Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mancata sospensione cautelare e azione disciplinare
Licenziamento per soppressione della posizione

Licenziamento collettivo e criteri di scelta/1
Licenziamento collettivo e criteri di scelta/2
Appalto e trasferimento d'azienda

Mancata sospensione cautelare e azione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 9 dicembre 2016, n. 25272

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Matera; Ric. F.P.; Controric. I.V.R.I. S.P.A.

Licenziamento per insubordinazione - Contestazione disciplinare - Omessa adozione della misura della sospensione cautelare - Legittimità

L'omessa adozione della sospensione cautelare non può ritenersi sintomatica della volontà datoriale di rinuncia all'esercizio dell'azione disciplinare nei confronti del lavoratore, trattandosi di una misura facoltativa, di carattere provvisorio, strumentale all'accertamento dei fatti relativi alla violazione da parte del lavoratore degli obblighi inerenti al rapporto.

Nota

La Corte di Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore, avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli il 27 ottobre 2011 dalla datrice di lavoro e le conseguenti domande reintegratorie e risarcitorie.

A fondamento della decisione la Corte territoriale riteneva che il Tribunale avesse correttamente qualificato come "insubordinazione" il comportamento tenuto dal dipendente, con mansioni di guardia giurata, consistito nel rifiutarsi di eseguire l'ordine di servizio di piantonamento per uno sfratto, in giorno in cui era a disposizione del comando, peraltro tenendo un comportamento offensivo nei confronti del maresciallo, suo superiore gerarchico. La Corte territoriale riteneva, pertanto, che tale condotta fosse meritevole della sanzione espulsiva, prevista dall'art. 140 CCNL Istituti di vigilanza privata, in quanto proporzionata alla violazione, e che neppure fosse configurabile, nella specie, la dedotta eccezione di inadempimento, in assenza dei requisiti stabiliti dall'art. 1460 c.c..

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, fondato su due motivi.

In particolare, il ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione dell'art. 7 l. n. 300/1970, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la non immediatezza della contestazione disciplinare, intervenuta a distanza di quattordici giorni dalla realizzazione del fatto addebitato (verificatosi il 5 ottobre 2011), fatto quest'ultimo che, peraltro, non richiedeva particolari indagini per il suo accertamento, sulla base della dettagliata relazione effettuata dal dipendente maresciallo, ricevuta lo stesso giorno.

Il ricorrente deduceva, altresì, violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., sempre ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l'erronea esclusione della volontà datoriale di rinuncia all'azione disciplinare nei confronti del lavoratore, sintomaticamente espressa dal ritardo con cui era stato contestato l'addebito disciplinare, senza che neppure fosse stata disposta dalla datrice di lavoro la sospensione cautelare prevista dall'art. 102 del CCNL applicabile.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Con riferimento al secondo motivo, la Suprema Corte ha rilevato che il differimento della contestazione disciplinare (pari a quattordici giorni) e poi del licenziamento (pari a diciotto giorni dalla contestazione disciplinare, considerate le giustificazioni del lavoratore) non poteva affatto ritenersi contrario alla buona fede, né tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore medesimo (in tal senso, cfr. Cass. 13 febbraio 2012, n. 1995; Cass. 11 gennaio 2006, n. 241), rientrando nei limiti di una ragionevole elasticità, compatibile con un intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse dal lavoratore. Tale differimento neppure poteva suscitare il legittimo affidamento del lavoratore sulla mancata attivazione del potere disciplinare, in quanto facoltativo (cfr. Cass. 8 giugno 2009, n. 13167).

La Suprema Corte ha, infine, rilevato che doveva ritenersi irrilevante la mancata adozione della sospensione cautelare da parte del datore, trattandosi di misura di natura facoltativa e di carattere provvisorio, strumentale all'accertamento dei fatti relativi alla violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi inerenti il rapporto di lavoro (Cass. 13 dicembre 2010, n. 25136).

