Il risarcimento per il socio lavoratore di cooperativa licenziato
Licenziamento del socio lavoratore di cooperativa
Orario di lavoro parziale e pausa pranzo
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Procedimento disciplinare
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento del socio lavoratore di cooperativa
Cass. Sez. Lav. 3 settembre 2018, n. 21566
Pres. Bronzini; Rel. Marchese; P.M. Celeste; Ric. C.S.Q.S.C. O.N.L.U.S.; Controric. R.S.V.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Contestuale delibera di esclusione del socio-lavoratore dalla cooperativa - Omessa impugnazione della delibera - Tutela risarcitoria - Configurabilità - Reintegrazione - Esclusione - Fattispecie.
In caso di esclusione e licenziamento del socio di cooperativa la mancata impugnazione della delibera di esclusione preclude la tutela ripristinatoria del rapporto di lavoro, ma non impedisce al lavoratore di contestare la legittimità del licenziamento al fine di ottenere, in caso di accertata illegittimità dello stesso, il risarcimento del danno secondo le previsioni di cui all'art. 8, L. n. 604/1966.
NOTA
Il caso di specie riguarda un licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice socia di una società cooperativa.
Tale licenziamento veniva dichiarato illegittimo dalla Corte d'Appello di Firenze che, in riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento de quo e condannava la cooperativa a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. In particolare, la Corte d'Appello giungeva a tale conclusione rilevando che, esclusa la sussistenza di una giusta causa di recesso, ed essendo il provvedimento espulsivo della socia fondato esclusivamente su ragioni disciplinari, doveva applicarsi la tutela di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Ricorreva per cassazione la società cooperativa, rilevando l'erronea applicazione del rimedio sanzionatorio di cui all'art. 18 cit., anche in ragione del fatto che, nel caso di specie, la decisione del giudice di merito non aveva considerato l'omessa impugnazione da parte della lavoratrice della delibera di esclusione di socia.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, richiamando, innanzitutto, quanto affermato sul tema dalle Sezioni Unite, secondo cui «l'effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall'esclusione dalla cooperativa a norma della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, impedisce senz'altro, in mancanza d'impugnazione della delibera che l'abbia prodotto, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore» (cfr. Cass. Sez. Unite n. 27436/2017).
La cessazione del rapporto associativo trascina, infatti, con sé, inevitabilmente, quella del rapporto di lavoro, e ciò si ricava anche dall'art. 5 cit., che espressamente esclude la sopravvivenza del rapporto di lavoro alla caducazione di quello associativo.
In conclusione, l'omessa impugnazione della delibera di esclusione - con il conseguente definitivo effetto estintivo del rapporto di lavoro - lascia impregiudicato l'interesse del lavoratore a far valere l'illegittimità del recesso, fondato sui medesimi fatti posti a fondamento della prima, per ottenere il risarcimento del danno derivante dall'ingiusta cessazione del rapporto di lavoro; tale risarcimento, tuttavia, sarà limitato alle previsioni di cui all'art. 8 della 604/1966 (con la precisazione che l'offerta datoriale di riassunzione ivi contemplata - ed alternativa al pagamento di un'indennità economica - corrisponderà ad una proposta contrattuale di ricostituzione di un nuovo rapporto), con esclusione dell'applicabilità dell'art. 18 St. Lav.
Tutto ciò premesso, la Corte di Cassazione ha rilevato che nella sentenza impugnata è del tutto omesso l'esame dell'elemento decisivo (impugnazione o meno della delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni del licenziamento) ai fini dell'individuazione della tutela applicabile in favore del socio-lavoratore; tale decisione si pone quindi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e viene, pertanto, cassata con rinvio.
Orario di lavoro parziale e pausa pranzo
Cass. Sez. Lav. 3 settembre 2018, n. 21562
Pres. Di Cerbo; Rel. Barbi; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.M.; Controric. A.H. S.p.A.;
Lavoro subordinato a tempo parziale – Modifica dell'orario di lavoro – Introduzione pausa pranzo a metà dell'orario di lavoro – Esclusione dall'orario di lavoro – legittimità – Orario di lavoro – Nozione.
