Prescrizione quinquennale sulla retribuzione non pagata per mancata applicazione del massimale contributivo
Il credito del lavoratore derivante dalla mancata applicazione del massimale ha natura retributiva e spetta al dipendente nei limiti della prescrizione quinquennale.
La Sezione Lavoro della Cassazione, con l’ordinanza 31508/2022, affronta la questione della mancata applicazione del massimale contributivo (articolo 2, comma 18, della legge 335/1995) sotto il profilo non previdenziale, ma lavoristico, nell'ottica del destinatario della tutela pensionistica, cioè il lavoratore.
La vicenda è molto semplice. In primo grado, il Tribunale condanna il datore di lavoro a restituire all'ex-dipendente le trattenute operate per mancata applicazione del massimale contributivo, per l'intera durata del rapporto di lavoro oltre interessi e rivalutazione. In appello la sentenza viene parzialmente riformata, con applicazione della prescrizione e ricalcolo dell'importo da restituire, considerando che il termine di prescrizione doveva ritenersi sospeso per tutto il periodo in cui il lavoratore aveva conseguito la qualifica dirigenziale e fino alla cessazione del rapporto.
La Cassazione, nell'analisi dell'applicazione del termine di prescrizione in ordine alla sorte delle somme versate in eccesso rispetto al minimale, premette una considerazione di sistema. Nel rapporto contributivo previdenziale trilaterale tra lavoratore, ente previdenziale e datore di lavoro, le questioni che attengono agli obblighi contributivi riguardano datore di lavoro e l'ente. Indirettamente il lavoratore partecipa all'obbligo contributivo, attraverso la previsione della quota a carico, ossia una percentuale (oltre il 9%) di contribuzione che il datore di lavoro versa ma trattiene sulla retribuzione spettante al lavoratore. In ogni caso, il rapporto contributivo rimane circoscritto alle figure del datore di lavoro e dell'ente previdenziale, e il lavoratore non può chiedere la condanna dell'ente al pagamento in suo favore di oneri contributivi che si assumono versati in eccesso dal datore di lavoro, neanche se riguardino la quota a carico.
Ciò premesso, la naturale conseguenza è che il mancato rispetto del massimale contributivo (ossia il versamento di contribuzione in eccesso) produce un inadempimento a carico del datore di lavoro in ordine all'integrità della retribuzione. In poche parole, il credito azionato dal lavoratore ha natura retributiva con la conseguenza che si applica il termine quinquennale di prescrizione previsto dall’articolo 2948, numero 4, del Codice civile (oltre interessi e rivalutazione) e che il diritto può essere fatto valere indipendentemente dalla restituzione al datore di lavoro da parte dell'ente della contribuzione versata in eccesso. Il dipendente può rivolgersi al datore e chiedere il pagamento della percentuale di retribuzione non corrisposta perché indebitamente trattenuta (il lavoratore rivendica la retribuzione piena).
Spostato il fuoco della trattazione sul piano retributivo, anche in questa ottica devono essere affrontate e risolte le questioni che riguardano la prescrizione. Non stiamo infatti parlando di restituzione di somme dovute al lavoratore, come se fossero somme fin dall'origine nella sua disponibilità. Si tratta, invero, di quote di retribuzione che non sono state versate in quanto devolute all'ente previdenziale, sulla base del supposto obbligo contributivo. Sulla questione del decorso del termine di prescrizione, il lavoratore ritiene che debba essere valutato il motivo della mancata attivazione nel recupero di queste somme, applicandosi l'articolo 2935 del Codice civile, che attribuisce rilevanza di fatto impeditivo all'esercizio del diritto (e quindi alla decorrenza della prescrizione) a quello derivante da cause giuridiche che, appunto, ne ostacolino l'esercizio.
Devono quindi essere esclusi gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, rilevanti solo in alcune ipotesi specifiche (articolo 2941 del Codice civile). L'ignoranza del fatto generatore del diritto non costituisce impedimento giuridico, neanche se dovuta a un mero errore commesso dal datore di lavoro in ordine alla sussistenza del massimale. Tuttavia, la giurisprudenza della Cassazione sulla questione ha sempre affermato che l'ignoranza del titolare del diritto è un ostacolo di mero fatto, salvo che la stessa non derivi da un comportamento doloso della controparte (Cassazione 1547/2004).
Infine, in ordine alla decorrenza della prescrizione, la Corte opportunamente rileva che la giurisprudenza di legittimità configura la sospensione del corso della prescrizione del diritto alla retribuzione in costanza di rapporto come dipendente dall'assenza di stabilità reale del rapporto; ove però il rapporto sia cessato, dalla data della cessazione il termine riprende regolarmente a correre, e di questo si deve tener conto per il calcolo complessivo dei termini di prescrizione del diritto a quote di retribuzione non corrisposte.