Licenziamento per soppressione della posizione

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2016, n. 25201

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. R.D.S. S.p.a.; Controric. T.F.P.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto di lavoro - Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Presupposti - Iniziativa economica tutelata dall'articolo 41 della Costituzione - Sindacato del giudice - Nesso causale - Riassetto organizzativo

E' oggettivamente giustificato il licenziamento del dipendente che sia stato attuato allo scopo di sopprimere una posizione lavorativa per ridurre i costi. In tal caso, essendo il recesso strettamente collegato ad elementi quali l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa, la scelta operata dal datore di lavoro, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost., non può essere sindacata. Opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dal richiamato art. 41 Cost., per il quale l'organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisce un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo, e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell'apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il "naturale" interesse ad ottimizzare l'efficienza e la competitività.

Nota

La Corte di Appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al dipendente.

Per la Corte, la decisione del primo giudice che aveva considerato legittimo il licenziamento "motivato dall'esigenza tecnica di rendere più snella la cd. catena di comando e quindi la gestione aziendale", non poteva essere accolta.

Secondo la Corte di Appello, la soppressione della posizione non poteva essere motivata solamente dalla necessità di ridurre i costi e, quindi, dal mero incremento del profitto, dovendo il datore di lavoro dimostrare di trovarsi in una situazione sfavorevole influente in modo decisivo sull'attività produttiva.

Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso in Cassazione la Società sostenendo che l'imprenditore è libero di assumere le decisioni atte a rendere più funzionale ed efficiente la propria azienda, senza che il giudice possa entrare nel merito della decisione.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso della Società e cassato la sentenza della Corte di Appello di Firenze.

Secondo la Cassazione, la sentenza impugnata si basa su quella giurisprudenza secondo la quale il presupposto fattuale della sfavorevole situazione economica in cui versa l'azienda costituisce un requisito di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e deve essere provato dal datore di lavoro.

La necessità che il licenziamento per motivo oggettivo sia giustificato dalla necessità di fare fronte "a sfavorevoli situazioni" e non sia "meramente strumentale ad un incremento del profitto" è affermazione che si trova reiterata nella successiva giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5173 del 2015; Cass. n. 13116 del 2015).

Nel caso in esame, la Corte territoriale, riscontrata la mancanza di prova della sfavorevole situazione economica ha ritenuto il recesso "motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto", considerando ingiustificato il licenziamento.

Nella motivazione della Cassazione si legge che secondo altro orientamento giurisprudenziale, invece, il giustificato motivo oggettivo può derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all'incremento dei profitti.

Si è sostenuto, infatti, che: "l'assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi dimostrando l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, a tal fine non bastando una sua autonoma scelta in tal senso, si dimostra infondato vuoi perché tale necessità non è imposta dalla lettera e dallo spirito dell'art. 3 L. n. 604/1966 (n.d.r. in relazione alle ragioni inerenti l'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa), vuoi perché l'esegesi proposta è incompatibile con l'art. 41 Cost., comma 1 che lascia all'imprenditore la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi a fini di incremento della produttività aziendale. Diversamente opinando e cioè supponendo come indispensabile, affinché si possa ravvisare un giustificato motivo oggettivo, che l'impresa versi in sfavorevoli situazioni di mercato superabili o mitigabili soltanto mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento d'un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività. Ma sarebbe - questa - una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l'impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato" (Cass. n. 13516 del 2016; Cass. n. 15082 del 2016).

Tanto premesso, con riferimento al caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che dovesse essere data continuità al secondo orientamento delineato.

Secondo la Cassazione, l'interpretazione letterale della L. n. 604 del 1966, art. 3 esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere un presupposto fattuale identificabile nella sussistenza di "situazioni sfavorevoli" ovvero di "spese notevoli di carattere straordinario", cui sia necessario fare fronte.

D'altra parte è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d'impresa.

Non è quindi necessario che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto immeritevole di considerazione l'obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l'attività dell'impresa.

Spetta all'imprenditore stabilire la dimensione occupazionale dell'azienda, al fine di perseguire un profitto. Tale scelta è sicuramente libera nel momento genetico in cui nasce l'azienda e si instaurano i rapporti di lavoro in misura ritenuta funzionale allo scopo.

Pertanto esigere la sussistenza di una situazione economica sfavorevole per rendere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo significa inserire nella fattispecie legale astratta disegnata dalla L. n. 604 del 1966, art. 3 un elemento fattuale non previsto che riguarda la scelta imprenditoriale.

