Contenzioso

Non consentito l’accesso alle dichiarazioni dei lavoratori durante un’ispezione

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di Silvano Imbriaci

Il Consiglio di Stato, con la sentenza 5779 del 24 novembre 2014, si pone sulla scia del recente orientamento inaugurato qualche mese fa dalla stessa Sezione (sentenza 863/2014) in merito all’accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso dell’attività ispettiva e amministrativa conclusasi con l’adozione di una ordinanza ingiunzione per accertate violazioni nella gestione di rapporti di lavoro dipendente (nella specie, art. 39, comma 3, del Dl 112/2008). Secondo questa nuova impostazione non può, in generale, ritenersi comunque recessiva la tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva rispetto alle esigenze di tutela degli interessi giuridicamente rilevanti dei soggetti che richiedono l’accesso; deve, al contrario, ritenersi prevalente, se non assorbente, la tutela apprestata dall’ordinamento alle esigenze di riservatezza delle suddette dichiarazioni, contenenti dati sensibili la cui divulgazione potrebbe comportare, nei confronti dei lavoratori, azioni discriminatorie o indebite pressioni. Il punto di partenza rimane l’art. 24 della legge 241/1990 in materia di limiti al diritto di accesso, nella vecchia formulazione e nella nuova stesura a opera dell’art. 16, comma 1, della legge 15/2005. Nel vecchio testo, il Governo era autorizzato a emanare uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità dell’esercizio del diritto di accesso e degli altri casi di esclusione in relazione all’esigenza di salvaguardare, tra l’altro, la riservatezza dei terzi, garantendo comunque agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza fosse stata necessaria per la cura o la difesa dei loro interessi giuridici. Nella nuova formulazione, sia pure con il meccanismo del rinvio al regolamento governativo, il diritto di accesso continua a poter essere negato quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, mentre deve essere comunque garantito quando la conoscenza dei documenti oggetto dell’istanza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici, salvo ritenere consentito l’accesso, nei limiti in cui sia strettamente indispensabile, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari e nei termini di cui all’art. 60 del Dlgs 196/2003 in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Il riferimento normativo deve essere comunque completato con il rinvio alle disposizioni attuative e di dettaglio (ad es. per il ministero del Lavoro si pensi al Dm 757 del 4 novembre 1994 - art. 2, comma 1, lett. c), che, nello specifico, sottrae le dichiarazioni rilasciate in sede ispettiva all’accesso quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi, e ciò in relazione all’esigenza di salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e associazioni). Dal canto suo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, prima della recente rimeditazione del proprio orientamento, si è facilmente mostrata fin troppo attenta alla tutela delle esigenze difensive riconducibili all’art. 24 Cost., ritenendo legittimo l’accesso finalizzato ad acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura di interessi giuridicamente protetti (il cosiddetto accesso difensivo: cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 5/1997; cfr. anche sez. VI, n. 5926/2011; n. 7389/2006; n. 1923/2003 e n. 2366/2002). Tuttavia, ciò non aveva impedito, anche alla luce di una diversa considerazione della normativa costituzionale ed europea, il maturarsi di un orientamento volto a porre in rilievo la tutela della riservatezza quale diritto autonomo, in concorso con la necessità di salvaguardare l’interesse pubblico ad una corretta vigilanza sulla gestione dei rapporti di lavoro, chiaramente messo in crisi e vanificato dalla reticenza nelle dichiarazioni del lavoratore timoroso di subire rappresaglie o intimidazioni (come pure dalla presenza di intenzionali dichiarazioni favorevoli allo stesso datore di lavoro: cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, nn. 736/2009 e n. 1842/2008, nella quale l’accesso è stato negato anche a fronte di una avvenuta cessazione dei rapporti di lavoro). Seppure dettati in relazione all’accesso richiesto da un soggetto diverso rispetto al datore di lavoro diretto (nella specie il co-obbligato solidale), i principi contenuti nella pronuncia n. 863/2014, secondo il Consiglio di Stato, meritano ampia conferma. In particolare, l’ostensione delle dichiarazioni non appare elemento indispensabile per la cura dei propri interessi difensivi quando sia accertata la compiuta conoscenza dei fatti e delle allegazioni contestate mediante la comunicazione del verbale di accertamento relativo alle dette dichiarazioni, considerata anche la possibilità di ottenere ulteriori accertamenti istruttori in giudizio. Dunque, sulla base di una valutazione in fatto, ove l’interessato abbia avuto conoscenza di tutti gli atti di provenienza ispettiva, diventa superfluo l’accesso a quegli atti o documenti che possano contenere notizie acquisite nel corso di attività ispettive quando dalla loro divulgazione possano derivare discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi.

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