Condannato alle spese il lavoratore che perde la causa
Nelle controversie di lavoro, se perde la causa, anche il lavoratore va condannato alla rifusione delle spese di lite in favore della controparte datoriale. Cosi ha stabilito la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 16851 dello scorso 5 luglio.
Come noto, la legge processuale prevede, quale regola generale, che chi risulta soccombente nel giudizio debba essere condannato a risarcire le spese di lite in favore della parte vittoriosa. Una speciale disposizione, tuttavia, consente al giudice di compensare le spese (ossia, di stabilire che ciascuno paga solo le proprie e il proprio avvocato) allorché ricorrano delle circostanze che, nel corso del tempo, la legge ha variamente identificato. Nell'ambito delle controversie in materia di lavoro questo tema è sempre stato oggetto di una sensibile attenzione poiché il rischio di dover pagare, oltre al proprio, anche l'avvocato dell'azienda, può risultare molto oneroso per il lavoratore in relazione alla sua normale capacità di spesa.
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, una lavoratrice era ricorsa, dapprima al Tribunale di Lanciano e, poi, alla Corte d'Appello dell'Aquila, per contestare il licenziamento comunicatole dalla propria ex datrice di lavoro, perdendo tuttavia la causa in entrambi i gradi di giudizio. Come già il primo giudice, anche la Corte d'Appello, tuttavia, dichiarava compensate le spese di lite in considerazione «delle posizioni delle parti e, quindi, quella più debole della lavoratrice licenziata e la sua evidente buona fede».
In sostanza, entrambi i giudici di merito avevano ravvisato in tali circostanze dei «giusti motivi» per compensare le spese di giudizio nonostante la piena soccombenza di una delle due parti, secondo l'uso invalso nelle sezioni del lavoro vigente il testo originario dell'art. 92, comma 2, Cod. proc. civ. In passato, infatti, era previsto che il giudice potesse compensare, parzialmente o per intero, le spese del giudizio ove ricorressero «altri giusti motivi». Dal 2009, tuttavia, il testo della norma è stato modificato limitando la facoltà di compensazione delle spese all'ipotesi che ricorrano «altre gravi ed eccezionali ragioni». Non più «giusti motivi», dunque, ma «gravi ed eccezionali ragioni».
La Cassazione ha successivamente spiegato che, nel vigore della nuova disposizione, non era più consentito operare la compensazione a fronte di ragioni di natura genericamente equitativa (com'era invece in passato) ma che tale facoltà del giudice risultava ora condizionata al verificarsi di specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa, quali, ad esempio: la novità delle questioni dibattute; l'assenza di un orientamento interpretativo consolidato; il cambio di orientamento cagionato, dopo l'avvio della lite, da mutamenti della legge o da decisioni della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia europea.
Pertanto, dopo la riforma del 2009 le «gravi ed eccezionali ragioni» non possono più essere integrate né dalla posizione di debolezza della lavoratrice (che rappresenta condizione ordinaria in tali rapporti) né, tanto meno dalla sua buona fede che, lungi dal costituire una peculiarità, è richiesta a chiunque avvii una lite giudiziaria, pena la responsabilità aggravata, sanzionata dall'art. 96 Cod. proc. civ.
Tali principî, che sono stati più volte espressi dalla Suprema Corte e sono stati ribaditi anche nella sentenza in commento, rappresentano ormai un approdo consolidato e, va detto, conforme al dettato normativo. Tuttavia, come testimonia la stessa copiosa giurisprudenza della Corte, i giudici di merito tuttora spesso indulgono a decisioni che sono ispirate da esigenze di giustizia sostanziale (talora comprensibili, talaltra del tutto soggettive) che, tuttavia, appaiono difficilmente conciliabili con la legge vigente.
Peraltro il nostro legislatore, che anche su questa materia non conosce riposo, nel 2014 è nuovamente intervenuto sull'art. 92, comma 2, Cod. proc. civ. introducendo il testo oggi vigente:
«Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero».
Appare evidente come il legislatore intenda restringere, ancor più di quanto avesse fatto nel 2009, i margini della compensazione delle spese, laddove vi siano un chiaro vincitore e un chiaro soccombente.
La Suprema Corte, presumibilmente, adeguerà la propria giurisprudenza nel solco già tracciato. Il tempo ci dirà se anche i giudici di merito adegueranno la loro.
Il Collegato lavoro in attesa dell’approvazione in Senato
di Andrea Musti, Jacopomaria Nannini