Tale interpretazione è risultata essere in linea anche con l'ordinamento dell'Unione Europea. Infratti, la Carta sociale europea (ratificata con L. n. 30 del 1999), all'art. 24, si limita a stabilire l'impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello "basato sulle necessità di funzionamento dell'impresa".

Alla stregua delle esposte considerazioni la sentenza impugnata che ha ritenuto non sufficiente ai fini della legittimità del licenziamento la dimostrazione dell'effettività della riorganizzazione che pure risultava coerente con la motivata esigenza tecnica di rendere più efficiente la gestione aziendale, deve essere cassata in accoglimento del secondo orientamento giurisprudenziale per le ragioni su esposte.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta/1

Cass. Sez. Lav. 13 dicembre 2016, n. 25553

Pres. Nobile; Rel. Boghetic; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.P.; Controric. I. S.p.A.

Licenziamento collettivo - Applicazione criteri di scelta - Prevalenza delle esigenze tecnico, produttive ed organizzative - Legittimità - Onere della prova a carico del lavoratore - Prova di resistenza - Necessità

L'art. 5 L. 223/1991, in base alla quale i criteri di selezione del personale da licenziare debbono essere osservati in concorso tra loro, se impone ai datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive (essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale) sempre che, tuttavia, una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.

Grava comunque sul lavoratore l'onere di dimostrare l'illegittimità dell'applicazione dei criteri di scelta, indicando i lavoratori in relazione ai quali la scelta sarebbe stata falsamente o illegittimamente applicata.

Nota

La Corte d'Appello di l'Aquila, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di un dipendente volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo in ragione dell'asserita discrezionalità dei criteri di scelta. La Corte, per quel che interessa, riteneva legittimo il licenziamento collettivo per calo delle commesse, operato sulla base dei criteri: dei carichi di famiglia (con un incidenza del 30% sul punteggio finale), dell'anzianità di servizio (con un incidenza del 20% sul punteggio finale), delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, con un incidenza del 25% del livello di inquadramento e del restante 25% della professionalità, valutata dal responsabile di reparto di ciascun lavoratore sulla base dei cinque specifici sottocriteri: i-competenza rispetto al livello di inquadramento, ii- autonomia operativa e decisionale rispetto al livello di inquadramento, iii- capacità relazionali e di lavoro in team, iv- capacità di rispetto delle tempistiche assegnate e v- padronanza della lingua inglese.

Avverso tale sentenza il dipendente ricorreva in Cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

Il ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 5, legge 223/1991 nonché vizio di motivazione avendo la Corte territoriale omesso di valutare che la prevalenza del criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative non era stata oggetto di accordo sindacale, che i cinque sottocriteri utilizzati per valutare la professionalità di ciascun dipendente erano stati portati a conoscenza dei lavoratori solamente nel giudizio di primo grado e che, comunque, tali sottoscriteri non erano oggettivi e predeterminati con conseguente impossibilità di verificarne la corretta applicazione.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ritenendo inammissibile (per omessa indicazione, da parte del ricorrente, dei precedenti atti difensivi nei quali erano state dedotte le censure promosse in sede di legittimità) e comunque infondato il motivo di impugnazione promosso dal lavoratore.

La Corte ha avallato la motivazione della sentenza impugnata che aveva individuato il fattore obiettivo della prevalenza accordata alle esigenze tecnico-produttive nell'esistenza di una situazioni di crisi aziendale, per calo delle commesse, comunque contemperata dalla valorizzazione dei criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità pur prendendo in considerazioni, con un incidenza complessiva del 50% rispetto al punteggio finale. Il criterio delle esigenze tecnico-produttive era stato inoltre oggettivizzato attraverso il riferimento alla qualifica di ciascun dipendente (con peso del 25%) ed alle capacità professionali possedute (con un peso del 25%) secondo un giudizio ancorato a specifici sottocriteri. Ciò rendeva del tutto irrilevante il mancato raggiungimento di un accordo sindacale in sede di esame congiunto.

