Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Contestazione disciplinare, specificità<br/>Rifiuto di adempiere ad un ordine del datore e reciproci obblighi di correttezza e buona fede<br/>Licenziamento del dirigente <br/>Ordine di riammissione in servizio e diritto del lavoratore al ripristino della posizione di lavoro <br/>Apprendistato professionalizzante e piano formativo <br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

CONTESTAZIONE DISCIPLINARE, SPECIFICITÀ

Cass. Sez. Lav., 2 maggio 2023, n. 11344

Pres. Raimondi; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric. C.A.; Contror. D.D. S.r.l.

Contestazione disciplinare – Specificità – Informazioni necessarie per individuare il fatto nella sua materialità – Presenza – Necessità

La contestazione dell'addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve, a tal fine, rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o, comunque, comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.

Contestazione disciplinare – Specificità – Valutazione del giudice – Contesto – Rilevanza – Mancata precisazione di alcuni elementi – Espressioni generiche – Ammissibilità – Condizione – Mancata violazione del diritto di difesa

Al fine di valutare il grado di specificità della contestazione, il giudice di merito deve tener conto del contesto in cui i fatti di rilievo disciplinare si collocano, della natura e del contenuto dei fatti medesimi ed accertare se la mancata precisazione di alcuni elementi fattuali (ad esempio di ordine temporale, spaziale o relativi alle esatte parole pronunciate) possa aver determinato un'insuperabile incertezza nell'individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa.

NOTA
La Corte d'appello di L'Aquila, respingendo l'appello proposto dal lavoratore, confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa. In particolare, al dipendente era stato contestato di avere, in una giornata ben precisa, inviato su un gruppo WhatsApp composto da dipendenti della datrice di lavoro, messaggi minacciosi, farneticanti e diffamatori nei confronti della società stessa, di essersi presentato nei locali aziendali in uno stato di alterazione e senza indossare i dispositivi di protezione ed il vestiario necessario per la sicurezza e l'igiene alimentare, e di aver creato agitazione tra i colleghi, con un atteggiamento minaccioso, aggressivo e provocatorio, nonché di essersi rifiutato di lasciare i locali aziendali, rendendo necessario l'intervento dei carabinieri, e di aver continuato ed inviare per tutta la notte messaggi di contenuto minaccioso e ingiurioso al legale rappresentante della società datrice di lavoro, rappresentandogli sabotaggi e danneggiamenti all'azienda. La Corte riteneva che la relativa lettera di contestazione fosse sufficientemente specifica e che le prove raccolte dimostrassero la sussistenza degli addebiti, che erano idonei ad integrare la giusta causa di recesso.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale provvedimento.
Con il primo motivo di ricorso, il dipendente eccepiva la genericità della contestazione, intrisa di espressioni generiche quali «stato di agitazione» e «stato di alterazione» e fosse priva di precise indicazioni sulla collocazione temporale dei fatti contestati, sull'esatto contenuto dei messaggi e sull'identificazione del responsabile gerarchico e dei colleghi coinvolti, così impedendo il pieno esercizio del diritto di difesa e il controllo di legalità che compete al giudice.
Con il secondo motivo, invece, il ricorrente denuncia un difetto di motivazione sulla valutazione delle prove raccolte, sulla materialità delle condotte addebitate, sulla loro rilevanza disciplinare, nonché sulla proporzionalità della sanzione.
Trattando congiuntamente i due motivi di ricorso, la Corte di Cassazione li ritiene non meritevoli di accoglimento.
Innanzitutto, la Corte richiama il principio di diritto per cui la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e, a tal fine, deve essere specifica, fornendo le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare nella sua materialità il fatto che, secondo il datore di lavoro, costituisce un'infrazione disciplinare o, comunque, un comportamento in violazione degli obblighi e dei divieti di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (in tal senso, Cass. 7546/2006, Cass. 10662/2014, Cass. 29240/2017).
Al fine di valutare il grado di specificità della contestazione disciplinare, il Giudice di merito deve tener conto del contesto in cui si collocano i fatti di rilievo disciplinare, nonché la loro natura e contenuto, accertando se la mancata precisazione di alcuni elementi fattuali (ad esempio, di tipo temporale, spaziale, o in relazione alle esatte parole pronunciate) possa aver determinato un'insuperabile incertezza nell'individuazione dei fatti contestati, tale da pregiudicare il diritto di difesa in concreto (in tal senso, Cass. 6889/2018, Cass. 9590/2018).
I suddetti principi erano stati correttamente applicati dalla Corte d'appello che aveva ritenuto sufficientemente circostanziati gli episodi oggetto di contestazione e, di conseguenza, esistenti i requisiti essenziali richiesti dalla giurisprudenza di legittimità ai fini della specificità della contestazione.
La Corte d'appello si era altresì attenuta ai canoni attraverso cui la giurisprudenza di legittimità aveva definito le nozioni legali di giusta causa (Cass. 18715/2016, Cass. 21965/2007, Cass. 25743/2007) e di proporzionalità del licenziamento, avendo altresì valutato correttamente la gravità della condotta del dipendente, sia nel suo complesso sia in relazione ai singoli episodi, sottolineando in particolare il carattere intimidatorio della condotta posta in essere nei confronti dell'amministratore della società datrice di lavoro.
Per le ragioni sopra esposte, il ricorso è rigettato.