Rientra nell'orario di lavoro l'intero arco temporale trascorso dal lavoratore all'interno dell'azienda, atteso che l'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. 66/2003 attribuisce rilievo non solo al tempo della effettiva prestazione lavorativa, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro, con la conseguenza che l'obbligo retributivo viene meno ove il datore di lavoro dimostri che il dipendente sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al potere gerarchico.
Nel caso in cui all'interno dell'orario di lavoro sia prevista una pausa nello svolgimento dell'attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge o di contratto che ricomprenda tale pausa nell'orario di lavoro, è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, è eterodiretto e non è lasciato alla disponibilità autonoma del dipendente stesso.
NOTA
Un dipendente, assunto con contratto di lavoro parziale, agiva in giudizio al fine di ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive per le ore lavorate in esubero rispetto all'orario di lavoro concordato, computando anche la pausa pranzo di 30 minuti che era stata unilateralmente imposta dal datore di lavoro, successivamente all'inizio del rapporto.
Il Tribunale di Venezia rigettava il ricorso. La Corte d'appello veneziana, in accoglimento parziale dell'impugnazione del dipendente, riconosceva il diritto alle differenze retributive, escludendo dal computo dell'orario di lavoro la pausa pranzo.
Avverso tale decisione il lavoratore ricorreva in Cassazione; la società rimaneva intimata.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo inammissibili e comunque infondati i relativi motivi.
Con riferimento alla nozione di orario di lavoro, la Suprema Corte ha ribadito il principio di diritto (da ultimo affermato in Cass. 13466/2017) secondo cui nell'orario di lavoro rientra l'intero arco temporale trascorso dal lavoratore all'interno dell'azienda, inclusi i periodi comunque trascorsi nell'espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni, tenuto conto che l'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. 66/2003 attribuisce rilievo non solo al tempo della effettiva prestazione lavorativa, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro. Di conseguenza, l'obbligo retributivo viene meno solo qualora il datore di lavoro dimostri che il dipendente, in un determinato periodo, sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al potere gerarchico.
Ciò posto, la Corte di Cassazione ha affermato che nel caso in cui all'interno dell'orario di lavoro sia prevista una pausa nello svolgimento dell'attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge o di contratto che ricomprenda tale pausa nell'orario di lavoro (come, ad esempio, per le pause dei lavoratori addetti ai videoterminali che, per legge, devono essere considerate a tutti gli effetti parte integrante dell'orario di lavoro), è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, è eterodiretto e non è lasciato alla disponibilità autonoma del dipendente stesso.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Cass. Sez. Lav. 30 agosto 2018, n. 21438
Pres. Di Cerbo; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. T. s.r.l.; Controric..C.F.;
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Mansioni fungibili - Criteri di scelta - Correttezza e buona fede - Art. 5 L. 223/91: standard idoneo - Criteri diversi - Ammissibilità se non arbitrari
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ravvisato nella soppressione di un posto di lavoro, in presenza di più posizioni fungibili perché occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, ove non sia utilizzabile il criterio dell'impossibilità di repechage, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede e, in questo contesto, l'art. 5 della I. n. 223 del 1991 offre uno standard idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone, ma non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati
NOTA
La Corte d'Appello di Firenze, in riforma della sentenza di rigetto del Tribunale di Siena, ha - per quanto qui rileva - dichiarato l'illegittimità del licenziamento per GMO intimato al lavoratore di un'azienda con meno di 15 dipendenti, evidenziando che la società datrice, che ne era onerata, non aveva dimostrato le ragioni per le quali la scelta del dipendente da licenziare era caduta sul ricorrente piuttosto che su altri che svolgevano le medesime mansioni e che avevano una minore anzianità di servizio, condannando per l'effetto la società al pagamento di un'indennità quantificata in sei mensilità
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione articolato su tre motivi, di cui i primi due sono stati dichiarati inammissibili ed il terzo rigettato.
