Contenzioso

Datore di lavoro colpevole per il mobbing orizzontale solo se informato

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di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Il lavoratore che subisce il cosiddetto mobbing orizzontale (cioè, quello attuato da colleghi che abbiano livello e mansioni equiparabili al proprio) non ha diritto al risarcimento da parte del datore di lavoro se quest'ultimo dimostra di non essere stato a conoscenza degli atti persecutori posti in essere dai propri dipendenti. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l'ordinanza 1109/2020, respingendo il ricorso di una lavoratrice che, lamentando di trovarsi in uno stato ansioso e depressivo conseguente alle vessazioni subite da due colleghe, ha chiesto di condannare il datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti.

Nel decidere il caso, la Suprema corte ha anzitutto ripercorso e confermato il proprio orientamento in materia di mobbing, ribadendo come in ogni caso, ai fini della configurabilità dello stesso, non sia affatto sufficiente che il lavoratore dimostri l'esistenza di alcune vessazioni ai propri danni.

E infatti, oltre a essere necessario che tali vessazioni siano messe in atto in modo mirato e sistematico mediante una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio (anche se leciti laddove considerati singolarmente), è pure indispensabile rintracciare un vero e proprio intento oppressivo in capo al datore di lavoro o ai colleghi colpevoli.

Inoltre, prosegue la Corte, nessun risarcimento è dovuto laddove la vittima di tali condotte non sia in grado di dimostrare anche l'evento lesivo della propria salute e il nesso causale esistente tra questo evento e i comportamenti subiti.

Fatta questa premessa circa gli elementi costitutivi del mobbing in generale (e, quindi, tanto al cosiddetto mobbing orizzontale quanto a quello verticale) e chiarito come tutti tali elementi debbano essere provati dal lavoratore che chieda al giudice di accertare l'esistenza delle persecuzioni, la Cassazione si occupa poi di ripercorrere il tema del risarcimento al dipendente che sia stato effettivamente vittima di mobbing orizzontale.

Al riguardo, precisa la Corte, il datore di lavoro è contrattualmente obbligato alla tutela dell'integrità psicofisica dei dipendenti e, quindi, ben può essere condannato a risarcire il lavoratore che si ammali in conseguenza del mobbing subito dai colleghi, anche se la persecuzione non è stata perpetrata o voluta dallo stesso datore. Non si tratta, però, di una responsabilità oggettiva: affinché il datore possa vedersi condannato è essenziale che gli sia imputabile un elemento di colpa, ossia la violazione di disposizioni di legge o di contratto o di una regola di esperienza.

In sostanza, dunque, non è tenuto a risarcire il dipendente mobbizzato quel datore di lavoro che sia in grado di dimostrare di avere adempiuto con la massima diligenza al proprio obbligo di tutela della salute del lavoratore, mediante l'attuazione di ogni precauzione ragionevolmente necessaria a questo scopo.

Nel caso specifico, il fatto che mancasse la prova della consapevolezza del datore di lavoro circa l'esistenza delle condotte persecutorie ai danni della lavoratrice ricorrente è valso a escludere la condanna di quest'ultimo.

Infatti, solo se venuta a conoscenza di un possibile stato di malessere della dipendente l'impresa avrebbe potuto reagire e porre rimedio allo stesso, o rimanere inerte e vedersi in questo caso condannata al risarcimento del danno per non avere adempiuto il proprio obbligo di tutela della salute della lavoratrice.

Alla luce di ciò vale la pena ricordare come sia importante per ciascuna impresa, in caso di ricezione di segnalazioni anonime o palesi circa qualsiasi situazione che possa anche astrattamente turbare la salute psicofisica di un proprio dipendente, agire tempestivamente per approfondire l'informazione ricevuta e adottare gli opportuni provvedimenti, ad esempio avviando una investigazione interna e - successivamente, se del caso - un procedimento disciplinare a carico dei lavoratori colpevoli delle vessazioni o delle molestie.

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