Contenzioso

Licenziamento disciplinare e principio d'immutabilità

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Licenziamento disciplinare e principio d'immutabilità
Sulla tempestività e proporzionalità del licenziamento per giusta causa
Demansionamento e onere probatorio
Demansionamento e risarcimento del danno non patrimoniale

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 5 luglio 2018, n. 17668

Pres. Napoletano; Rel. Leo; P.M. Matera; Ric. P.I. s.p.a.; Controric. F.C.;
Infortunio sul lavoro - Responsabilità dell'imprenditore - art. 2087 c.c. Contenuto -

La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratori.

NOTA
Con ricorso al Tribunale di Bologna una lavoratrice ha chiesto di accertarsi la responsabilità del datore di lavoro per una serie di infortuni occorsi durante lo svolgimento della prestazione con conseguente condanna al risarcimento dei danni biologico e morale asseritamente subiti. Il Tribunale ha parzialmente accolto le domande, condannando la società al risarcimento di circa 18.000,00 euro, di cui una parte a titolo di danno morale. La società ha proposto appello, parzialmente accolto dai giudici territoriali che hanno rigettato la domanda di risarcimento del danno morale confermando per il resto la decisione.
Avverso tale pronunzia l'azienda ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi e la lavoratrice ha resistito con controricorso.
La Suprema Corte rigetta il ricorso affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti, anche risalenti, citati in motivazione (Cass. 8 ottobre 2012, n.17092; Cass. 5 agosto 2013, n. 18626; Cass. 6 novembre 2015, n. 22710; Cass. 19 aprile 2003, n. 6377; Cass. 5 novembre 2003, n.16645). La Corte precisa, altresì, che, in ipotesi di attività lavorativa pericolosa per la salute - come nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame - la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (cfr. Cass. 11 luglio 2011, n. 15156). Secondo la Cassazione l'art. 2087 c.c. prevede un obbligo che non si esaurisce “nell'adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma attiene anche e soprattutto alla predisposizione “di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell'ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio”.
Sulla base di tali principi la Suprema Corte ha ritenuto corretta la sentenza di merito laddove la Corte territoriale ha affermato sussistere la responsabilità del datore di lavoro non avendo questi fornito la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui correttamente la Corte di merito ha ravvisato la violazione, ritenendo la sussistenza del nesso causale tra gli infortuni occorsi alla lavoratrice e l'attività svolta dalla medesima.
Il ricorso viene, pertanto, rigettato.

Licenziamento disciplinare e principio d'immutabilità

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2018, n. 17992

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Mastrobernardino; Ric. G.R.; Controric. N.S. S.p.a.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale per motivi disciplinari - Contestazione preventiva degli addebiti - Specificità - Immutabilità - Funzione di garanzia - Conseguenze - Modifiche di circostanze irrilevanti - Configurabilità - Condizioni

I principi di specifica contestazione preventiva degli addebiti e di necessaria corrispondenza fra quelli contestati e quelli addotti a sostegno del licenziamento disciplinare (o di ogni altra sanzione), posti dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori in funzione di garanzia del lavoratore, non escludono in linea di principio modificazioni dei fatti contestati concernenti circostanze non significative rispetto alla fattispecie, il che ricorre quando le modificazioni non configurano elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare, non risultando in tal modo preclusa la difesa del lavoratore.

NOTA
La Corte d'appello di Napoli rigettava il reclamo proposto dal lavoratore avverso la sentenza di primo grado che aveva confermato la legittimità del licenziamento.
Per la Corte territoriale la procedura disciplinare era stata rispettata e doveva ritenersi escluso il mutamento del fatto contestato (mancato pagamento di bollettini postali risultati pagati, comportante l'emissione da Equitalia di una cartella di pagamento in danno della società) rispetto a quello posto a base del licenziamento (contenente anche l'elemento della contraffazione dei bollettini), in quanto mera modalità attuativa dell'identico fatto contestato.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore contestando la violazione dell'art. 7, L.300/1970, ovvero, la lesione del diritto di difesa in conseguenza della modificazione del fatto contestato posto alla base del licenziamento.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione, il principio di necessaria corrispondenza tra l'addebito contestato e quello posto a fondamento della sanzione disciplinare non esclude in linea di principio modificazioni dei fatti contestati che riguardino circostanze non significative rispetto alla fattispecie, ossia non configuranti elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare, non risultando in tal modo preclusa la difesa del lavoratore; il principio di necessaria corrispondenza non esclude neppure circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente contro dedurre. Sicché, l'operatività del principio d'immutabilità della contestazione dell'addebito al lavoratore licenziato preclude le modificazioni dei fatti contestati che si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata, ma non quelle che, riguardando circostanze prive di valore identificativo, non ostino alla difesa del lavoratore.
Nel caso di specie, conclude la Cassazione, deve escludersi che vi sia stata mutazione del fatto contestato, dal momento che i fatti riportati nella lettera di licenziamento non possono essere considerati elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare.