Con il principio di cui alla massima la Suprema Corte ribadisce recenti affermazioni (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25192; Cass. 8 luglio 2016, n. 14021) valevoli tanto per aziende con organico contenuto, quale quella in esame, quanto per quelle di grandi dimensioni. Precisa la Corte che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. (Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 22 marzo 2016, n. 5592), e che, ex art. 3 L. 606/66, è in particolare richiesta: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati – diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse. Quanto a tale ultimo aspetto, come chiarito nella massima, quando il GMO si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repechage in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili, tuttavia la scelta del dipendente da licenziare non è libera, ma limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza, ex artt. 1175 e 1375 cod. civ (Cass. 28 marzo 2011, n. 7046; Cass. 21 dicembre 2001, n. 16144). In questa situazione, la giurisprudenza ha ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che la L. 223/91 all'art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi. Conseguentemente si è ritenuto che possano essere presi in considerazione, in via analogica, i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità atteso che non assumono rilievo le esigenze tecnico-produttive e organizzative, data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti, (Cass. 11 giugno 2004, n. 11124).
A giudizio della Cassazione la Corte territoriale si è adeguata a tali principi laddove, dopo aver accertato che il settore al quale era addetto il ricorrente era stato soppresso, ma che era residuata comunque in altri settori la necessità dello svolgimento di mansioni di falegnameria, che vi erano altri dipendenti che svolgevano dette mansioni e che la società datrice - che ne era onerata - non aveva offerto la prova delle ragioni per le quali era proprio la posizione lavorativa del ricorrente e non le altre fungibili a dover essere soppressa, ha dichiarato l'illegittimità del recesso.
Procedimento disciplinare
Cass. Sez. Lav. 3 settembre 2018, n. 21569
Pres. Di Cerbo; Rel. Marotta; P.M. Fresa; Ric. B.S.; Controric. R.R. S.p.A.
Lavoro subordinato – Procedimento disciplinare – CCNL – Mancato rispetto del termine per comminare la sanzione – Conseguenze – Decadenza – Sanzione – Licenziamento – Insussistenza del fatto contestato – Reintegrazione – Risarcimento del danno
L'inosservanza del termine entro cui il datore di lavoro deve comminare il provvedimento disciplinare comporta la decadenza dal potere di irrogare la sanzione con la conseguenza che in caso di licenziamento trova applicazione la reintegrazione del dipendente stante l'insussistenza del fatto contestato.
NOTA
Un lavoratore impugnava con rito Fornero il licenziamento intimatogli dalla società per mancato rispetto del termine previsto dal CCNL applicato per l'irrogazione della sanzione disciplinare. Il Tribunale, accoglieva il ricorso, annullava il licenziamento intimato per insussistenza del fatto contestato e ordinava la reintegra del lavoratore.
La decisione veniva riformata in sede di opposizione ed, infatti, il Tribunale di Teramo, in parziale accoglimento dell'originario ricorso del lavoratore, dichiarava l'inefficacia del licenziamento, perché irrogato oltre il termine di 10 giorni contrattualmente previsto, ma accertava l'esistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto applicando esclusivamente il regime sanzionatorio previsto in ipotesi violazione della procedura prevista dall'articolo 7, L.300/1970.
La Corte d'appello adita dal lavoratore respingeva il reclamo proposto confermando la sentenza del Tribunale.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore contestando alla Corte di non aver considerato che nel caso di specie il termine per comminare la sanzione disciplinare non era stato rispettato e pertanto le giustificazioni dovevano intendersi accolte con conseguente inesistenza del fatto contestato.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Per la Cassazione i rilievi ruotano intorno alla ritenuta violazione del termine previsto dal CCNL per l'irrogazione del provvedimento disciplinare. Tale norma prevede espressamente che qualora il provvedimento disciplinare non venga adottato entro i 10 giorni lavorativi successivi alla scadenza del termine concesso al lavoratore per fornire le proprie giustificazioni (cinque giorni dal ricevimento della contestazione), tali giustificazioni si riterranno accolte.