La motivazione della sentenza impugnata è stata quindi ritenuta esauriente ed immune da vizi logici in ragione del riferimento all'esigenza della società di diminuire il personale dell'intera azienda (pur mantenendo, in ciascun reparto, le specifiche professionalità) nonché alla comparazione dei dipendenti nell'ambito di ciascun reparto, che costituiscono eloquente dimostrazione della controllabilità ed oggettività dei criteri puntualmente indicati ed applicati dal datore di lavoro.

Infine, la Corte di Cassazione, con riguardo all'onere della prova, ha ribadito il principio di diritto (di recente affermato anche in Cass. 22543/2016) secondo il datore di lavoro ha l'onere di allegare i criteri di scelta applicati e dimostrare la loro corretta applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, mentre grava sul lavoratore l'onere di dimostrare l'illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la scelta sarebbe stata falsamente o illegittimamente applicata.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta/2

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2016, n. 25188

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.I. s.p.a..; Controric. M.G. + altri

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Individuazione nell'accordo sindacale di criteri difformi da quelli legali - Legittimità - Requisiti - Oggettività, razionalità ed assenza di discrezionalità nella selezione

In materia di licenziamenti collettivi tra imprenditore e sindacati può intercorrere, ex art. 5 della legge 23 Luglio 1991, n. 223, un accordo inteso a disciplinare l'esercizio del potere di collocare in mobilità i lavoratori in esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità; anche l'adozione di un unico criterio di scelta è legittima (ad esempio la prossimità del lavoratore a pensione) se tale criterio consente l'esauriente ed univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento e risulta, quindi, applicabile senza margini di discrezionalità da parte del datore di lavoro.

Nota

Il Tribunale di Roma ha respinto l'impugnativa di un licenziamento collettivo intimato ad gruppo di lavoratori ritenendo, tra l'altro, legittimi i criteri di scelta adottati nonché le loro modalità di applicazione. La Corte d'Appello ha riformato la decisione e annullato il recesso dichiarando illegittimo il criterio - individuato nell'accordo sindacale - dei "lavoratori non aderenti a possibili offerte di assunzione presso altre aziende del territorio romano procurate dalla società a condizioni economiche e normative non inferiori". Secondo i giudici territoriali tale criterio non è obiettivo e consente al datore di lavoro ampi margini di discrezionalità nella scelta dei licenziandi, potendo la società proporre discrezionalmente alle aziende terze l'assunzione di certi lavoratori in luogo di altri.

Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per Cassazione lamentandone l'erroneità laddove ha ritenuto sussistere discrezionalità in capo all'impresa senza considerare che il criterio poteva essere applicato solo nei confronti dei lavoratori in esubero e che esso era di carattere generale ed obiettivo nonché rispondente al principio del minor impatto sociale.

La Suprema Corte respinge le doglianze, condividendo la valutazione della Corte territoriale ed affermando il principio di cui alla massima, già enunciato in numerosi precedenti ove aveva avuto modo di analizzare fattispecie in cui si era adottato il criterio della prossimità a pensione (Cass 2 marzo 2015, n. 4177; Cass. 20 febbraio 2013, n. 4186; Cass. 22 giugno 2012, n. 10424). In tali ipotesi la Cassazione aveva riscontrato la legittimità del criterio proprio in quanto, seppur unico e difforme da quelli legali, dotato di carattere oggettivo sì da non lasciare al datore di lavoro alcun margine di discrezionalità, essendogli impossibile incidere sul medesimo con propri atti e/o azioni. Ben diversamente, secondo la Suprema Corte, nel caso in esame, ove l'evento previsto nel criterio adottato nell'accordo sindacale è sostanzialmente rimesso alla discrezionalità dell'azienda, considerato che le offerte di lavoro (che, se rifiutate, comportano l'inserimento nelle liste dei licenziandi) sono - proprio per espressa previsione dell'accordo sindacale - quelle "procurate" - e, quindi, richieste -dalla stessa datrice di lavoro. Ciò, a parere della Corte, esclude l'oggettività del criterio, potendo su di esso incidere la società e, quindi, influenzare con la propria volontà la selezione dei lavoratori da licenziare. Né, sottolinea la Cassazione, il fatto che il criterio possa riguardare solo i lavoratori in esubero incide sulla valutazione, essendo questo dato il presupposto a monte della selezione, necessario, ma non sufficiente ad escludere la discrezionalità evidenziata.