Sulla tempestività e proporzionalità del licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 luglio 2018, n. 18172

Pres. Bronzini; Rel. Lorito; P.M. Visonà; Ric. T.A.; Controric. C.R.A.B.C.C.F s.c.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Tempestività del licenziamento - Caratteristiche - Fattispecie.

Il criterio dell'immediatezza della contestazione disciplinare va inteso in senso relativo, poiché si deve tenere conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per l'espletamento delle indagini dirette all'accertamento dei fatti e la complessità dell'organizzazione aziendale.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Gravità dell'addebito - Proporzionalità - Caratteristiche - Fattispecie.

La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario. Nel valutare la sussistenza della giusta causa il giudice deve valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione sia alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, che alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale dell'agente.

NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa di un dipendente di un istituto bancario, intimato a causa della sistematica inosservanza, da parte del suddetto lavoratore, delle disposizioni in materia di anti-riciclaggio, con riferimento in particolare ad una serie di operazioni realizzate da un gruppo di clienti oggetto di indagini disposte dall'autorità giudiziaria.
Il licenziamento veniva dichiarato legittimo dalla Corte d'Appello di Salerno che riteneva non solo fondati gli addebiti contestati, ma altresì tempestivo e proporzionale il licenziamento intimato dal datore di lavoro.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rigettato il ricorso, rilevando, innanzitutto, quanto alla tempestività del licenziamento, che tale concetto deve essere inteso in senso relativo, ben potendo essere compatibile con un intervallo necessario - in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro - per un adeguato accertamento e una precisa valutazione dei fatti (cfr. ex multis Cass. n.5546/2010).
Il requisito della immediatezza deve, inoltre, essere valutato con riferimento al tempo in cui i fatti vengono a conoscenza del datore di lavoro (e non a quello in cui essi sono avvenuti) e tale conoscenza deve tradursi in una ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell'inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravità e nella sua addebitabilità al lavoratore (Cass. n. 4724/2014), ammettendosi anche che il datore di lavoro possa allo scopo procedere alle preliminari necessarie verifiche (Cass. n. 5546 cit.).
Quanto invece alla proporzionalità del licenziamento intimato, la Corte di Cassazione ha ribadito preliminarmente che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale; dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
Ciò premesso, prosegue la Corte, il giudizio di proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve tenere conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l'entità del danno, il grado della colpa o l'intensità del dolo, l'esistenza o non di precedenti disciplinari a carico del dipendente (Cass. n. 8136/2017); inoltre, bisogna avere riguardo al fatto che l'intensità della fiducia richiesta è differenziata a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono (Cass. n.19742/2015), e risulta particolarmente elevata in un settore delicato come quello bancario in cui è radicato il particolare interesse datoriale al mantenimento di un'affidabile e, soprattutto, trasparente organizzazione del lavoro (Cass. n.6901/2016).
Ebbene, conclude la Corte, tutti i sopracitati principi sono stati correttamente applicati dal giudice di merito che, con motivazione immune da vizi, ha ritenuto non solo tempestivo ma anche proporzionato il licenziamento de quo; ne consegue il rigetto del ricorso promosso dal lavoratore.

