciplina propria del licenziamento. 

Fermo quanto sopra, la Suprema Corte ha affermato che il recesso in esame ben possa essere comunicato prima del raggiungimento di tale limite ribadendo un suo costante orientamento (ex multis Cass. 27425 del 2014 e 24722 del 2007) secondo cui con riferimento al recesso per raggiungimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia «l'inizio del regime di recedibilità "ad nutum" del rapporto di lavoro, contemporaneo alla fine del regime di recedibilità causale, attribuisce al datore di lavoro il potere di far cessare immediatamente il rapporto, purché (e salva l'ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c. ) il lavoratore abbia avuto la possibilità di giovarsi del periodo di preavviso grazie ad una tempestiva intimazione del licenziamento, valida anche se resa già in regime di recedibilità causale; pertanto è legittimo un licenziamento che, sebbene intimato in regime di recedibilità causale e privo di giustificazione, sia destinato a produrre effetto solo al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età del lavoratore e, quindi, in coincidenza del subentrare del regime di recedibilità "ad nutum"».

 

Lavoro giornalistico e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2018, n. 5707

Pres. Balestrieri; Rel. Boghetich; P.M. Matera; Ric. R.R.I. S.p.A.; Controric. F.G.P.;

Rapporto di lavoro giornalistico - Qualificazione del rapporto come subordinato od autonomo - Natura creativa dell’attività - Attenuazione della subordinazione - Sussistenza - Accertamento - Indici - Fattispecie

Nell’ambito dell’attività giornalistica, il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa, con la conseguenza che, ai fini dell'individuazione del vincolo di subordinazione, rileva particolarmente l'inserimento continuativo ed organico di tali prestazioni nell’organizzazione dell’impresa (Nella specie, relativa alla posizione di un redattore, la S.C. ha ritenuto decisivi: il pieno inserimento del lavoratore nell'attività redazionale; la estesa disponibilità e la partecipazione intensa alla quotidianità della redazione; l’obbligo di rispondere ad altri dipendenti del proprio operato; il possesso di un proprio ufficio e la collaborazione alla realizzazione di precisi programmi e progetti di lavoro). 

Nota

La Corte d’Appello di Roma, a conferma della pronuncia di primo grado, accoglieva il ricorso proposto da un giornalista per l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (nonostante la stipulazione di una serie di contratti di lavoro autonomo) e per la condanna al pagamento di differenze retributive. La Corte territoriale, in particolare, argomentava che il quadro probatorio acquisito confermava che i contratti d’opera professionali svolti erano inquadrabili nello schema del rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica, in considerazione dello stabile inserimento nell’organizzazione aziendale, della riscontrata eterodirezione e dell’obbligo di rispondere ad altri dipendenti dell’operato. La Corte di merito, pertanto, riconosceva al ricorrente la qualifica di redattore, tenuto conto che l’attività svolta si compendiava sia di un momento di rilevamento di spunti informativi sia di una elaborazione critica, con diffusione di un prodotto non meramente compilativo ma consistente in una argomentata analisi di fattispecie. 

Avverso la predetta sentenza, la società proponeva ricorso per Cassazione. Resisteva con controricorso il lavoratore. 

La Suprema Corte, richiamandosi all’ampia elaborazione giurisprudenziale in materia (v. Cass. 9/4/2004, n. 6983; Cass. 6/3/2006, n. 4770; Cass. 7/10/2013, n. 22785) ha rigettato il ricorso, sottolineando che: a) nell’ambito del rapporto di lavoro giornalistico, il vincolo della subordinazione assume una particolare configurazione (cd. subordinazione attenuata), sia per la natura intellettuale delle prestazioni sia per il carattere collettivo dell’opera redazionale, in ragione dei vincoli posti dalla legge per la pubblicazione del giornale e la diffusione delle notizie; b) tale vincolo va ravvisato essenzialmente nella stabile disponibilità del lavoratore, pur nella discontinuità delle richieste di prestazione, ad eseguire le istruzioni dell’editore; c) per contro, è configurabile un rapporto di lavoro autonomo (per il quale non è prevista alcuna ingerenza del committente nell’esecuzione della prestazione) quando viene prestabilita un’unica fornitura, anche se scaglionata nel tempo, con unica retribuzione, magari subordinata ad una valutazione di gradimento e commisurata alla singola prestazione (v. Cass. 7/10/2013, n. 22785; Cass. 29/08/2011, n. 17723).

