Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Abuso dei permessi ex legge 104
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Licenziamento orale
Nozione di straining


Abuso dei permessi ex legge 104

Cass. Sez. Lav., 25 maggio 2022, n. 16973

Pres. Doronzo; Rel. Boghetich; Ric. M.F.; Controric. U. S.p.A.

Giusta causa – Abuso dei permessi ex L. 104/1992 – Fattispecie: uso di 4 ore e mezzo di permesso per svolgere attività non inerenti l'assistenza al disabile – Licenziamento – Sproporzione – Illegittimità – Tutela indennitaria – Art. 18 comma 5 Fornero (15 mensilità) – Sussiste

La condotta del dipendente che abbia utilizzato quattro ore e mezzo di permesso (sulle complessive trentadue ore) per lo svolgimento di attività che nulla hanno a che fare (nemmeno indirettamente) con l'assistenza del parente disabile, seppur disciplinarmente rilevante, non assume quei connotati di gravità tale da incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Ne consegue che il licenziamento è illegittimo e, con riguardo all'apparato sanzionatorio – dovendosi escludere sia l'ipotesi di insussistenza del fatto sia la sussunzione in fattispecie tipizzate dal CCNL di settore – va applicato il comma 5 dell'art. 18 Fornero.

NOTA

La Corte di Appello di Perugia, riformando la sentenza del Tribunale di Spoleto, ha considerato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato da una società ad un dipendente per abuso di permessi ex L. 104/1992. Dall'istruttoria è, infatti, emerso che «il lavoratore aveva utilizzato quattro ore e mezzo (sulle complessive trentadue ore di permesso) per lo svolgimento di attività che nulla avevano a che fare (nemmeno indirettamente) con l'assistenza della madre bisognosa, dovendo ricomprendere nell'ambito dell'abuso del diritto tutte quelle condotte estranee all'assistenza e meramente compensative delle energie impiegate per la suddetta assistenza». La condotta abusiva, però, seppur disciplinarmente rilevante, non assumeva quei connotati di gravità tale da incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario. La Corte territoriale ha, dunque, dichiarato illegittimo il licenziamento e, con riguardo all'apparato sanzionatorio – escludendo l'ipotesi di insussistenza del fatto – ha applicato il comma 5 dell'art. 18, dichiarando risolto il rapporto di lavoro e condannando la società al pagamento di 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod. civ., e della L. n. 92 del 2012, art. 18, commi 4 e 5, «dovendo ritenersi ricorrere, nel caso di specie, una ipotesi di insussistenza dal fatto, sia nella sua materialità sia per la inesistente gravità (e, dunque, carenza di contrarietà al diritto)». La Società, con ricorso incidentale, ha denunciato «la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cod.civ., avendo, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto illegittimo il licenziamento a fronte dell'accertato abuso del diritto compiuto dal lavoratore (seppur ritenuto di modesta entità) senza considerare che è l'abuso in sé sul piano qualitativo, una volta ritenuto sussistente ed esplicitamente grave, ad integrare ipotesi di definitiva compromissione del rapporto fiduciario, con integrazione della fattispecie di cui all'art. 2119 cod.civ.». I giudici di legittimità hanno esaminato congiuntamente i motivi di ricorso ritenendoli infondati entrambi. Nello specifico la Corte ha ribadito il costante orientamento secondo il quale «il permesso di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, sia riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la "ratio" della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza; ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari».Nel caso di specie la Corte distrettuale ha ritenuto provato che per una certa quota i permessi non erano stati utilizzati per l'assistenza, pur intesa in senso lato, della madre disabile ed ha, conseguentemente, rilevato che il lavoratore aveva adottato un comportamento disciplinarmente rilevante, abusando dei permessi ottenuti dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992. Ciò premesso, i giudici hanno però ravvisato in concreto una sproporzione tra la condotta non tipizzata e la sanzione irrogata. Pertanto, i giudici di legittimità hanno concluso affermando che «la Corte territoriale ha correttamente applicato il regime sanzionatorio risarcitorio dettato dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, avendo, da una parte, escluso la ricorrenza di una ipotesi tipizzata di sanzione conservativa da parte del CCNL applicato e, dall'altra, accertato la sussistenza di una condotta disciplinarmente rilevante, avendo, il lavoratore, abusato del diritto alla fruizione dei permessi».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav., 26 maggio 2022, n. 17173

Pres. Doronzo; Rel. Boghetich; Ric. M.D.; Controric. I. S.r.l.

Licenziamento individuale – Giustificato motivo oggettivo – Migliore efficienza gestionale o incremento della redditività – Sufficienza – Crisi aziendale – Andamento economico negativo – Non necessità – Fattispecie: soppressione reparto confezionatori

Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa.