Demansionamento e onere probatorio

Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2018, n. 17365

Pres. Nobile; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. C. S.R.L.; Controric. P.A.;
Dequalificazione professionale - Esatto adempimento dell'obbligo - Onere della prova - Grava sul datore - Sussiste

Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., incombe su quest'ultimo l'onere di provare l'esatto adempimento del proprio obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

NOTA
La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della decisione del giudice di prime cure, condannava la società datrice al risarcimento in favore del lavoratore del danno da demansionamento, comprensivo sia del danno patrimoniale che del danno biologico permanente.
La Corte territoriale rilevava che l'immotivato mutamento dell'orario lavorativo – con sei ore di pausa e la conseguente impossibilità per il lavoratore di recarsi alla propria abitazione, distante dal luogo di lavoro – integrava un'illegittima condotta datoriale, e che altrettanto illegittima doveva considerarsi l'adibizione del dipendente a mansioni meramente manuali, con l'esclusione dai turni dei manutentori, anche alla luce delle deposizioni rese dai testi escussi che avevano confermato l'affidamento al ricorrente di compiti semplici rispetto a quelli corrispondenti all'inquadramento di operaio specializzato, da lui posseduto.
La Corte territoriale osservava inoltre che, fermo restando il potere imprenditoriale quanto all'organizzazione del lavoro, era onere dell'imprenditore fornire una ragione delle proprie scelte, specie laddove le modifiche avessero riguardato, come nella specie, un solo dipendente facente parte di un gruppo di manutentori, ed avessero comportato, dal punto di vista dell'orario lavorativo, una prestazione più gravosa, con preclusione di ogni altra attività e, quanto ai compiti affidatigli, un declassamento rispetto ai precedenti lavori di manutenzione elettrica. Sulla base di tali premesse la Corte territoriale, ritenendo che tali comportamenti illegittimi avessero causato al dipendente una malattia, accertata da c.t.u. ed in rapporto di dipendenza casuale con il dedotto mutamento delle condizioni di lavoro, quantificava il pregiudizio in via equitativa nella misura di 500,00 euro al mese dal momento della modifica dell'orario di lavoro a quello di restituzione delle mansioni originarie e degli orari precedentemente osservati.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società affidato a cinque motivi.
In particolare, parte ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., nonché dell'art. 2103 c.c., ritenendo che la Corte territoriale avesse realizzato una indebita inversione dell'onere probatorio, laddove aveva ritenuto che incombesse sull'imprenditore l'onere di fornire una ragione della propria scelta di modificare l'orario lavorativo, per potersi sottrarre all'obbligo di risarcimento del danno, con ciò richiedendosi una prova, di segno negativo, dell'insussistenza di una condotta illegittima a carico del datore. Sotto altro profilo, il ricorrente riteneva che erroneamente i giudici di appello avessero ritenuto sussistente l'avvenuto demansionamento del lavoratore pure in assenza di ogni riscontro probatorio.
Con riferimento alla condanna al risarcimento del danno, parte ricorrente impugnava la sentenza di appello nella parte in cui i giudici di secondo grado ritenevano esistente un asserito pregiudizio, in assenza di idonee allegazioni circa la natura e le caratteristiche di tale danno e di ogni prova circa il dedotto demansionamento.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
Riguardo alla denunciata inversione dell'onere probatorio con riferimento al demansionamento del lavoratore, la Suprema Corte, ribadendo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, ha affermato che quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., incombe su quest'ultimo l'onere di provare l'esatto adempimento del proprio obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (cfr., tra le altre Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169; nonchè Cass. 3 marzo 2016, n. 4211 e Cass. 6 marzo 2006, n. 4766).
La Suprema Corte ha dunque ritenuto che la Corte territoriale si fosse correttamente attenuta all'illustrato principio di diritto, avendo accertato, anche mediante il richiamo alle deposizioni dei testi, la mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro dell'assegnazione di compiti coerenti con il bagaglio tecnico di cui era dotato il lavoratore, destinato a generiche incombenze ritenute prive di attinenza con le precedenti mansioni svolte nel campo della manutenzione elettrica.
Con riferimento al danno ed alla sua quantificazione, i giudici di legittimità hanno inoltre osservato che, in tema di demansionamento, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr. ex plurimis, Cass. 10 gennaio 2018, n. 330; Cass. 18 agosto 2016, n. 17163; Cass. 1 marzo 2016, n. 4031; Cass. 4 febbraio 2015, n. 2016; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327; Cass. 19 marzo 2013, n. 6797; Cass. 23 marzo 2012, n. 4712).
La Suprema Corte ha dunque rilevato che i principi suesposti avevano trovato corretta applicazione nell'esame compiuto dal giudice del merito, che ha evidenziato la sostanziale diversità dei nuovi compiti affidati al lavoratore ritenuti inidonei a consentire il mantenimento del bagaglio di competenze tecniche acquisito.
La Suprema Corte ha altresì evidenziato che nella sentenza di appello si era fatto riferimento alla patologia sofferta dal lavoratore in periodo prossimo al mutamento delle condizioni lavorative dello stesso, ed al contenuto della consulenza tecnica di ufficio che ne aveva accertato la riconducibilità causale allo svolgimento dell'attività lavorativa.

