I contratti a termine tra intenzioni del legislatore e vincoli di sistema
Il ruolo della contrattazione collettiva dopo la riforma dei contratti a termine operata dal recente decreto lavoro
In anteprima da Contratti & Contrattazione Collettiva n. 6/2023
Tra le numerose novità introdotte dal c.d. decreto-lavoro" quella che più ha raccolto l'interesse del dibattito pubblico e degli operatori del mercato del lavoro è, indubbiamente, la riforma dei contratti a termine. Siamo giunti a una nuova tappa di una sorta di gioco dell'oca, fatto di riforme e continue controriforme, che non appassiona certamente i datori di lavoro e la loro richiesta di stabilità e certezza del quadro regolatorio. Dalla spinta liberalizzazione del 2015 (con il Jobs Act e il c.d. decreto-Poletti dell'anno precedente) siamo passati al drastico giro di vite del 2018 (con il c.d. decreto-dignità e conseguente regime di "causali impossibili") per arrivare adesso a una soluzione intermedia. Sarà infatti la contrattazione collettiva, quella espressa dai sistemi comparativamente più rappresentativi, a disciplinare la materia. In assenza di previsioni contenute nei contratti collettivi opererà, in via subordinata e fino al prossimo 30 aprile 2024, la clausola generale delle "ragioni tecniche, organizzative e produttive", così come precisate dalle parti del singolo rapporto di lavoro. Qui il gioco dell'oca ci riporta ancora più indietro nel tempo e, precisamente, alla casella di partenza di questo cantiere infinito della riforma del lavoro a termine. Il legislatore, infatti, si affida in via transitoria al c.d. causalone del decreto legislativo n. 368 del 2001 che tanti problemi aveva causato a imprese e lavoratori non tanto rispetto alla chiara formulazione legislativa quanto nella sua attuazione pratica. È venuto meno l'obbligo della previa certificazione da parte delle sedi a ciò abilitate (legge Biagi) ma è evidente che il richiamo alla sola autonomia negoziale individuale non è garanzia di particolare tenuta in caso di un futuro e sempre possibile contenzioso tra le parti.
La materia dei contratti a termine è, in effetti, tra quelle in cui, forse in modo più evidente che in altre, si gioca la tensione tra le esigenze delle imprese e le aspettative del lavoratore e questo elemento genera incertezza. Non a caso la discussione politico-sindacale, già dalla circolazione delle prime bozze del decreto, si è polarizzata tra gli annunci entusiasti del governo e l'opposizione di coloro che, forse con troppa enfasi, denunciano una ulteriore spinta verso la direzione della precarizzazione del lavoro.
In realtà il fenomeno va contestualizzato nelle sue corrette dimensioni, considerando che, secondo i dati Eurostat, il numero di lavoratori con contratto a termine in Italia è sopra la media europea di pochi punti percentuali (16,9% contro il 14%) là dove le maggiori criticità del nostro mercato del lavoro si registrano nell'abuso di tirocini e partite IVA. Dall'altro lato, il provvedimento del governo, se si legge dentro le logiche di "sistema" che lo governano, non pare destinato a produrre chissà quali effetti eclatanti rispetto alla diffusione dei contratti a termine.
In sintesi, per i contratti con durata non superiore ai 12 mesi continua a non essere necessaria alcuna causale. Per quelli che invece hanno durata superiore (entro il tetto massimo dei 24 mesi), vuoi sin dal primo contratto vuoi per effetto di una successione di contratti, è necessario che vi sia una (1) esigenza di sostituzione di un lavoratore ovvero che (2) si verifichino i casi previsti dai contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative. In assenza di previsioni di fonte contrattual-collettive, (3) le parti individuali possono comunque sottoscrivere contratti di durata a termine "per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva" da loro individuate, ma solo fino al 30 aprile 2024.
L'intenzione del legislatore è chiara e va nella direzione di un maggiore utilizzo del contratto a termine il cui utilizzo è comunque affidato al controllo sindacale mediante i contratti collettivi. Restano tuttavia alcuni vincoli di derivazione europea visto che la materia è disciplinata da una direttiva del lontano 1999 che non poco ha inciso e ancora incide sui processi nazionali di riforma della materia.
Innanzitutto, la giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria, si è più volte pronunciata nel tempo in materia di contratti a termine, fissando alcuni paletti che, in quanto attuativi delle direttive euro-unitarie, dobbiamo considerare ancora pienamente vincolanti. È recente, per esempio, la sentenza della Corte di Cassazione del 31 gennaio 2023, n. 214, che ha confermato che il contratto a termine può essere utilizzato solo in presenza di "ragioni obiettive" e che il motivo giustificativo deve essere "circostanziato e puntuale", non valendo causali non specifiche, con espressioni troppo generiche come "l'incremento dei volumi produttivi". E anche la Corte di Giustizia europea è stata alquanto chiara, nel tempo, nel confermare che l'assunzione temporanea di un lavoratore è ammessa solo "al fine di soddisfare esigenze provvisorie e specifiche", che esulino dalla "programmazione ordinaria del datore di lavoro» e che devono verificarsi «concretamente" (Corte di giustizia UE, sentenza 25 ottobre 2018, n. C-331/17, Sciotto).
Non di meno, anche il ruolo della contrattazione collettiva deve essere inteso correttamente nei termini di vincoli di sistema. Il decreto lavoro, infatti, ammette l'intervento dell'autonomia individuale soltanto in assenza di regole predisposte dai contratti collettivi. E non è condivisibile l'interpretazione di chi ritiene che tali regole ancora non ci siano e che pertanto, almeno fino al 30 aprile 2024, è sufficiente l'accordo tra il singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore per stipulare un contratto a tempo determinato di durata superiore ai 12 mesi.
Non sono pochi i contratti collettivi che regolano oggi la materia, pur in modo ambiguo, talvolta per inerzia nel recepire le riforme legislative, talaltra perché, a contrario, tempestivi nel darne attuazione – già la legge 23 luglio 2021 n. 106 aveva riaperto ai contratti collettivi. Negli accordi di settore, in molti casi, oltre le norme sulle quote di contingentamento, sulla stagionalità, sul diritto di precedenza, sulla somministrazione a tempo determinato, esistono già delle causali e queste sono oggi pienamente operative anche alla stregua della nuova disciplina. Si pensi per esempio al settore edile, nel quale sia il contratto dell'industria che dell'artigianato, hanno già tipizzato alcune ipotesi di contratti a termine (p.e. per la proroga dei termini di un appalto). Per quanto, di converso, vi sono altri contratti collettivi, come quello dell'industria metalmeccanica, in cui non c'è alcuna clausola collettiva, per cui le parti individuali possono procedere autonomamente.
All'operatore l'onere di verificare, settore per settore, il quadro normativo-contrattuale di riferimento e la responsabilità di adoperare gli strumenti giuridici, in questo caso il contratto a termine, per la loro finalità "naturale", pena, come si è visto, il grande rischio di contenzioso giudiziale. Alle parti sociali, invece, lo sforzo di chiarire le norme collettive, così da offrire alle parti individuali criteri di azione ragionevoli in modo da non prestare il fianco a comportamenti abusivi.
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