Contenzioso

Indeducibile la somma liquidata al collaboratore per la partecipazione all’impresa familiare

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di Salvatore Servidio

La Corte di cassazione, con ordinanza 21 dicembre 2021, n. 40937, ha affermato che la liquidazione al congiunto-collaboratore del diritto di partecipazione all'impresa familiare non rileva come componente negativo del reddito, né è deducibile dal reddito d'impresa, non ricorrendo il requisito dell'inerenza.
Il caso
La fattispecie oggetto dell'ordinanza nasce dall'impugnazione di cartella di pagamento del Concessionario riscossione per recupero Irpef anno 2005, eccependo il contribuente l'illegittimità della ripresa a tassazione della somma indicata nel rigo RF53 («perdite di impresa portate in diminuzione dal reddito»), corrisposta al padre - collaboratore familiare - a titolo di diritti da quest'ultimo maturati in conseguenza della cessazione dell'impresa familiare a suo tempo costituita.
Il giudice adito accoglie il ricorso con conferma in appello, ove la Commissione tributaria regionale sostiene l'errore materiale del contribuente nella compilazione della dichiarazione, errore che – a suo dire - non poteva inficiare il diritto alla deduzione della somma, per mancanza di danno erariale. Semmai, l'eventuale riscossione della somma iscritta a ruolo avrebbe realizzato violazione del divieto della doppia imposizione ex articolo 163 del Dpr 917/1986 (Tuir).
Nel successivo ricorso in Cassazione, l'ente impositore assume, per quanto di interesse, violazione dell'articolo 109, comma 5, del Tuir poiché la liquidazione al familiare del diritto di partecipazione all'impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti e non rileva come componente negativo del reddito, né è deducibile dal reddito d'impresa, non ricorrendo il requisito dell'inerenza che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito. Di conseguenza, la deduzione dal reddito della somma liquidata deve essere intesa come indebita sottrazione di base imponibile.
La decisione della Cassazione
Con la pronuncia in esame la Sezione tributaria, ribaltando la decisione dei giudici di merito, accoglie il ricorso erariale, affermando che la liquidazione al congiunto-collaboratore del diritto di partecipazione all'impresa familiare non rileva come componente negativo del reddito, né è deducibile dal reddito d'impresa, non ricorrendo il requisito dell'inerenza.
Nel merito, si precisa che nell'impresa familiare di cui all'articolo 230-bis del Codice civile, il reddito del titolare, pari al reddito dell'impresa familiare al netto delle quote spettanti ai familiari collaboratori, ex articolo 5, comma 4, del Tuir), costituisce reddito d'impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori - che non sono contitolari dell'impresa familiare - vanno qualificate come redditi di puro lavoro e non assimilabili a quello di impresa (Cassazioni n. 28558/2008; n. 26388/2010; n. 10777/2013).
Secondo il giudice di legittimità, infatti, la liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa familiare non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal Tuir. Essa piuttosto riguarda la sfera personale dei soggetti del rapporto in questione, atteso che non esiste alcun contratto sociale e non sussiste un vincolo societario tra titolare dell'impresa e i suoi collaboratori.
Da ciò consegue che:
- la somma attribuita a titolo di liquidazione non va assoggettata a Irpef in capo al soggetto percipiente;
- non rileva come componente negativo;
- non è deducibile dal reddito d'impresa, per mancanza del requisito di inerenza previsto dall'articolo 109, comma 5, del Tuir.
Peraltro, il diritto di credito spettante ai collaboratori dell'impresa familiare ha valenza meramente interna, senza conseguenze fiscali.
Inoltre, l'ordinanza n. 40937/2021, richiamando la disciplina relativa al trattamento fiscale dell'impresa familiare, ha sottolineato che per questa tipologia di impresa non si discute di reddito prodotto in forma associata (Cassazioni n. 4030/1992; n. 8959/1992; n. 20552/2015; Sezioni Unite n. 6951/1993; n. 89/1995). Poiché, dunque, sussiste una separazione netta fra il reddito dell'imprenditore e quello dei suoi familiari/collaboratori - tanto che le perdite d'impresa sono ripartite ma solo ad esclusivo carico dell'imprenditore medesimo - i redditi imputati ai familiari, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione, non rappresentano costi nella determinazione del reddito dell'impresa familiare, bensì una ripartizione dell'utile dell'impresa stessa. In questo modo va escluso che nella contabilità dell'imprenditore titolare dell'impresa familiare possa essere iscritto il costo del lavoro del collaboratore che viene remunerato come quota di utile che diminuisce il reddito del titolare in dichiarazione dei redditi.Il fondamento dell'istituto dell'impresa familiare – aggiunge la Suprema corte - va ravvisato nella solidarietà che risiede nei rapporti familiari e nell'esigenza di tutela e valorizzazione del lavoro prestato dai componenti della famiglia che hanno dato il loro contributo all'impresa. Di conseguenza, l'imprenditore è tenuto a devolvere parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano nell'impresa e a liquidare al familiare il diritto di partecipazione nell'ipotesi in cui cessi di lavorare nell'impresa. In tale contesto, la somma liquidata al collaboratore per la partecipazione all'impresa familiare non è, come sopra evidenziato, assoggettata a Irpef, né rilevante come componente negativo, né deducibile dal reddito d'impresa.

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