Demansionamento e risarcimento del danno non patrimoniale

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2018, n. 17978

Pres. Napoletano; Rel. Tricomi; P.M. Matera; Ric. E.I.; Controric. A.D.E.;

Lavoro Subordinato – Demansionamento – Posizione subordinata rispetto ad un funzionario di qualifica inferiore – Assegnazione di compiti quantitativamente inferiori – Sussistenza – Conseguenza – Risarcimento del danno patrimoniale – Risarcimento del danno non patrimoniale – Carenza di prova – Rigetto.

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.

NOTA
Una dipendente, con qualifica di funzionario, di un'amministrazione pubblica lamentava di essere stata demansionata dal giugno 2000, a seguito dell'assegnazione all'ufficio legale in posizione subordinata rispetto ad altro funzionario di qualifica inferiore, con compiti quantitativamente ridotti rispetto ai precedenti. A sostegno della propria domanda di condanna al risarcimento del danno patrimoniale, da perdita di chance, biologico, esistenziale e morale, la lavoratrice deduceva altresì che, successivamente all'inserimento nel nuovo ufficio, l'Amministrazione non le aveva messo a disposizione, per quasi due anni, un computer e che l'aveva collocata in una stanza di anguste dimensioni, condivisa con altro collega.
La Corte di Appello di Genova, in riforma della sentenza di rigetto di primo grado, accoglieva l'impugnazione promossa dalla dipendente, accertando il demansionamento. Risultando provata la menomazione della capacità professionale della lavoratrice, considerava certo l'an del diritto al risarcimento del danno patrimoniale che liquidava in misura pari alla remunerazione, stabilita dalle parti collettive, delle maggiori responsabilità connesse al coordinamento e al controllo riservati ai funzionari. La Corte d'Appello genovese rigettava invece la domanda relativa al risarcimento del danno non patrimoniale nei vari profili dedotti (biologico, esistenziale e morale), in quanto danni che non possono considerarsi in re ipsa, ma che necessitano di specifica allegazione e prova.
Avverso tale decisione la lavoratrice ricorreva in Cassazione; la pubblica amministrazione resisteva con controricorso, promuovendo altresì ricorso incidentale.
La Corte di Cassazione ha rigettato sia il ricorso principale, sia quello incidentale, ritenendo inammissibili e comunque infondati i relativi motivi.
Con riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale, la dipendente lamentava violazione e falsa applicazione degli art. 2103 e 2087 c.c. La Suprema Corte, sul punto, ha richiamato il principio di diritto (già affermato in Cass. 29047/2017) secondo cui, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. In altri termini, tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo integrante un demansionamento vietato dall'art. 2103 c.c., cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.
La ricorrente principale non aveva fornito la prova del danno non patrimoniale, poiché dall'istruttoria svolta nel giudizio di appello non era emerso alcun deterioramento delle relazioni in ambito lavorativo, sociale o familiare, a cui ricollegare un pregiudizio obiettivamente apprezzabile e causalmente derivante dal demansionamento subito. Allo stesso modo, la consulenza medico legale aveva concluso nel senso della insussistenza di elementi probanti il nesso di causa tra le condotte inadempienti e il disturbo di tipo ansioso-depressivo allegato dalla lavoratrice. Il CTU rilevava infatti che la diagnosi di tale disturbo richiede che lo stesso sorga e si manifesti entro tre mesi dall'evento traumatico, mentre la prima certificazione di una sofferenza psicologica risaliva a quasi sette anni dopo il lamentato demansionamento.

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