RIFIUTO DI ADEMPIERE AD UN ORDINE DEL DATORE E RECIPROCI OBBLIGHI DI CORRETTEZZA E BUONA FEDE

Cass. Sez. Lav. 18 aprile 2023, n. 10227

Pres. Doronzo; Rel. Ponterio; Ric. M.A. e altri; Controric. T. S.p.A.

Sanzione disciplinare – Sospensione dal servizio e dalla retribuzione – Rifiuto di eseguire la prestazione – Legittimità – Limite – Obblighi delle parti di correttezza e buona fede

É legittima la sanzione disciplinare della sospensione irrogata a dei lavoratori per essersi rifiutati di anticipare dalle ore 5.00 alle 4.25 il turno di lavoro notturno, tenuto conto dell'assenza di una concreta lesione alle loro esigenze vitali e delle conseguenze negative sul pubblico trasporto.

NOTA
La fattispecie oggetto del giudizio riguarda la sanzione disciplinare irrogata a quattro dipendenti che si erano rifiutati di prestare servizio prima delle ore 5 nonostante una specifica indicazione del datore di lavoro.
La Corte di appello di Roma respingeva il gravame dei lavoratori avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato legittima la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione ai quattro lavoratori.
In particolare, la Corte territoriale rileva che non era pertinente il richiamo all'articolo 51 del CCNL di categoria in quanto, con tale fonte, le parti sociali hanno solo «limitato la possibilità di contestare l'ordine datoriale [...] alle sole ipotesi di palese contrarietà dell'ordine ai regolamenti e istruzioni aziendali prescrivendo poi l'adempimento ove l'ordine sia stato reiterato per iscritto». Inoltre, giudicava dimostrata la violazione dei doveri previsti dall'art. 2104 c.c., sotto il profilo della diligenza dovuta in relazione alla natura pubblica del servizio di trasporto gestito dal datore di lavoro.
Avverso tale decisione i lavoratori ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che l'ampliamento della fascia oraria di lavoro comportante l'esecuzione della prestazione lavorativa in orario notturno e cioè anche al di fuori della ordinaria programmazione, poteva essere legittimamente prevista se preceduta da una procedura negoziale collettiva.
La Suprema Corte respinge il ricorso, ritenendo immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, e precisa che correttamente quest'ultima «nell'eseguire la valutazione comparativa del comportamento delle parti, alla luce dei reciproci obblighi e dei criteri di correttezza e buona fede, ha posto in risalto il dato per cui l'ordine datoriale di anticipazione dell'orario di lavoro, dalle 5.00 alle 4.25, poggiava su una fonte contrattuale apparentemente valida ed efficace" e pertanto "la richiesta di turno allargato non solo non aveva profili di illiceità penalmente rilevanti, ma era stata rivolta a ciascun lavoratore al massimo in due occasioni, senza quindi pregiudizio per le loro esigenze vitali».


LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE

Cass., Sez. Lav., ord. 18 aprile 2023, n. 10226

Pres. Leone; Rel. Caso; Ric. C.D.L; Contr. D.M. S.p.A.

Dirigente – Licenziamento – Giustificatezza – CCNL Dirigenti Industria – Indennità supplementare – Accordo Interconfederale del 27.4.1995 – Indennità supplementare – Presupposti – Ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale – Sussistenza – Necessità – Motivazione formale del licenziamento – Irrilevanza

L'indennità supplementare al trattamento di fine rapporto prevista per i dirigenti di azienda dall'Accordo interconfederale del 27 aprile 1995 deve essere riconosciuta nel caso in cui il licenziamento del dirigente sia obiettivamente causato da ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale, al di là della motivazione formalmente adottata dal datore di lavoro. Ciò che rileva, sul piano del diritto, è l'effettiva ragione del recesso e il nesso di derivazione causale dello stesso rispetto alle fattispecie giuridiche, di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale, individuate dal citato accordo interconfederale.

