Contenzioso

Licenziamenti, obbligo di repêchage da soddisfare con la riqualificazione

La prova della sopravvenuta inutilità del lavoratore da parte del datore deve essere rigorosa

di Giuseppe Bulgarini d’Elci

L’obbligo di accertare l’impossibilità di reimpiego del lavoratore prima di disporre il licenziamento per ragioni di riorganizzazione aziendale va allargato alla verifica sulla impossibilità di riqualificazione professionale del dipendente, che il datore potrebbe soddisfare, in ipotesi, attraverso la partecipazione a corsi di formazione o l’affiancamento ad altri colleghi.
Posto che il licenziamento costituisce la “extrema ratio”, per dimostrare l’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni il datore non può limitarsi a provare che non sono presenti posizioni alternative da assegnare al dipendente, ma deve anche dimostrare che risulta impossibile, o quantomeno antieconomico, sottoporre il lavoratore a un percorso di aggiornamento delle competenze professionali.
In presenza di una riorganizzazione aziendale spinta dall’utilizzo di mezzi a motore elettrico in sostituzione dei macchinari con motore a diesel, l’assolvimento del repêchage implica che il datore di lavoro verifichi se il dipendente possa essere sottoposto ad un percorso di riqualificazione, che lo abiliti ad operare sui nuovi macchinari. Solo se questa condizione risulti impossibile o antieconomica, il datore potrà validamente risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.
Il Tribunale di Lecco (sentenza 159/2022 del 31 ottobre scorso) ha affermato questo principio partendo dal rilievo che la prova della «sopravvenuta inutilità del lavoratore» deve essere rigorosa, aggiungendo che la prova è sottoposta a un rigore ancor più penetrante se la riorganizzazione dei processi produttivi, come nel caso in esame, non si colleghi a una situazione di crisi aziendale e la posizione professionale del dipendente non sia stata soppressa.
Se la riorganizzazione aziendale ha determinato una condizione di obsolescenza della professionalità posseduta dal lavoratore, il datore non dovrà unicamente preoccuparsi di verificare la disponibilità di mansioni alternative nel perimetro aziendale, ma dovrà anche accertarsi che non sia possibile sottoporre il dipendente a un percorso di aggiornamento professionale che lo renda (nuovamente) idoneo alle mansioni per le quali era stato assunto.
Il giudice di Lecco vede una sola alternativa alla prova della «impossibilità della riqualificazione professionale» ed è quella della sua «antieconomicità». Si deve, quindi, desumere che il datore di lavoro potrà sottrarsi alla riqualificazione del dipendente, a prescindere dalla impossibilità del percorso formativo, se essa risulti gravosa o priva di utilità sul piano economico.
Lo sforzo che il datore deve compiere per evitare che il licenziamento comporta, dunque, che alla verifica del repêchage su altre attività in azienda si affianchi la verifica di un possibile percorso formativo, da svolgere con «affiancamento ad altri colleghi», ovvero attraverso corsi di apprendimento professionale. In questo modo, è consentito al dipendente di aggiornare le proprie competenze per poter continuare a ricoprire un ruolo attivo in azienda nel mutato contesto organizzativo.
La decisione del giudice lecchese allarga il perimetro del repêchage oltre i tradizionali confini espressi dalla giurisprudenza di legittimità e questa è, in sé, una circostanza degna della massima attenzione. È presto per affermare se si tratti di un precedente destinato a restare isolato o ad aprire un nuovo indirizzo, ma si può ben dire che per le imprese suona un ennesimo campanello d’allarme sulla incertezza applicativa che caratterizza le norme sulla disciplina dei licenziamenti determinati da ragioni oggettive.

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