Contenzioso

Licenziamento in prova, tutele ordinarie se il patto è nullo

di Lorenzo Zanotti

La Cassazione torna a pronunciarsi in tema di licenziamento in periodo di prova e, in particolare, sul regime di tutela applicabile laddove il recesso datoriale risulti illegittimo, in quanto intimato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova.
I giudici di legittimità (con sentenza n. 17358 del 3 luglio 2018) hanno infatti ribadito il proprio orientamento secondo cui, in presenza di un patto di prova nullo – per essere, nel caso di specie, già avvenuta con esito positivo la sperimentazione del rapporto tra le parti – il recesso risulta soggetto alla ordinaria disciplina limitativa dei licenziamenti, con conseguente necessità di verificare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo idoneo a legittimare l'interruzione del rapporto.

Ciò in quanto, secondo la Cassazione “la libera recedibilità nell'ambito del patto di prova (…) presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto; pertanto, ove ne difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, che essendo parziale non si estende all'intero contratto, ne determina la conversione (in senso atecnico) in uno ordinario, con applicabilità del relativo regime di tutela in ipotesi di licenziamenti individuali illegittimi”.

In altri termini, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull'erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, in realtà già venuto a scadenza, non può iscriversi nell'eccezionale recesso ad nutum di cui all'articolo 2096 del Codice civile, ma deve essere valutato alla stregua di un ordinario licenziamento, come tale soggetto alla verifica giudiziale circa la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.
La rilevanza di tale principio di diritto può peraltro essere apprezzata sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, si esclude che l'articolo 10 della legge n. 604/1966 – che sottrae il rapporto nel quale il patto di prova sia stato validamente inserito all'applicazione della disciplina limitativa del licenziamento – possa operare in presenza di una pattuizione nulla.

Dall'altro, si nega al contempo rilievo a quell'orientamento (sostenuto da una parte minoritaria della giurisprudenza di merito) secondo cui il recesso in parola sarebbe ascrivibile all'area delle nullità di diritto comune, con la conseguenza che dall'invalidità del patto di prova conseguirebbe, in modo automatico, la vanificazione degli effetti del recesso e, quindi, la ricostituzione del rapporto e il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio.
Deve quindi trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti, secondo il regime di tutele da individuarsi di volta in volta in base alla data di assunzione del lavoratore (prima o dopo l'entrata in vigore del Jobs Act) e ai requisiti dimensionali dell'azienda.

La pronuncia in commento, peraltro, non prende posizione sul tema – oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale, in particolare con riferimento ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti – della singola ipotesi di illegittimità (tra quelle contemplate, in particolare, dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dal Dlgs n. 23/2015) a cui ascrivere la fattispecie in esame.
Questione tutt'altro che banale, considerando che – limitando l'analisi ai soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 – parte della giurisprudenza ha ravvisato nel licenziamento per mancato superamento del periodo di prova (intimato in base ad un patto di prova poi rivelatosi nullo) un caso di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria; altre pronunce, al contrario, hanno sostenuto che il licenziamento in esame debba ricondursi all'ipotesi generale di recesso ingiustificato (ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 23/2015), riconoscendo al lavoratore la sola tutela risarcitoria parametrata all'anzianità di servizio.

La sentenza n. 17358/18 della Corte di cassazione

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