Rassegna della Cassazione
Incompletezza della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo
Attività giornalistica e subordinazione
Attività lavorativa durante il congedo per motivi familiari: licenziamento legittimo
Licenziamento, la valutazione della giusta causa è rimessa al giudice di merito
Trasferimento d'azienda: non rileva la capacità economica e potenzialità imprenditoriale dell'impresa cessionaria
Incompletezza della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo
Cass. Sez. Lav. 19 marzo 2018, n. 6792
Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Ceroni; Ric. B. S.p.A.; Controric. F.B.;
Licenziamento collettivo - Comunicazione di avvio della procedura - obbligo di comunicazione esaustiva di tutte le ragioni sottese alla riduzione del personale - Omissione di una delle motivazioni - Illegittimità licenziamento - Accordo sindacale - Irrilevanza
La comunicazione di avvio della procedura exart. 4, l. n. 223/1991 rappresenta un adempimento essenziale per la proficuapartecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenzadel processo decisionale del datore di lavoro. È per questa ragione che il lavoratore è legittimato a far valere l’incompletezza della comunicazione quale vizio dellicenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, purrilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull'adeguatezza della comunicazione, nonsana ex se il deficit informativo. La concorrenza di diverse motivazioni per la riduzione del personale comporta l'obbligo dellasocietà, in un contesto normativo di trasparenza, di procedere ad una comunicazioneesaustiva di tutte le ragioni che avevano determinato tale scelta.
Nota
Il Tribunale di Milano dichiarava illegittimo il recesso intimato al ricorrente, al termine di una procedura di licenziamento collettivo avviata nel 2007, per incompletezza della comunicazione di apertura, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e al connesso risarcimento del danno.
La Corte d’Appello milanese respingeva l’impugnazione della societàconfermando l’illegittimità del licenziamento, poiché i reali motivi della riduzione di personale erano da ricollegarsi ad un progetto di fusione, motivazione che, tuttavia, non era stata inserita nella comunicazione di avvio della procedura. Tale incompletezza, ad avviso della Corte territoriale, aveva irrimediabilmente compromesso i poteri di controllo deisindacati, al punto che doveva considerarsiirrilevante al fine di sanare l'illegittimità della procedura, la successiva stipulazionedell’accordo sindacale.
Avverso tale decisione il datore di lavoro ricorreva in Cassazione; illavoratoreresisteva con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso, l’azienda lamentava violazione e falsa applicazione, tra gli altri, degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché dell’art. 4 l. n. 223/1991 per avere la Corte territoriale ritenuto che il reale motivo della riduzione di personale fosse da ricercarsi nell’imminente fusione. Con il secondo motivo, la Società impugnavaper violazionedell’art. 4, commi 2, 3 e 5 l. n. 223/1991 il capo di sentenza relativo alla ritenuta irrilevanza dell’accordo sindacale al fine di sanare l’asserita incompletezza della comunicazione di avvio della procedura.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, considerando infondato l’assunto della società secondo cui l'esistenza e l’effettività deimotivi esplicitati nella comunicazione di avvionon sarebbe inficiata dalla contestuale esistenza di ulteriori ragioniconfermative della bontà della scelta di ridurre il personale, in quanto i motivi interni, nonmenzionati nella letteraex art. 4,1. n. 223/1991, sarebbero irrilevanti, rilevando solo quanto alla veridicità delle ragioni esternate nella lettera di apertura ed oggetto del confronto sindacale.
Sul punto, la Suprema Corte ha ribadito il principio di diritto (già statuito da Cass. 10242/2016 nonché Cass. 20614/2013) secondo cui la comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo, rappresenta un adempimento essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro, con la conseguenza che il lavoratore è legittimato a far valere l’incompletezza di tale comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull'adeguatezza della comunicazione stessa, non sana ex se il deficit informativo.
La Corte, infine, ha chiarito che, in un contesto normativo di trasparenza, la concorrenza di diverse motivi sottese alla scelta di riduzione del personale comporta l'obbligo del datore di lavoro di procedere ad una comunicazione esaustiva di tutte le ragioni che hanno determinato tale scelta.