NOTA
La Corte d'appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale del medesimo luogo, riteneva giustificato il licenziamento di un dirigente per motivi oggettivi, respingendo la domanda di quest'ultimo di condanna della società all'indennità supplementare prevista dal CCNL Dirigenti Industria, applicato al rapporto di lavoro, nonché, in via subordinata, all'indennità supplementare prevista dall'Accordo Interconfederale del 27.4.1995.
Con riferimento alla domanda svolta in via subordinata, il dirigente sosteneva che il suo licenziamento non era stato motivato – come richiesto dal citato Accordo – sulla base di specifiche fattispecie di ristrutturazione, riconversione ovvero di crisi aziendale di cui alla L. 223/1991.
Avverso tale sentenza il dirigente ha proposto ricorso in Cassazione osservando che la Corte territoriale avesse erroneamente fatto riferimento al solo contenuto della lettera di licenziamento inviata al dirigente e non all' effettiva esistenza delle situazioni di riorganizzazione e crisi aziendale ex L. 223/1991 della società convenuta, oggettivamente e documentalmente provate.
In primo luogo la Cassazione richiama il principio di cui in massima in tema di presupposti per il riconoscimento dell'indennità supplementare di cui all'Accordo Interconfederale del 27.4.1995 e sul fatto che essa debba essere riconosciuta al dipendente nel caso in cui il licenziamento sia obiettivamente causato da ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale, al di là della motivazione formalmente adottata dal datore di lavoro.
Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che la Corte d'appello si sia erroneamente limitata a considerare che il licenziamento del dirigente non era stato motivato – come richiesto dal vigente testo del predetto Accordo – sulla base delle specifiche fattispecie di ristrutturazione, riconversione ovvero di crisi aziendale di cui alla L. 223/91.
Secondo la Cassazione, infatti «l'impugnata sentenza… non considera che la previsione collettiva in questione… fa riferimento, non solo alle ipotesi citate dai giudici d'appello, ma anche a quella della "riorganizzazione". Ebbene, nella sua decisione, in cui non si dà conto in dettaglio del completo motivo posto a base del licenziamento intimato al dirigente, la stessa Corte territoriale comunque parla in narrativa di un licenziamento senza preavviso per "riorganizzazione della società"; vale a dire, di una causale del recesso che potrebbe risultare prima facie corrispondente per l'appunto a quella pure indicata nella fonte collettiva, ed invece trascurata dalla stessa Corte».
Secondo il ragionamento della Cassazione, dunque, la Corte di merito non doveva sottrarsi al compito di accertare l'effettiva ragione del recesso datoriale, al di là della sua motivazione formale, al fine di controllare la sua derivazione causale rispetto a tutte le fattispecie individuate dall'Accordo Interconfederale.
Conclusivamente la Cassazione accoglie il ricorso del dirigente, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.


ORDINE DI RIAMMISSIONE IN SERVIZIO E DIRITTO DEL LAVORATORE AL RIPRISTINO DELLA POSIZIONE DI LAVORO

Cass. Sez. Lav., 3 maggio 2023, n. 11564

Pres. Raimondi; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric L.M.; Controric. Omissis S.p.A.

Riammissione in servizio – Ordine giudiziale – Ripristino della posizione di lavoro – Medesime mansioni e stesso luogo – Necessità – Trasferimento in altra attività produttiva – Ammissibilità – Condizioni – Ragioni organizzative e produttive – Sostituzione con altro lavoratore – Esclusione

L'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, tra le quali non rientra la sostituzione del lavoratore licenziato con altro, sostituzione che deve ritenersi provvisoria e condizionata al definitivo rigetto della richiesta giudiziale.