Considerato quanto sopra non appaiono ipotizzabili conseguenze diverse da quelle dell'obbligo di procedere all'indicata specifica attività (adozione del provvedimento più grave del rimprovero verbale) entro il termine stabilito e dell'intervenuta accettazione delle giustificazioni nel caso di inottemperanza al suddetto obbligo.
E' ben possibile, infatti, che la disciplina collettiva arricchisca le garanzie di difesa dell'incolpato sia con la previsione di un termine finale sia con l'attribuzione di un determinato significato al comportamento del datore di lavoro nei confronti del lavoratore avvalsosi della facoltà e dei mezzi di difesa apprestatigli dall'ordinamento.
Con riferimento al caso in esame, conclude la Suprema Corte, il licenziamento doveva considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale e dunque per motivi solo formali bensì illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa. L'addebito mosso a carico del lavoratore era, infatti, venuto a cadere per l'intervenuta implicita ammissione da parte del datore di lavoro dell'insussistenza della condotta illecita che rendeva il fatto contestato non più configurabile come mancanza sanzionabile.
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 4 settembre 2018, n. 21621
Pres. Bronzini; Rel. Negri Della Torre; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. D.C.A.; Controric. R.F.I. S.P.A.
Licenziamento per giusta causa - Falsa attestazione della presenza - Mancato rispetto dell'orario di lavoro - Accertamento - Agenzia investigativa - Illegittimità
Il controllo ad opera delle guardie particolari giurate o di un'agenzia investigativa non può riguardare in nessun caso né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione.
NOTA
La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva rigettato la domanda del dipendente – addetto al sistema di rilevazione delle presenze in servizio -, volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli per avere fatto fittiziamente figurare la propria presenza sul posto di lavoro in diverse giornate dei mesi di novembre e dicembre 2011, secondo quanto era emerso in sede di controlli effettuati dalla datrice di lavoro a mezzo di un'agenzia investigativa.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su cinque motivi.
Innanzitutto il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. e degli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970, sostenendo che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto legittimo il ricorso da parte del datore di lavoro ad un'agenzia investigativa, nonostante l'accertamento avesse riguardato nella specie il mancato rispetto dell'orario di lavoro e/o lo scostamento dallo stesso - e cioè un inadempimento contrattuale e non invece un illecito aquiliano -, traducendosi pertanto in una vera e propria vigilanza sull'attività lavorativa del ricorrente.
La Suprema Corte accoglieva tale motivo di ricorso e cassava la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di appello, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio.
Con riferimento alla portata degli artt. 2 e 3 l. n. 300/1970, la Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che tali norme - le quali delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore ed in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi, e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3) -, non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi dalle guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né impediscono di controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e, quindi, di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica.
Tuttavia il controllo svolto dalle guardie particolari giurate, o da un'agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera – atteso che l'inadempimento, al pari dell'adempimento, è anch'esso riconducibile all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza -, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione (cfr., fra le molte conformi, Cass. 7 giugno 2003, n. 9167).
In particolare, i giudici di legittimità hanno sottolineato come le agenzie di investigazione, per operare lecitamente, non debbano sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 l. n. 300/1970 direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Con la conseguenza che l'intervento delle agenzie investigative resta giustificato solo nel caso in cui siano stati perpetrati degli illeciti e sussista l'esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che detti illeciti siano in corso di esecuzione (ancora di recente cfr. Cass. 11 giugno 2018, n. 15094).
Per tali ragioni la Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello nella parte in cui i giudici di secondo grado avevano ritenuto legittimo il ricorso da parte della società datrice di lavoro ad un'agenzia investigativa al fine di verificare il sistematico allontanamento del dipendente dal luogo di lavoro, in assenza di qualsiasi comunicazione, atteso che nell'ipotesi considerata il controllo affidato all'agenzia investigativa aveva ad oggetto l'esatto adempimento delle prestazioni lavorative.
Il Collegato lavoro in attesa dell’approvazione in Senato
di Andrea Musti, Jacopomaria Nannini