Ebbene - ha concluso la Suprema Corte - la continuità della prestazione è stata, nella specie, incensurabilmente accertata dalla Corte d’Appello, la quale, nell’affermare che nell’attività svolta dal ricorrente erano rinvenibili tutti i tratti caratteristici di un’attività giornalistica svolta nella stabile e quotidiana disponibilità del lavoratore all’interno della redazione, ha fatto corretta applicazione dei principi sopra esposti. 

 

Sulla validità del recesso verbale dal contratto collettivo

Cass. Sez. Lav. 8 marzo 2018, n. 5601

Pres. Napoletano; Rel. Manna; Ric. B.A.; Controric. G.F.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Contratto collettivo - Accordi aziendali - Disciplina (efficacia) -  Recesso e disdetta - Forma scritta - Necessità - Esclusione

Il principio della libertà delle forme si applica anche all'accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, di guisa che essi - a meno di eventuale diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell'art. 1352 cod. civ. dalle medesime parti stipulanti - ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti. Tale liberà della forma dell'accordo o del contratto collettivo di lavoro concerne anche i negozi connessivi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, c. 2, cod. civ.

La parte che eccepisce l'avvenuto recesso unilaterale è onerata ex art. 2697, c. 2, cod. civ. della relativa prova e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell'altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo - anziché innovativo - di tale successiva dichiarazione.

Nota

Nella sentenza in commento il Supremo Collegio fissa i requisiti formali di validità ed efficacia del recesso dal contratto collettivo di diritto comune.

Nel caso di specie, l'accordo collettivo aziendale - avente ad oggetto l'erogazione di un premio aziendale - conteneva una clausola di tacito rinnovo annuale, «fatta salva eventuale disdetta da manifestarsi entro il 31 gennaio di ciascun anno». 

A fronte della domanda di pagamento del suddetto premio per l'anno 2004 da parte di un dipendente, il datore di lavoro deduceva di aver dichiarato la propria disdetta dapprima verbalmente nel corso di una riunione con le organizzazioni sindacali tenutasi il 27 gennaio 2004 e, successivamente, per iscritto con lettera del 29 gennaio, ricevuta da una delle parti stipulanti soltanto il successivo 3 febbraio. 

Il Tribunale rigettava la domanda del lavoratore; la Corte territoriale, invece, l'accoglieva, reputando valida ed efficace soltanto la disdetta scritta pervenuta il 3 febbraio 2004 e, pertanto, tardiva, con conseguente accertamento dell'intervenuto rinnovo dell'accordo fino all'anno successivo. Entrambi i Giudici del merito non davano ingresso alla prova testimoniale, richiesta dal datore per provare la disdetta del 27 gennaio e la natura meramente confermativa - e non innovativa - dell'atto scritto del 29 gennaio, ricevuto il 3 febbraio.

La società proponeva ricorso per Cassazione, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 1373 cod. civ. in riferimento agli artt. 1334, 1350 e 1362 cod. civ., «per avere l'impugnata sentenza negato efficacia alla disdetta degli accordi relativi al premio aziendale manifestata oralmente dalla società».

La Suprema Corte accoglie la censura, rammentando, anzitutto, a mente della sentenza S.U. n. 3318/1995, che, in mancanza di norme che prevedano, per i contratti collettivi, la forma scritta e in applicazione del principio generale della libertà delle forme (in base al quale le norme che prescrivono forme peculiari per determinati contratti o atti unilaterali sono di stretta interpretazione, ossia insuscettibili di interpretazione analogica), un accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto.

Una volta stabilita la libertà delle forme dell'accordo o del contratto collettivo di lavoro - soggiunge la Cassazione - la medesima libertà deve essere ravvisata anche riguardo agli atti che ne siano risolutori, come il mutuo dissenso (art. 1372, c. 1, cod. civ.) o il recesso unilaterale e la disdetta (art. 1373, c. 2, cod. civ.).

Tanto - a parere dei Giudici di legittimità - deriva dal consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale per cui il recesso è un negozio recettizio che, pur non richiedendo forme sacramentali, nondimeno resta assoggettato agli stessi vincoli formali eventualmente prescritti per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato. E - conclude la Corte - ove tali vincoli non siano previsti, come nel caso degli accordi o dei contratti collettivi di lavoro, si riespande il principio della liberà delle forme della manifestazione di volontà, quanto per il contratto quanto per i negozi connessivi (qual è il recesso unilaterale).

