Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Dimissioni per evitare un licenziamento giusto
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Controlli del datore di lavoro e agenzia investigativa
Trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile
Trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale

Dimissioni per evitare un licenziamento giusto

Cass. Sez. Lav. 8 giugno 2017, n. 14321

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.A.; Controric. Z.I. S.r.l.;

Dimissioni incentivate - Minaccia di licenziamento - Sussistenza dei presupposti giustificativi del licenziamento - Vizio della volontà - Non sussiste

In tema di annullamento di dimissioni del lavoratore, la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come prospettazione di un male ingiusto di per se, invece che come minaccia a far valere un diritto, ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro ad irrogare il licenziamento, per l'insussistenza della inadempienza addebitabile al dipendente. Non sono invalide le dimissioni rassegnate dal lavoratore per evitare un licenziamento giusto; soltanto se la minaccia del licenziamento è ingiusta le dimissioni possono essere annullate per vizio della volontà, ma in tal caso l'onere di fornire la prova dell'invalidità delle stesse è, in applicazione dei principi generali, a carico del lavoratore che propone l'azione di annullamento e non dell'azienda.

Nota

La Corte di Appello di Ancona ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Ancona con la quale era stata respinta la domanda di annullamento per violenza o dolo delle dimissioni con incentivo, sottoscritte dal dipendente, formulata sul presupposto che il consenso fosse stato estorto mediante minaccia di licenziamento.

In particolare, la pretesa del lavoratore era fondata sull’assunto che, a seguito dell’applicazione di due sanzioni conservative, lo stesso, convocato d’urgenza presso la sede centrale della società datrice, sarebbe stato minacciato di licenziamento qualora non si fosse dimesso immediatamente a fronte della corresponsione di un incentivo.

A fondamento della propria decisione la Corte di merito ha evidenziato che non poteva ritenersi configurabile nella specie alcun vizio della volontà dovendo escludersi che il lavoratore avesse prestato il proprio consenso alle dimissioni sulla base di una falsa rappresentazione della realtà in ordine alla sussistenza dei presupposti del licenziamento. Ed infatti, osservava la Corte che gli inadempimenti che avrebbero potuto giustificare un eventuale licenziamento - sia quelli già sanzionati in precedenza, sia quelli più recenti oggetto di lettere predisposte e mostrate durante la riunione presso la sede della società -, risultavano incontestati dal lavoratore, e che tali condotte, stante la non trascurabile rilevanza del ruolo di responsabile di reparto svolto dal dipendente, dovevano ritenersi idonee ad integrare una giusta causa di recesso, anche a prescindere dalla riconducibilità delle stesse alle ipotesi per le quali era prevista la sanzione del licenziamento ai sensi del CCNL di settore applicabile.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore affidato a nove motivi.

Il lavoratore sosteneva che erroneamente la Corte territoriale non si era pronunciata sulla riconducibilità o meno delle condotte contestate al lavoratore all’interno delle previsioni contrattuali del CCNL di settore che prevedevano la sanzione del licenziamento disciplinare e lamentava, altresì, che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto che il licenziamento minacciato, in quanto astrattamente irrogabile, non potesse essere di per sé qualificato come "male ingiusto".

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha ricordato che: a) in tema di annullamento di dimissioni del lavoratore, la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come prospettazione di un male ingiusto di per sè, invece che come minaccia a far valere un diritto, ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, per l'insussistenza della inadempienza addebitabile al dipendente (cfr. tra le altre Cass. 28 novembre 1998, n. 12127); b) non sono invalide le dimissioni rassegnate dal lavoratore per evitare un licenziamento giusto e soltanto se la minaccia del licenziamento è ingiusta le dimissioni possono essere annullate per vizio della volontà, ma in tal caso l'onere di fornire la prova dell'invalidità delle stesse è, in applicazione dei principi generali, a carico del lavoratore che propone l'azione di annullamento e non dell'azienda (cfr. Cass. 25 maggio 2012, n. 8298); c) le dimissioni, pur consistendo in un atto unilaterale, sono annullabili per vizio della volontà qualora siano eterodeterminate dal comportamento di parte datoriale che ingeneri nel prestatore una rappresentazione alterata della realtà (cfr. in termini, relativamente al rapporto di agenzia, Cass. 23 gennaio 2012, n. 874; Cass. 18 agosto 2004, n. 16179).

Con specifico riferimento al caso in esame la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale si era rigorosamente attenuta ai principi sopra esposti, atteso che accertata - come detto - la sussistenza di ragioni giustificative di un eventuale recesso per giusta causa, con motivazione congrua e giuridicamente corretta, aveva escluso sia l'esistenza di vizi del consenso, tali da determinare una falsa rappresentazione della realtà, sia conseguentemente una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro. 