Attività giornalistica e subordinazione
Cass. Sez. Lav. 13 marzo 2018, n. 6042
Pres. D’Antonio; Rel. Cavallaro; P.M. Fuzio; Ric. I.N.P.G.I.; Controric. C.D.S.S.R.L.;
Rapporto di lavoro giornalistico - Subordinazione - Continuità e responsabilità del servizio - Necessità
In tema di rapporto di lavoro giornalistico, in ragione delle particolari caratteristiche del rapporto e delle connesse difficoltà di cogliere in maniera diretta ed immediata i caratteri distintivi della subordinazione - che restano pur sempre quelli dell'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale e del suo assoggettamento ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro benché in misura attenuata -, sono aspetti qualificanti la continuità e la responsabilità del servizio, che ricorrono quando il giornalista abbia l'incarico di trattare in via continuativa un argomento o un settore di informazione e sia stabilmente a disposizione dell'editore, anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, mentre la subordinazione va esclusa nel caso in cui le prestazioni siano singolarmente convenute in base ad una successione di incarichi con retribuzione commisurata alla singola prestazione.
Nota
La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado che aveva revocato il decreto ingiuntivo col quale il Tribunale aveva ingiunto ad una testata giornalistica di pagare all’istituto previdenziale competente somme per contributi omessi in danno di vari giornalisti ritenendoli legati da un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della prima.
La Corte territoriale rilevava che, all’esito della disamina delle risultanze istruttorie, non poteva ritenersi dimostrato che i giornalisti coinvolti nell’accertamento ispettivo, disposto dall’ente previdenziale, garantissero con continuità la copertura informativa di aree di loro specifica competenza, con conseguente responsabilità di un servizio, e che gli stessi fossero pertanto stabilmente e funzionalmente inseriti nell’organizzazione aziendale. A sostegno di ciò la Corte territoriale rilevava che non era risultato provato che i giornalisti fossero tenuti a mantenere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro anche negli intervalli non lavorativi, ossia una volta terminata la redazione dell’articolo.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso l’istituto previdenziale fondato su due motivi.
In particolare, l’ente previdenziale denunciava violazione e falsa applicazione, tra gli altri, dell’art. 2094 c.c., ritenendo che la Corte di merito avesse erroneamente escluso la sussistenza nella specie della subordinazione sulla scorta di un’erronea ricostruzione della fattispecie astratta della prestazione del corrispondente.
La Suprema Corte rigetteva il ricorso.
La Suprema Corte osservava che la Corte territoriale aveva ricostruito la figura del corrispondente coerentemente con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui i caratteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato - costituiti dall'inserimento del lavoratore nell'organizzazioneaziendale e dal suo assoggettamento ai poteri direttivi e disciplinari deldatore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia -, sonoi medesimi per qualunque tipo di lavoro, incluso quello giornalistico, purpotendo essi assumere aspetti e intensità diversi in relazione allamaggiore o minore complessità delle mansioni esercitate o al contenuto,più o meno intellettuale e/o creativo, della prestazione pattuita (cfr. intal senso, tra le tante,Cass. 9 aprile 2004, n. 6983).
La Suprema Corte ha, altresì, evidenziatoche i giudici di appello avevano correttamente valorizzato l'obbligo del giornalista di tenersi stabilmente a disposizione dell'editore, per eseguirne le istruzioni, anchenegli intervalli tra una prestazione e l'altra, ritenendo - non meno correttamente - che il rapporto di subordinazione dovesse escludersi allorché le prestazioni fossero statesingolarmente convenute in base ad una successione di incarichi conretribuzione commisurata alla singola prestazione.
La Suprema Corte escludeva, pertanto, che la Corte territoriale, nel ricostruire la fattispecie astratta della figura del corrispondente, avesse attribuito efficacia decisiva alle circostanze indicate da parte ricorrente - quali la commisurazione del compenso al numero degli articoli pubblicati, la possibilità che i giornalisti proponessero autonomamente articoli da pubblicare ed il fatto che i giornalisti in questione prestassero la loro attività anche in favore di terzi - circostanze, queste ultime, che avevano piuttosto assunto valore meramente confermativo della totale mancanza di prova in merito al fatto che i giornalisti fossero tenuti a mantenere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro anche negli intervalli non lavorativi, ossia terminata la redazione dell’articolo.
