Rapporti di lavoro

Demansionamento, margini di manovra più ampi per i datori con il criterio formale

di Monica Lambrou

La nuova versione dell’articolo 2103 del Codice civile, introdotta con il Jobs act (Dlgs 81/2015), ha permesso l’emersione di una nuova concezione di flessibilità delle mansioni durante il rapporto di lavoro, fornendo una maggiore tutela nei confronti del datore di lavoro e superando il principio di necessaria – e assoluta – equivalenza tra i vecchi e i nuovi compiti attribuiti al lavoratore in caso di esercizio dello ius variandi.

I giudici non sono più chiamati, come in passato, a valutare in concreto – e di fatto - l’omogeneità delle nuove mansioni e la loro aderenza alle specifiche competenze del dipendente, venendo esclusivamente in rilievo (per negare l’avvenuto demansionamento) che le nuove incombenze siano riconducibili allo «stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte» (come da nuova formulazione dell’articolo 2103).

Si passa, dunque, da un criterio puramente sostanziale a uno esclusivamente formale, che si presta a garantire una maggiore certezza e uniformità interpretativa, ad assoluto vantaggio del datore di lavoro e delle relative strategie imprenditoriali. Al datore è concesso di procedere a un vero e proprio demansionamento del lavoratore ogniqualvolta ciò sia reso necessario da una «modifica degli assetti organizzativi aziendali» (o che questa possibilità sia prevista dalla contrattazione collettiva).

A circa tre anni dalla modifica della norma, si può tentare di valutare la portata dell’intervento legislativo sulla base dell’interpretazione giurisprudenziale.

La giurisprudenza di merito – al netto di tesi restrittive – ha confermato l’assoluta legittimità della scelta datoriale di «attribuire al lavoratore funzioni che appartengano allo stesso livello di inquadramento delle precedenti», senza che sia più necessario «valutarne in concreto il contenuto professionale e/o l’aderenza alle specifiche competenze già acquisite» (Tribunale di Bergamo, sentenza del 12 gennaio 2017).

Con riferimento, poi, al mutamento in pejus, i giudici di merito si sono spinti sino ad ammettere – al ricorso dei nuovi presupposti di legge – la liceità di un’attribuzione a mansioni nettamente inferiori qualitativamente e quantitativamente a quelle precedenti (Tribunale di Roma, sentenza del 2 febbraio 2018). Per di più, è stata affermata la piena compatibilità con il criterio della «modifica degli assetti» legittimante il demansionamento, alla classica ipotesi in cui, a fronte del rischio di dover procedere al licenziamento, il datore metta il dipendente nella condizione di salvaguardare l’occupazione in una posizione diversa «e financo deteriore» (Tribunale di Milano, sentenza del 23 novembre 2016).

In ogni caso, seppur nei citati casi espressamente consentiti dalla nuova formulazione della legge, il demansionamento è da ritenere sempre illegittimo ove al lavoratore vengano attribuite – anche in via di fatto – «mansioni di due livelli inferiori» (Tribunale di Milano, sentenza del 15 luglio 2016). In questo caso, il datore dovrà comunque procedere a riassegnare il lavoratore a incombenze idonee al proprio livello di inquadramento e a risarcire gli eventuali danni subiti.

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