 

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 31 maggio 2017, n. 13803

Pres. Bronzini; Rel. Manna; P.M. Fresa; Ric. C.V.; Controric. U. s.p.a.;

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Interesse ad agire - Concreto pregiudizio per effetto della violazione dell’art. 5 L. 223/91 - Necessità

A pena di difetto di interesse ad impugnare il licenziamento è necessario che risulti che il lavoratore che lamenti una discriminazione o, comunque, una violazione dei criteri di scelta a proprio danno si sia visto inserire nel novero degli esuberi per far posto ad un altro o ad altri dipendenti che, pur appartenendo alla medesima platea di lavoratori potenzialmente licenziabili, nondimeno abbiano beneficiato di un’erronea applicazione dei criteri di scelta o di criteri di scelta generici o discrezionali adoperati dal datore di lavoro.

Nota

La Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza di rigetto dell’impugnativa di un licenziamento intimato per riduzione di personale ritenendo che il Tribunale abbia correttamente escluso la dedotta violazione dei criteri di scelta contemplati dall’art. 5 L. 223/91.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di sei motivi, tutti rigettati. Nella decisione in commento la Suprema Corte riprende affermazioni già enunciate ed afferma il principio di cui alla massima in tema di interesse ad agire già sancito in specifici recenti precedenti (Cass. 1 dicembre 2016, n. 24558). Secondo la Corte solo i lavoratori che hanno in concreto subito effetti negativi a cagione della violazione dei criteri di scelta, in quanto determinante la loro collocazione in mobilità, hanno un interesse qualificato e sono destinatari della tutela apprestata dalla norma dell'articolo 5 L. 223/1991. Ipotesi non verificatasi nel caso di specie, non avendo l’esclusione dei lavoratori aderenti alla proposta di esodo volontario dal novero dei licenziabili, avuto alcuna incidenza negativa sul licenziamento del ricorrente. Come precisato dai giudici del merito e condiviso dalla Cassazione, infatti, i dipendenti che hanno aderito alla proposta aziendale di esodo volontario formulata ante procedura, hanno cessato il loro rapporto ancor prima dell’apertura della medesima, pertanto le loro posizioni non hanno inciso in alcun modo nella delimitazione del perimetro dei licenziabili.

Secondo la Corte, pertanto, è esclusa a priori la perpetrazione di una discriminazione ovvero un uso incontrollato dell’esercizio del potere di scelta incidente sulla posizione del ricorrente, dato che in nessun caso i lavoratori esodati volontariamente potevano essere comparati con lui ovvero con gli altri dipendenti inseriti nelle liste di mobilità. Né, precisa la Corte, tale conclusione muta in considerazione del fatto che, per effetto di una norma transitoria contenuta nell’accordo sindacale, alcuni degli aderenti all’esodo volontario abbiano posticipato di alcuni mesi la data di risoluzione del rapporto. Ed, infatti, il numero delle dimissioni incentivate è stato predeterminato prima dell’apertura della procedura, pertanto tali soggetti sono stati comunque esclusi dal calcolo del numero complessivo degli esuberi per avviare la procedura di mobilità, conseguentemente la loro, peraltro molto limitata, permanenza in servizio non ha avuto alcuna incidenza sulla determinazione della platea dei lavoratori potenzialmente licenziabili.

 

Controlli del datore di lavoro e agenzia investigativa

Cass. Sez. Lav. 22 maggio 2017, n. 12810

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Mastrobernardino; Ric. M.E.; Controric. M. S.p.a.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Libertà e dignità del lavoratore - Controlli del datore di lavoro - Agenzia investigativa - Legittimità - Condizioni - Fondamento

Le disposizioni dell'art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori - restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione. 

Nota

Il Tribunale di Grosseto rigettava il ricorso proposto dal dipendente (esperto sommozzatore) per impugnare il licenziamento disciplinare intimato dalla società. Il dipendente aveva svolto, all'interno dell'area portuale presso cui operava la datrice di lavoro attività a favore di imbarcazioni concorrenti.

Avverso la pronuncia del Tribunale proponeva appello il dipendente ma la Corte lo dichiarava inammissibile.

Avverso la sentenza della Corte di Appello veniva proposto ricorso per Cassazione contestando l'erronea valutazione delle testimonianze rese in corso di causa e l’inattendibilità e inutilizzabilità dei report investigativi privati che riguardavano circostanze extra-lavorative non attinenti al rapporto di lavoro.

La Cassazione ha rigettato il ricorso.

Per la Suprema Corte nel caso in esame il controllo sull'attività lavorativa svolta fuori dell'orario di lavoro per società concorrenti sicuramente attiene alla prestazione lavorativa e all’obbligo di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del codice civile.