NOTA
La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda la legittimità del trasferimento di una dipendente ad una diversa unità produttiva in esecuzione di un ordine di riammissione in servizio della stessa da parte della società datrice di lavoro.
La lavoratrice ricorrente aveva lavorato dal 13.3.2000 presso la sede di Roma, in forza di contratti interinali e con mansioni di addetta alla segreteria; con sentenza della Corte d'appello di Roma emessa in separato procedimento e confermata dalla Corte di Cassazione era stato dichiarato costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con diritto della lavoratrice, oltre all'indennità risarcitoria, «al ripristino nel posto di lavoro precedentemente occupato». La società datrice di lavoro aveva inizialmente e provvisoriamente assegnato la dipendente presso la sede di Roma e con successivo provvedimento l'aveva trasferita presso la sede di Palermo. Avverso tale provvedimento aveva fatto ricorso la lavoratrice. La Corte d'appello di Roma aveva giudicato legittimo il trasferimento dato che:
i.la dipendente non aveva contestato in modo specifico l'avvenuta soppressione della unità produttiva a cui la stessa era stata addetta presso la sede di Roma;
ii.la società aveva dimostrato l'impossibilità di destinare la dipendente presso l'originaria sede di lavoro, poiché le nuove assunzioni in tale sede avevano riguardato mansioni diverse da quelle della ricorrente, mentre i dipendenti con le stesse mansioni avevano maggiore anzianità;
iii.la società aveva anche dimostrato le esigenze tecnico produttive esistenti presso la sede di Palermo atte a giustificare il trasferimento;
iv.non poteva ritenersi integrata la violazione dell'articolo del CCNL applicato al rapporto di lavoro che per i lavoratori di età superiore ai 55 anni di età richiede il consenso al trasferimento, perché la datrice di lavoro aveva dimostrato come il trasferimento costituisse l'unica possibilità di evitare il licenziamento.
Avverso tale sentenza, la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione.
La Corte Suprema, dapprima, ribadisce il principio per cui «l'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro (ma le stesse considerazioni valgono per le ipotesi di interposizione illecita), implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive (...)». Principio – osserva la Corte di cassazione – a cui la Corte territoriale non si è attenuta, non avendo tenuto conto delle mansioni precedentemente svolte dalla lavoratrice nel corso del primo contratto interinale e avendo omesso di verificare l'adempimento da parte datoriale dei relativi oneri di allegazione e prova su questo aspetto.
La Corte Suprema prosegue, poi, affermando che la Corte d'appello non si è conformata al giudicato della sentenza precedente anche laddove ha fatto leva sulla presenza, negli uffici di Roma, di altri dipendenti con le stesse mansioni della dipendente, ma con maggiore anzianità di servizio, ai fini di valutare l'impossibilità di riassegnare la lavoratrice nel posto originario e l'esistenza di esigenze legittimanti il trasferimento. Infatti, sul punto, la giurisprudenza di legittimità è conforme nel ritenere che «l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione ex L. n. 300 del 1970, art. 18, ricostituendo "de iure" il rapporto – da considerare, quindi, come mai risolto – ne ripristinano integralmente l'originario contenuto obbligatorio, comprendente anche il diritto del lavoratore a riassumere le abituali mansioni nel posto di lavoro occupato anteriormente. Pertanto, l'eventuale attribuzione del suddetto posto ad altro dipendente in sostituzione del lavoratore licenziato – che abbia impugnato l'atto di recesso – deve essere considerata provvisoria perché condizionata alla definitiva reiezione giudiziale della suddetta impugnativa. Ne consegue che, sopravvenuto l'ordine di reintegrazione, il datore di lavoro, quali che siano gli impegni assunti nei confronti del sostituto, deve in via prioritaria riammettere il lavoratore licenziato nel suo originario posto di lavoro e non può allegare l'avvenuta sostituzione come esigenza organizzativa per trasferire in altra sede di lavoro il dipendente reintegrato».
La Corte di Cassazione, ritiene altresì fondati, alla luce di tali principi, i motivi di ricorso della dipendente relativi alla violazione dell'art. 2103 c.c., considerato che la Corte d'appello di Roma aveva ritenuto legittimo il trasferimento della lavoratrice presso la sede di Palermo sulla base dell'impossibilità di ri-adibirla presso la sede originaria di lavoro e della sussistenza delle esigenze tecnico produttive presso la sede di Palermo.
Infine la Corte ha ritenuto fondata anche la denuncia di violazione dell'articolo del CCNL secondo cui il trasferimento del lavoratore che abbia compiuto i 55 anni di età (come la ricorrente) può avvenire solo con il suo consenso, in ragione del fatto che le considerazioni sopra svolte privano di contenuto la motivazione adottata dalla Corte di merito, secondo cui il consenso non era nel caso di specie necessario poiché la datrice di lavoro ha dimostrato che il trasferimento era l'unico strumento per evitare il licenziamento.
Pertanto, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.


