Previdenza

Nei conti boom delle pensioni: 100 miliardi in più del 2012

di Gianni Trovati

Nel 2012 un’Italia che aveva appena introdotto la riforma Fornero per dare un segnale deciso di risanamento ai mercati all’attacco del nostro debito pubblico dedicò alle pensioni 249,5 miliardi di euro, il 15,9% del Pil. In base alla Nadef approvata la scorsa settimana dal governo, quest’anno la spesa sarà di 297,4 miliardi, il 15,7% del Pil. E alla fine del prossimo triennio arriverà a 349,8 miliardi, 100,3 miliardi in più di dieci anni fa. Il peso della previdenza arriverà al 17,6% del Pil, ammesso che guerra e crisi energetica non travolgano la (leggera) crescita prevista dall’ultimo documento ufficiale di finanza pubblica.

Mentre le bollette dominano le preoccupazioni dell’economia e il totoministri quelle di molta politica, le tabelle della Nadef spingono le pensioni sul podio dei problemi che il prossimo governo di centrodestra dovrà sciogliere subito dopo giuramento e fiducia. Perché senza interventi torna pienamente in vigore la legge Fornero, invisa alla nuova maggioranza anche se all’epoca votata sia da Giorgia Meloni sia da Silvio Berlusconi. Ma le alternative rischiano di far correre ancora più veloce una spesa già infiammata dagli adeguamenti all’inflazione nel breve termine, e nel medio-lungo da una stasi demografica da brividi.

Il fatto è che nemmeno prima della spinta inflattiva le uscite previdenziali sono rimaste ferme. Complici appunto la demografia e le tante deroghe alla riforma di fine 2011, culminate nella «Quota 100» del 2019-21 e poi alleggerite quest’anno con la «Quota 102», la spesa per le pensioni è cresciuta anche negli anni successivi al governo Monti, con un aumento del nominale del 19,2% che ha quindi staccato di 4,6 punti l’inflazione.

A complicare ulteriormente le scelte che andranno prese nelle prossime settimane ci sono i margini fiscali schiacciati dalla frenata della crescita, che è un problema doppio nei Paesi in cui il debito è alto e il bilancio è irrigidito dalle spese fisse.

In quest’ottica, le pensioni sono solo una delle griglie che intrecciano la prigione dei conti. La storia recente della nostra finanza pubblica scritta dal confronto fra l’ultima Nadef e i suoi precedenti ne indicano con chiarezza altre. È il caso prima di tutto dei «consumi intermedi», cioè il costo di beni e servizi che la Pa acquista per poter funzionare. Mentre erano al centro di infinite versioni della spending review e di promesse politiche di tagli multimiliardari ma indolori per i servizi, i consumi intermedi hanno in realtà continuato a crescere.

Quest’anno raggiungono i 167,1 miliardi, con un aumento decennale del 26,3% nominale e del 10,3% reale, al netto dell’inflazione. E proprio l’inflazione, che ora domina il quadro macroeconomico dopo una sostanziale assenza, solleva qualche incognita non irrilevante sulle prospettive appena tracciate dalla Nadef, che per i prossimi tre anni prevede una riduzione di 4,2 miliardi (-2,5%) nel valore assoluto di questa voce di spesa.

Molti dei segni «meno» che affiancano le previsioni della Nadef nelle tabelle sulle spese si spiegano in realtà con il fatto che il documento si limita al tendenziale «a legislazione vigente», e lascia com’è inevitabile al prossimo governo le decisioni sul programma.

Nasce da lì per esempio la curva in discesa degli stipendi dei dipendenti pubblici. Dopo un 2022 caratterizzato dal rinnovo dei contratti (mancherà solo la scuola) e quindi dalla gobba degli arretrati, i «redditi da lavoro dipendente» nella Pa scenderebbero in tre anni dell’1,2%. Ma una parabola del genere deve vedersela con una nuova tornata contrattuale (quelli appena firmati o in trattativa riguardano il 2019/21) e con l’esigenza sollevata dal Pnrr del «rafforzamento amministrativo» di una Pa impoverita da un decennio di stenti. Evidenziati, anche questi, dalla storia recente dei conti pubblici: fra 2012 e 2022 il totale dei salari pubblici è rimasto fermo in termini reali (-0,1%) e ha visto scendere il proprio peso sul Pil dal 10,6% al 9,9%. Con una nuova stasi triennale arriverebbe all’8,7%.

La «legislazione vigente» traccia una linea simile, dovuta a ragioni analoghe, per la spesa sanitaria, cresciuta però del 20,9% (+6,1% reale) rispetto al 2012. E spinge al ribasso anche le uscite per il welfare non pensionistico e per le «altre spese correnti» spesso collegate agli aiuti anticrisi.

Tutte queste dinamiche sono destinate in realtà a essere modificate dalle prossime misure, perché oltre al rinnovo dell’impegno contro il caro bollette sarà forse complicato non prevedere almeno l’avvio del finanziamento dei rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici in tempi di inflazione galoppante. Ma sono essenziali per calcolare un deficit in ribasso al 3,4% del Pil.

Sotto la lente

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