Attività lavorativa durante il congedo per motivi familiari: licenziamento legittimo
Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2018, n. 6893
Pres. Bronzini; Rel. Marchese; P.M. Ceroni; Ric. D. C.; Controric. P.I. s.p.a.;
Congedo ex art. 4 L. 53/2000 - Svolgimento contestuale di altra attività lavorativa - Compatibilità - Esclusione - Abuso del diritto - Giusta causa di licenziamento - Sussistenza - Utilizzo investigatore provato - Liceità
L’utilizzo di un congedo familiare ex art. 4 L. 53/2000per lo svolgimento di altra attività lavorativa si pone in violazione della specifica previsione di legge oltre che dei fondamentali doveri di lealtà e fedeltà scaturenti dal rapporto di lavoro,configurando un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto idoneo ad integrare la sussistenza di una giusta causa di licenziamento.
Nota
La Corte di Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto dal lavoratore avverso la sentenza del Tribunale confermativa dell’ordinanza di rigetto dell’impugnativa di licenziamento. In particolare la Corte territoriale riteneva accertato in punto di fatto e proporzionatoil licenziamento per giusta causa intimato a cagione dello svolgimento, da parte del lavoratore, durante la fruizione del periodo di congedo ex art. 4 L. 53/2000 di altra attività lavorativa.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, censurandola sotto svariati profili inerenti sia aspetti probatori che la riconosciuta proporzionalità del provvedimento.
Nel rigettare (dopo averne evidenziato l’inammissibilità) tutti i motivi, la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, già ribadito in precedenti analoghi (Cass. 16 giugno 2008, n. 16207), sottolineando l’ininfluenza della sussistenza o meno di un danno patrimoniale, rilevando, invece, la condotta contraria alla buona fede nei confronti del datore di lavoro, che si vedeprivato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente esopporta una lesione dell'affidamento da lui riposto nel medesimo (Cass. 16 giugno 2008, n. 16207). Correttamente, secondo la Corte, i giudici del gravame hanno considerato: a) la gravita` oggettiva della condotta per avere il lavoratore utilizzato il congedo riconosciuto per “gravi e documentati motivi familiari” per scopi ad esso estranei e, per di più, espressamente vietati dalla medesima norma, che impedisce al dipendente, durante tale periodo, lo svolgimento di qualsivoglia tipo di attività lavorativa; b) l'elemento soggettivo della frode; c) il pregiudizio dicarattere organizzativoarrecato alla parte datoriale.
Sempre aderendo a principi consolidati, la Cassazione ribadisce la legittimità dell’utilizzo delle agenzie investigative in funzione di verifica di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al meroinadempimento dell'obbligazione (Cass. 7 giugno 2003, n. 9167), effettuabili anche in presenza del solo sospetto che vi siano comportamenti illecitiin corso di esecuzione (Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590). Interessante la precisazione compiuta in sentenza circa l’omogeneità della fattispecie in esame con quella dell’illecito utilizzo dei permessi ex art. 33 L.104/92, su cui si rinvengono copiosi precedenti giurisprudenziali che hanno riconosciuto la liceità del controllo(Cass. 8 gennaio 2014 n. 4984), essendo entrambe le situazioni accomunate dall'essere l'intervento delle agenzieesercitato in fase di sospensione dell'obbligazione principale di esecuzione della prestazione.
Il ricorso viene, pertanto rigettato.
Licenziamento, la valutazione della giusta causa è rimessa al giudice di merito
Cass. Sez. Lav. 19 marzo 2018, n. 6789
Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M.Ceroni; Ric. M.G.; Controric. S. S.p.A.;
Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Previsione dei contratti collettivi - Tassatività - Esclusione - Valutazione del giudice di merito - Criteri di accertamento - Fattispecie
L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Nota
La corte d'appello di Perugia ha confermato la sentenza del Tribunale di Spoleto che aveva respinto il ricorso del lavoratore diretto a far accertare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa.
Nel caso in esame la società aveva contestato al lavoratore di essersi rifiutato di prestare attività lavorativa su un macchinario senza giustificato motivo all'inizio di un turno e di non essersi poi recato dal direttore di stabilimento, benché convocato, per rendere spiegazioni.