APPRENDISTATO PROFESSIONALIZZANTE E PIANO FORMATIVO

Cass. Sez. Lav., 24 aprile 2023, n. 10826

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; P.M. Fresa; Ric.ti G. C. e T. M.; Contr. E.A.I. S.p.A.


Apprendistato professionalizzante – Forma scritta – Requisito ad substantiam Piano formativo esterno e non contestuale al contratto – Esclusione – Ratio – Finalità formativa – Elemento essenziale del contratto

Nel contratto di apprendistato professionalizzante la forma scritta costituisce un requisito ad substantiam e la finalità formativa (rectius, l'acquisizione di una specifica qualifica per il tramite del piano formativo) impone che anche le indicazioni di cui alla lettera a) comma 4 dell'art. 49 d. lgs. n. 276/2003 (ratione temporis), tra le quali il piano formativo individuale, abbiano forma scritta. In tal senso il piano formativo non può essere contenuto in un documento esterno al contratto e non temporalmente ad esso contestuale.

NOTA
La Corte d'appello di Milano, decidendo in sede di rinvio, rigettava la domanda proposta da due lavoratori con la quale era stata dedotta l'invalidità, per difetto dei requisiti, formali e sostanziali, dei contratti di apprendistato stipulati con la società.
In particolare, la Corte d'appello riteneva rispettati, rispetto alla posizione di entrambi i lavoratori, i requisiti formali di validità del contratto di apprendistato e provato il rispetto degli obblighi formativi, sia interni che esterni.
Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, lamentando in particolare, con il primo motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 49, comma 4, d. lgs. n. 276/2003 (applicabile ratione temporis) laddove la sentenza impugnata ha ritenuto valido il contratto inter partes nonostante i piani formativi non fossero stati sottoscritti contestualmente al contratto medesimo.
La Corte di cassazione ritiene fondato il motivo di ricorso.
Innanzitutto la Suprema Corte ricorda che in tema di apprendistato (così come anche in tema di contratto di formazione lavoro) la dottrina prevalente e la consolidata giurisprudenza della medesima Corte concordano nel delineare una «fattispecie di contratto connotato da una causa mista in quanto prevedente a fronte della prestazione di lavoro l'obbligo datoriale di corrispondere una retribuzione e di fornire un addestramento finalizzato all'acquisizione di una specifica qualifica» (Cass. n. 17373/2017, Cass. n. 2365/2020).
Per quanto riguarda, in particolare, il contratto di apprendistato professionalizzante, la Suprema Corte evidenzia la previsione della «forma scritta del contratto, contenente indicazione della prestazione oggetto del contratto, del piano formativo individuale, nonché della eventuale qualifica che potrà essere acquisita al termine del rapporto di lavoro sulla base degli esiti della formazione aziendale od extra-aziendale» (lett. a), comma 4, dell'art. 49 del d.lgs. n. 276/2003). Sicché, secondo la Suprema Corte, analogamente a quanto ritenuto per il contratto di formazione lavoro, anche per l'apprendistato professionalizzante la finalità formativa costituisce uno degli elementi essenziali di tale tipo di contratto, giustificando una disciplina speciale, «anche dal punto di vista formale». A ciò consegue, secondo la Corte di cassazione, che la forma scritta costituisca un requisito ad substantiam per la stipula di un valido contratto di apprendistato professionalizzante che deve «necessariamente» contenere anche il piano formativo individuale ai sensi della disciplina sopra richiamata.
Ciò premesso, la Suprema Corte affronta il tema specifico posto dal motivo di ricorso, ossia se il piano formativo possa essere contenuto in un documento esterno al contratto e non temporalmente ad esso contestuale.
La Corte di Cassazione dà risposta negativa al quesito evidenziando, da un lato, che il dato testuale dell'art. 49 del d.lgs. n. n. 276/2003 non contemplava tale possibilità, e, da altro lato, che è l'elemento formativo a qualificare la causa stessa del contratto di apprendistato professionalizzante «e ciò rende particolarmente stringente la necessità che la volontà negoziale del lavoratore, nell'accedere al tipo contrattuale in questione, si formi sulla base della piena consapevolezza del percorso formativo proposto e della sua idoneità a consentire l'acquisizione della qualifica alla quale l'apprendistato è finalizzato». Questa soluzione, secondo la Corte di Cassazione, è quella «maggiormente idonea a prevenire abusi della parte datoriale nella concreta configurazione del percorso formativo, una volta che il piano formativo individuale risulti cristallizzato nel documento contrattuale e non in un documento esterno al contratto».
Accolto per quanto sopra il motivo di ricorso, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione.

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