Tanto premesso, la Cassazione puntualizza, da un lato, che la parte che eccepisce l'avvenuto recesso unilaterale è onerata ex art. 2697, c. 2, cod. civ. della relativa prova e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell'altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo - anziché innovativo - di tale successiva dichiarazione; dall'altro, che non vi sono ostacoli normativi alla possibilità d'una prova testimoniale della disdetta, sia perché ex art. 421, c. 2, cod. proc. civ. nel processo del lavoro non si applicano i limiti alla prova testimoniale previsti dagli artt. 2721, 2722 e 2723 cod. proc. civ.; sia perché tali limiti sono riferibili ai soli contratti e non anche agli atti unilaterali.

In definitiva, il Supremo Collegio cassa la sentenza d'appello con rinvio, incaricando la Corte territoriale di accertare, mediante prova testimoniale, «se e in che termini nella summenzionata riunione del 27.1.04 vi sia stata un'effettiva disdetta orale degli accordi collettivi aziendali».

 

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 12 marzo 2018, n. 5957

Pres. Bronzini; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. F.C. Contr. F. s.c.a.r.l.;

Infortunio sul lavoro - Danno cagionato da cose in custodia - Art. 2051 c.c. - Responsabilità del datore di lavoro - Sussistenza

Nell'ipotesi in cui il danno sia stato causato al lavoratore da cosa che il datore di lavoro ha in custodia - con il correlato obbligo di vigilanza e controllo su di essa - ove sia accertato il nesso eziologico tra il danno stesso e l'ambiente e i luoghi di lavoro, sussiste, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2051 e 2087 c.c., una responsabilità del datore di lavoro, salvo che lo stesso provi il caso fortuito.

Nota

La Corte di appello di Trieste, confermando la decisione del Tribunale di Udine, respingeva la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere il risarcimento dei danni subìti all'esito di un infortunio occorsogli, nel 1994, nell'adempimento della prestazione lavorativa. Il ricorrente affermava che, mentre era intento a praticare dei fori all'interno di una galleria ferroviaria in costruzione, era esplosa una carica rimasta nascosta, arrecandogli gravi lesioni personali. A fondamento della decisione, la Corte territoriale sosteneva che l'eventus damni non fosse da ricondurre al comportamento colposo del datore di lavoro, non essendovi sul sito segnali di pericolo relativi all'esistenza di cariche rimaste inesplose. 

Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando, tra l'altro, la violazione dell'art. 2051 c.c., in quanto il datore di lavoro doveva ritenersi responsabile anche in relazione alle cose tenute in custodia, quale riflesso dell'applicazione dell'art. 2087 c.c.

La Corte di Cassazione ritiene fondata la censura ribadendo, in primo luogo, i propri consolidati princìpi in tema di responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro, evidenziando che, l'obbligo di sicurezza posto a carico dell'imprenditore è previsto, in generale, dall'art. 2087 c.c., con contenuto atipico residuale e, con contenuto tipico, dalla dettagliata disciplina di settore.

La disposizione di cui all'art. 2087 c.c. si qualifica come una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni non ancora espressamente considerate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all'imprenditore l'adozione non solo di misure antinfortunistiche ma anche di misure atte a preservare i lavoratori dall'ambiente o in costanza di lavoro in relazione ad eventi pur se allo stesso non direttamente collegati. Con l'ulteriore precisazione che l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze tecniche o sperimentali del momento (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3288). Conseguentemente, in tema di riparto degli oneri probatori, qualora il lavoratore lamenti di aver subìto un danno, deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione; mentre, il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.

Tanto premesso, prosegue la Suprema Corte, qualora - come nel caso in esame - il danno sia stato determinato da cose che il datore di lavoro aveva in custodia (e la custodia va intesa in senso lato, come mera esistenza di un potere fisico riconosciuto dal proprietario ad altri soggetti), è sufficiente, ai fini della configurabilità della responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c., la sussistenza di una relazione diretta tra la cosa e l'evento dannoso, e l'esercizio del potere fisico del soggetto sulla cosa, da cui discende l'obbligo di controllarla in modo da impedire che la cosa causi danno (Cass. 14 giugno 1999, n. 5885).

In tale ambito, sussiste una presunzione di colpa a carico del datore di lavoro - che è, anche, custode della cosa da cui il danno deriva - che può essere superata solo dalla dimostrazione di aver adottato le cautele antinfortunistiche, ovvero dall'accertamento del comportamento abnorme del lavoratore o, infine, dal caso fortuito ex art. 2051 c.c., vale a dire nella natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso.

La Corte di Cassazione, quindi, accoglie il ricorso, rinviando alla Corte di appello, affinché accerti, alla luce dei princìpi sopra esposti, se sussista una responsabilità concorrente del datore di lavoro nella causazione del danno subìto dal lavoratore.

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