NOTA

La Corte d'Appello di Catanzaro, in riforma del provvedimento reso dal giudice di prime cure, riteneva legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato ad un lavoratore in ragione della flessione economica registrata e della parallela esigenza di ridurre il numero di addetti al reparto confezionatori.Secondo la Corte distrettuale, le evidenze documentali in ordine alla ricorrenza di una condizione di esubero strutturale erano in grado di supportare e legittimare il recesso irrogato alla parte lavoratrice, in un contesto di sostanziale deterioramento della condizione economico-finanziaria della società.Contro la sentenza di secondo grado ha promosso ricorso in Cassazione il lavoratore lamentando l'illegittimità del licenziamento in quanto non sarebbe stata raggiunta la prova del potenziale fallimento dell'azienda ed avendo, la scelta datoriale, il solo e unico fine di recuperare margini di redditività ulteriori (ma non quello di fronteggiare una reale crisi di tipo finanziario).Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire come: «ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa».

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Cass. Sez. Lav., 19 maggio 2022, n. 16206

Pres. Tria; Rel. Pagetta; Ric. R.F.I. S.p.A.; Controric. V.M.

Licenziamento – Giustificato motivo soggettivo – Immotivato trasferimento ad altra sede in esecuzione di sentenza di reintegra – Legittimità del rifiuto ad adempiere (art. 1460 cod. civ.) del dipendente – Configurabilità – Illegittimità del recesso – Sussiste

È illegittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo irrogato al dipendente che, a fronte del provvedimento aziendale esecutivo di un ordine di reintegrazione nella sede originaria adottato con ritardo e che disponga l'assegnazione del lavoratore ad altra sede, rimanga assente dal lavoro. Il comportamento del dipendente deve, infatti, ritenersi giustificato e proporzionato ai sensi dell'art. 1460 cod. civ. all'inadempimento datoriale sostanziatosi dapprima nella protratta inottemperanza e, poi, nella sostanziale elusione del comando giudiziale e non contrario a buona fede dovendosi tenere conto, nell'operare la relativa valutazione, delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie, ossia, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale, esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e, più in generale, sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi, questi, che devono essere considerati nell'ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco, anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 41 Cost.

NOTA

Nel caso di specie un lavoratore adiva il Tribunale di Napoli al fine di sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento irrogato per assenza ingiustificata dal lavoro, con conseguente condanna della società datrice alla reintegrazione nonché al pagamento delle indennità risarcitorie ai sensi di legge. Il ricorrente, a sostegno della propria domanda, rilevava di aver già spiegato le ragioni del suo comportamento ponendole in relazione al provvedimento aziendale con il quale era stato assegnato ad una diversa sede lavorativa pur essendo il datore di lavoro tenuto a dare esecuzione all' ordine di reintegrazione presso la stessa sede aziendale cui il dipendente era stato sino ad allora adibito.I giudici del merito accoglievano la domanda del ricorrente reputando la condotta del lavoratore priva di profili di illiceità in quanto conseguente alla illegittima condotta datoriale. La società datrice, infatti, non solo aveva tardato a dare esecuzione all'ordine di reintegrazione giudiziale ma ne aveva sostanzialmente eluso il comando, passato in giudicato, posto che la reintegra del dipendente non era avvenuta nel luogo e nelle mansioni originarie, bensì con un trasferimento del medesimo ad altra sede ed in assenza dei presupposti di legge. Il comportamento del lavoratore, dunque, si reputava giustificato sia quale espressione di un'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 cod. civ. sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti.Per la cassazione della sentenza d'appello proponeva ricorso la società datrice lamentando, in particolare, la violazione e falsa applicazione del principio di cui all'art. 1460 cod. civ., a mente del quale, nell'ambito dell'eccezione di inadempimento, il rifiuto di adempiere all'obbligazione deve essere conforme a buona fede e rilevando come, al contrario, nella fattispecie il rifiuto del lavoratore era intervenuto quando ancora il provvedimento datoriale non aveva sortito alcun effetto, e, dunque, non aveva ancora intaccato la sfera giuridica del dipendente.A fronte di detto motivo di censura, con l'ordinanza in commento la Corte di legittimità ha confermato le precedenti decisioni di merito, rigettando il ricorso. Precisamente, nel ritenere infondata l'impugnazione datoriale, la Suprema Corte ha fatto proprie le argomentazioni delle decisioni di merito, statuendo come da massima e precisando che non poteva considerarsi logicamente incongrua e neppure in contrasto con superiori principi giuridici la verifica circa la conformità a buona fede dell'inadempimento del lavoratore, posto che la Corte d'Appello, nella propria sentenza, aveva correttamente esaminato le circostanze di fatto caratterizzanti il caso concreto, raffrontando l'inadempimento delle due parti e reputando sussistente una obiettiva e speciale gravità della condotta datoriale.

Licenziamento orale

Cass. Sez. Lav., 18 maggio 2022, n. 16013

Pres. Doronzo; Rel. Esposito; Ric. V.V.; Controric. G.M.A.

Lavoro subordinato – Rivendicazione lavoro subordinato – Mansioni elementari e ripetitive – Indici sussidiari – Continuità della prestazione – Compenso fisso – Orario di lavoro fisso – Rilevanza

Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare e ripetitiva e il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti significativo, occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

Lavoro subordinato – Licenziamento orale – Impugnativa – Onere della prova del lavoratore – Volontà datoriale – Necessità – Eccezione del datore: dimissioni – Onere della prova del datore – Verifica – Accertamento giudiziale

Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa; nell'ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all'esito dell'istruttoria perduri l'incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall'art. 2697 cod. civ.