La corte territoriale, confermava la pronuncia del Tribunale anche considerato che dalle prove testimoniali era emerso che il lavoratore si fosse rifiutato adducendo che tale macchina non era adatta a lui, circostanza non vera trattandosi di macchina in cui si lavoravano pezzi di peso non superiore ai 2 kg, a fronte del limite di 5 kg a lui consentito.
Avverso la sentenza della corte ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione la giusta causa di licenziamento è una nozione legale, così che non essendo il giudice vincolato dalle previsioni del contratto collettivo, può ritenere configurabile una giusta causa anche in presenza di un grave inadempimento o comportamento del lavoratore contrario a norme di comune etica o del vivere civile che, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Allo stesso modo il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore possa costituire di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Cassazione la Corte di merito ha svolto un accertamento corretto, motivando non solo sull’idoneità del fatto a far venire meno il legame di fiducia ma anche sulla proporzionalità della sanzione, in ragione del danno che il rifiuto di lavorare sulla pressa aveva provocato alla produzione aziendale e del disservizio organizzativo creato dalla necessità di mettere in opera un'altra pressa.
Trasferimento d’azienda: non rileva la capacità economica e potenzialità imprenditoriale dell’impresa cessionaria
Cass. Sez. Lav. 14 marzo 2018, n. 6184
Pres. Napoletano; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric. R.C.; Controric. P.I. S.r.l.;
Lavoro subordinato - Cessione di ramo di azienda - Condizioni del cessionario idonee a rendere probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro - Rilevanza - Esclusione - Fattispecie
La validità della cessione d’azienda non è in alcun modo condizionata da una prognosi favorevole in merito alla continuazione dell’attività produttiva, non essendo onere del cedere verificare la capacità economica e le potenzialità imprenditoriali del cessionario.
Nota
Il caso di specie riguarda il trasferimento di un lavoratore, ai sensi dell’art. 2112 c.c., alle dipendenze di un’impresa cessionaria successivamente fallita.
Il lavoratore adiva il tribunale di Messina al fine di far accertare la nullità o inefficacia della cessione del ramo d’azienda per frode alla legge, chiedendo, conseguentemente, la reintegra nel posto di lavoro alle dipendenze dell’impresa cedente.
La domanda del lavoratore veniva rigettata sia in primo che in secondo grado. In particolare, la Corte d’Appello di Messina riteneva legittima la cessione del ramo d’azienda de quo, avente ad oggetto un’entità economica organizzata e di gran lunga preesistente rispetto al momento traslativo, rilevando altresì che la cessione non poteva in alcun modo essere condizionata da una prognosi favorevole in merito alla continuazione dell’attività produttiva, non essendo onere del cedere verificare la capacità e le potenzialità imprenditoriali del cessionario.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che la frode alla legge riguarda ipotesi di violazione di norme imperative e che non esiste alcun precetto che imponga un divieto di cessione dell’azienda nel caso in cui sia prospettata lamancanza di solidità economica dell’azienda cessionaria; pertanto, non può ritenersi in frode alla legge, né concluso per motivo illecito, il contratto dicessione dell'azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro (cfr. da ultimo Cass. n. 6969/2013).
Inoltre, prosegue la Corte, l’evento della cessione d’azienda è certamente in grado di incidere sui diritti dei lavoratori, e per tale motivo il legislatore con l'art. 2112 c.c. e la legge n. 428/1990 art. 47, ha predisposto una serie di cautele che vanno dalla previsione della responsabilità solidale del cedente con il cessionario, in relazione ai crediti maturati dai dipendenti, all'intervento delle organizzazioni sindacali. Tuttavia, la validità della cessione, nel rispetto dell’art. 41 Cost., non può essere condizionata da una prognosi di continuazione dell'attività produttiva, non essendovi un onere del cedere verificare la capacità economica e le potenzialità imprenditoriali del cessionario (cfr. Cass. n. 21915/2015).
Ciò premesso, la Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata fosse coerente con i principi sopra richiamati, nonché sorretta da motivazione priva di vizi; pertanto, come anticipato, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il Collegato lavoro in attesa dell’approvazione in Senato
di Andrea Musti, Jacopomaria Nannini