Il ricorso viene, quindi rigettato.

Appalto e trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 6 dicembre 2016, n. 24972

Pres. Di Cerbo; Rel. Manna; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. C.G. + 8; Controric. F. S.r.l.

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. - Applicabilità ai casi di successione di un imprenditore ad un altro nell'appalto di un servizio - Esclusione - Fattispecie

Il passaggio di dipendenti dal precedente appaltatore al nuovo subentrato nell'appalto medesimo (in assenza di contestuale trasferimento di beni di non trascurabile entità o, almeno, di know how e/o di altri caratteri idonei a conferire autonoma capacità operativa ad un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati e organizzati tra loro) non è automatico, né forma oggetto di diritto acquisito in capo ai lavoratori del vecchio appaltatore, non esistendo alcuna norma di legge che lo stabilisca.

Nota

Il caso di specie trae origine dalla domanda, presentata da 9 lavoratori, volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proseguire il rapporto di lavoro ex art. 2112 c.c. alle dipendenze della società subentrante nell'appalto precedentemente affidato alla società loro ex datrice di lavoro (N.B. al caso di specie si applica il D. Lgs. 276/2003 nel testo precedente all'ultima modifica apportata dalla L. 122/2016).

La domanda dei lavoratori veniva accolta in primo grado e successivamente rigettata dalla Corte d'Appello di Roma.

Ricorrono per Cassazione i lavoratori, deducendo, con vari motivi di ricorso, la violazione dell'art. 2112 c.c.

La Corte di Cassazione ha sottolineato, innanzitutto, che nel caso di specie non può ritenersi che vi sia stata una violazione dell'art. 2112 c.c., non essendovi un diritto dei ricorrenti di transitare ope legis alle dipendenze della società subentrante dell'appalto; tale diritto, infatti, non sussiste, poiché non risulta che vi sia stato un trasferimento d'azienda riconducibile alla nozione di cui all'art. 2112 c.c. tra le due società in questione.

La Corte ha quindi richiamato la giurisprudenza prevalente in tema di trasferimento d'azienda, secondo cui è ammissibile la teorica applicabilità dell'art. 2112 c.c. in ipotesi di successione di un imprenditore ad un altro nell'appalto di un servizio, ma ciò richiede pur sempre che vi sia stato un passaggio anche di beni di non trascurabile entità, tali da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa. Questi ultimi, peraltro, devono essere trasferiti non nella loro autonoma individualità, ma nella loro funzione unitaria e strumentale, in quanto destinati all'esercizio dell'impresa (cfr., ex pluribus, Cass. n. 16641/12). La nozione di trasferimento d'azienda è stata in diverse occasioni anche estesa, fino a ricomprendere la cessione avente ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how (cfr., ex pluribus, Cass. n. 5678/2013).

Ciò premesso, applicando tali principi al caso di specie, la Corte ha sottolineato che la sentenza impugnata non menziona alcun accertato trasferimento di beni di non trascurabile entità, e che pacificamente non vi è stato alcun trasferimento di un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, dotati di un particolare know how.

La Corte ha precisato altresì che non costituisce trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. la mera assunzione dei lavoratori in caso di cambio di soggetto appaltatore (in esecuzione di una cd. clausola sociale prevista dalla contrattazione collettiva o dalla legge), ostandovi proprio l'esplicito contrario disposto dell'art. 29 co. 3° del d.lgs. n. 276/03, secondo cui, nel testo ratione temporis applicabile, "l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda". Tale norma va quindi intesa nel senso che la mera assunzione dei lavoratori, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d'azienda ove non si accompagni alla cessione dell'azienda o di un suo ramo autonomo (cfr. Cass. n. 11247/2016).

In conclusione, a detta della Corte, il passaggio dei dipendenti dal precedente appaltatore al nuovo subentrato nell'appalto medesimo (in assenza di contestuale trasferimento di beni di non trascurabile entità o, almeno, di know how e/o di altri caratteri idonei a conferire autonoma capacità operativa ad un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati e organizzati tra loro) non è automatico né forma oggetto di diritto acquisito in capo ai lavoratori del vecchio appaltatore, non esistendo alcuna norma di legge che lo stabilisca.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©