NOTA

Nel caso di specie il giudice di prime cure respingeva le richieste di riqualificazione del rapporto tra la ricorrente e la datrice di lavoro (titolare di casa di cura per anziani) quale rapporto di lavoro subordinato e di dichiarazione di illegittimità del relativo licenziamento (in quanto intimato oralmente). La Corte d'Appello di Catania ribaltava la decisione di primo grado e dichiarava tanto l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato quanto l'inefficacia del licenziamento intimato alla lavoratrice. Secondo la Corte, infatti, data la natura elementare e ripetitiva delle mansioni (assistenza notturna agli anziani e relativa pulizia) non rilevava ai fini della qualificazione del rapporto l'assoggettamento della lavoratrice al potere direttivo del datore di lavoro, non essendo plausibile che la stessa determinasse autonomamente le modalità di svolgimento delle proprie mansioni, quanto piuttosto l'utilizzo dei cd. indici sussidiari della subordinazione (nella specie l'effettività e la continuità della prestazione secondo orari fissi, l'esistenza di una retribuzione con cadenza periodica e continuativa). Con riferimento al licenziamento orale la Corte aveva invece considerato la prova raggiunta sulla base di elementi istruttori quale la testimonianza di una persona che aveva dichiarato di essere presente quando la datrice di lavoro aveva detto alla lavoratrice di non presentarsi più al lavoro.Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la datrice di lavoro osservando, quanto alla qualificazione del rapporto, che la lavoratrice non aveva dimostrato alcunché in merito agli ordini che le venivano impartiti, quanto invece al licenziamento orale, che la Corte aveva erroneamente posto in capo alla datrice di lavoro l'onere di dimostrare le dimissioni della lavoratrice in assenza di una prova da parte di quest'ultima dell'avvenuto licenziamento in forma orale.La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra.In particolare la Cassazione ha rilevato che con riferimento a prestazioni estremamente ripetitive ed elementari è corretto che il giudice faccia riferimento ad indici sussidiari della subordinazione quali quelli valorizzati dalla Corte di merito.Con riferimento poi al licenziamento orale ed alla relativa prova la Cassazione ha confermato la bontà della valutazione della Corte territoriale la quale aveva ritenuto raggiunta la prova dell'esistenza del licenziamento sulla base di un accertamento in fatto che aveva provato la richiesta della datrice di lavoro di non presentarsi più al lavoro, in tal modo accertando la volontà datoriale di porre fine al rapporto.

Nozione di straining

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2022, n. 16580

Pres. Bronzini; Rel. Bellè; Ric. S.D.; Controric. M.I.U.R.

Straining – Sindrome depressiva – Reazione soggettiva del dipendente alle direttive del superiore gerarchico – Configurabilità – Esclusione

È configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ.

NOTA

La Corte di Appello di Genova, riformando solo parzialmente la pronuncia del giudice di prime cure, confermava la reiezione della domanda di risarcimento del danno per comportamenti mobbizzanti o comunque indebitamente lesivi posti in essere nei confronti della lavoratrice, docente in servizio presso il datore di lavoro, e accoglieva, invece, la domanda, già respinta in primo grado, di rimborso delle spese anticipate dalla lavoratrice per la partecipazione ad un corso di formazione in ambito di sicurezza, nonché di rimborso delle spese di trasferta e dell'equivalente delle giornate di ferie e dei permessi utilizzati per la frequentazione del corso stesso. La Corte territoriale riteneva che, pur essendo le «condotte allegate sostanzialmente pacifiche tra le parti», il datore di lavoro avesse fornito «punto per punto chiarimenti e ragionevoli motivazioni dei comportamenti tenuti e dei fatti verificatisi, nel complesso dovendosi escludere che si potesse ravvisare una strategia persecutoria posta in essere nei riguardi della lavoratrice e potendosi ricollegare la sindrome depressiva prospettata dalla ricorrente ad una sua particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative».Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione.La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte di Appello di Genova in quanto coerente con i criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto in tema di configurabilità dello straining.Nel caso in esame la Corte territoriale non negava che «la ricorrente avesse potuto sviluppare, in ragione anche dell'attività lavorativa, una sindrome depressiva, ricollegandone tuttavia l'insorgenza ad una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dalla dirigenza scolastica e quindi escludendo che si determini il sorgere di un diritto risarcitorio».La Corte territoriale si uniformava, dunque, all'orientamento maggioritario della Suprema Corte secondo cui «si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972)».In sostanza, lo straining non si configura quando si è in presenza di meri disagi legati alla qualità usurante dell'ordinaria prestazione lavorativa, in quanto le condizioni ordinariamente usuranti dell'attività in un contesto organizzativo gerarchico non si possono addossare all'impresa se mancano gli estremi della colpa.

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