Ribadisce la Cassazione che nel caso in esame il Tribunale aveva correttamente ritenuto legittimi gli accertamenti demandati dal datore di lavoro a un'agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extra-lavorativi, che sicuramente assumevano rilievo disciplinare sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

Trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2017, n. 12729

Pres. Napoletano; Rel. Tricomi; P.M. Sanlorenzo; Ric. R.M.; Controric. A.U.R.A.;

Lavoro Subordinato - Legge 104/1992 - Assistenza familiare disabile con handicap grave - Trasferimento - Ammissibilità - Handicap non grave - Eccezione - Rilevanza delle esigenze aziendali - Fattispecie

L'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente con handicap grave, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati in funzione della tutela della persona disabile, per cui il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità di quest’ultimo, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, confermando la pronuncia della Corte d’Appello di Roma, ha rigettato il ricorso promosso da una lavoratrice (con qualifica di capo tecnico di radiologia) al fine di ottenere la declaratoria d’illegittimità del provvedimento aziendale con il quale era stata trasferita da un presidio sanitario ad un altro.

Nello specifico, la lavoratrice aveva impugnato la sentenza di secondo grado deducendo che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto insussistente il fatto che la stessa prestasse assistenza ad un familiare disabile (nel caso di specie, la madre) e fosse, come tale, in mancanza di un suo consenso, non trasferibile in considerazione dell’assistenza da prestare al familiare convivente.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, ricordando innanzitutto che la L. n. 104/1992, all’art. 36, comma 5, stabilisce che il lavoratore che assiste la persona con handicap grave ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

Tuttavia la Corte, con la sentenza n. 25379/2012, ha affermato che la disposizione della legge cit., laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente con handicap in situazione di gravità, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati in funzione della tutela della persona disabile, sicché il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità di quest’ultimo, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte.

Ebbene, nella pronuncia di secondo grado non è ravvisabile il vizio denunciato dalla lavoratrice, poiché la Corte d’Appello aveva effettivamente tenuto conto della situazione personale della lavoratrice, in relazione all’assistenza prestata al familiare, ma nel rilevare il venir meno del posto cui la lavoratrice era in precedenza assegnata, che costituiva circostanza non contestata, aveva ritenuto prevalente la sussistenza di esigenze aziendali effettive e conseguentemente ritenuto legittimo il trasferimento.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso. 

 

Trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2017, n. 11568

Pres. Napoletano; Rel. Tricomi; P.M. Sanlorenzo; Ric. I.A.; Controric. R.C.;

Pubblico impiego privatizzato - Trasferimento per incompatibilità ambientale -- Natura disciplinare - Esclusione - Applicazione dell’art. 2103 c.c. - Legittimità - Inevitabilità del trasferimento - Non necessità

L'istituto del trasferimento per incompatibilità ambientale, anche nel pubblico impiego contrattualizzato, non ha natura disciplinare ma è riconducibile alle ragioni tecniche, organizzative e produttive di cui all'art. 2103 c.c. Tale trasferimento può essere adottato in presenza di fatti che, in base ad una valutazione discrezionale, possono far ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell’ufficio, l’ulteriore permanenza del dipendente in una determinata sede.

Il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento e le finalità che il datore di lavoro ha posto a suo fondamento, controllo che non può essere esteso al merito della scelta organizzativa, né questa deve presentare necessariamente i caratteri dell’inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.

Nota

Una dipendente di un Comune veniva trasferita ad altro ufficio, nel medesimo territorio comunale, in ragione di una situazione di tensione e di disfunzioni che si erano determinate nell’ufficio di assegnazione. La dipendente impugnava il provvedimento dirigenziale che ne aveva disposto il trasferimento per incompatibilità ambientale avanti al Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del Lavoro.

Il Tribunale, con sentenza confermata anche in secondo grado, rigettava il ricorso della lavoratrice considerando dimostrata, sulla base dei documenti prodotti, la difficoltà di garantire il sereno inserimento della dipendente nell’ufficio di assegnazione, in ragione della conflittualità con gli altri colleghi e dell’inosservanza delle disposizioni impartite.

La lavoratrice ricorreva in Cassazione; il Comune resisteva con controricorso.

La ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. sostenendo l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistenti le ragioni tecniche, organizzative e produttive a giustificazione del trasferimento.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo il principio (già affermato in Cass. 2143/2017) secondo cui il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale non ha natura disciplinare ma è riconducibile alle ragioni tecniche, organizzative e produttive di cui all'art. 2103 c.c. Tale trasferimento è subordinato ad una valutazione discrezionale dei fatti che possono far ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell’ufficio, l’ulteriore permanenza del dipendente in una determinata sede. Il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento e le finalità che il datore di lavoro ha posto a fondamento dello stesso, controllo che non può essere esteso al merito della scelta organizzativa, né questa deve presentare necessariamente i caratteri dell’inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.

La Suprema Corte ha altresì affermato che, stante la natura non disciplinare del trasferimento per incompatibilità ambientale, il relativo provvedimento non è soggetto ad alcun onere di forma, né deve contenere necessariamente l’indicazione dei motivi. Il datore di lavoro ha solo l’onere di allegare e provare in giudizio le comprovate ragioni che lo hanno determinato.

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