Rassegna della Cassazione
Licenziamento disciplinare e recidiva
Svolgimento di attività extralavorativa durante la malattia
Nozione di mobbing
Infortunio sul lavoro e responsabilità de datore
Contestazione disciplinare e presunzione di conoscenza
Licenziamento disciplinare e recidiva
Cass. Sez. Lav.25 gennaio 2018, n. 1909
Pres. Napoletano; Rel. Leo; P.M. Ghersi; Ric. C.D.; Controric. C.L. s.c.a.r.l.;
Licenziamento disciplinare - Recidiva - Elemento costitutivo della fattispecie - - Sussistenza - Mancata contestazione disciplinare della recidiva - Nullità
La preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve necessariamente riguardare, a pena di nullità della sanzione disciplinare, anche la recidiva e i precedenti disciplinari che la integrano, solo quando larecidiva rappresenti un elemento costitutivo della mancanzaaddebitata e non già un mero criterio, quale precedente negativo della condotta, dideterminazione della sanzione proporzionata da irrogare per l’infrazionecommessa.
Nota
Una dipendente di una cooperativaveniva licenziata per giusta causa sulla base di una contestazione disciplinare con la quale le veniva addebitata l’assenza ingiustificata per un giorno. Nel mese precedente, la stessa lavoratrice aveva ricevuto un’altra contestazione disciplinare per essersi assentata, senza giustificazione, per tredici giorni.
Il Tribunale di Milanorigettava il ricorso della lavoratrice volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte d’Appello confermava tale decisione, ritenendo sussistente la giusta causa di recesso alla luce delgenerale comportamento della dipendente e, in particolare, delle precedenti assenze ingiustificate.
La lavoratrice ricorreva in Cassazione; la cooperativaresisteva con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale che, tuttavia, è stato considerato inammissibile.
La ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 193 del CCNL imprese distribuzione cooperativa, degli artt. 2106 e 2119 c.c. 2103 c.c.nonché dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori,sostenendo l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha valutato, ai fini della proporzionalità del licenziamento per giusta causa, precedenti disciplinari non espressamente contestati, né richiamati, nell’ultima contestazione disciplinare.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato tale motivo di ricorso, cassando con rinvio la sentenza impugnata, in applicazione del principio di diritto - costantemente ribadito dai giudici di legittimità - secondo cui quando la recidiva rappresenta un elemento costitutivo dell’addebito, quest’ultima, unitamenteai precedenti disciplinari che la integrano, deve essereespressamente indicata nella contestazione disciplinare. E ciò a pena di nullità della sanzione disciplinare. Non è invece necessario contestare la recidiva quando viene presa in considerazione solo quale precedente negativo dell’addebito contestato e, quindi, quale mero criterio di determinazione della proporzionalità della sanzione da applicare per il fatto contestato.
Al fine di individuare la natura costitutiva o meno della recidiva, occorre far riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva. Il CCNL applicato nel caso di specie prevedeva le seguenti sanzioni: multa, fino a tre giorni di assenza ingiustificata nell’anno solare; sospensione dallavoro e dalla retribuzione, in caso di assenza fino a quattro giorni; il licenziamento, in caso di assenza superiore a quattro giornio di recidiva oltre la terza volta nell'anno solare. In conseguenza di tale disposizione la Corte di Cassazione ha concluso che la recidiva rappresentasse un elemento costitutivo dell’addebito per il quale era possibile al licenziamento e che, quindi, dovesse essere formalmente contestata alla dipendente.
Svolgimento di attività extralavorativa durante la malattia
Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2018, n. 1173
Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.T.S. S.p.A.; Controric.I.C.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - giusta causa - Dipendente assente per malattia - Svolgimento contestuale di attività extralavorativa - Violazione dei doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione - Configurabilità - Criteri - Fattispecie
L'espletamento di attivitàextralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione ed a giustificare il recesso del datore di lavoro solo laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardare la guarigione.
Nota
Il caso di specie riguarda il licenziamento di un lavoratore che, durante un periodo di assenza per malattia (dovuta ad una distorsione al ginocchio), aveva svolto attività che, a detta della società, erano pregiudizievoli alla guarigione.
Il licenziamento veniva dichiarato illegittimo sia in primo che secondo grado. Nello specifico, la Corte d’Appello riteneva che non fosse stata raggiunta la prova del fatto che la condotta del lavoratore, durante la convalescenza, fosse stata tale da compromettere o ritardare la guarigione e che la moderata attività fisica svolta da quest’ultimo (brevi passeggiate e bagni di mare) non era incompatibile con le terapie di recupero prescrittegli dal medico che lo aveva in cura. La Corte di merito riteneva, in definitiva, che il lavoratore non avesse tenuto, durante il periodo di convalescenza, alcun comportamento che per le sue caratteristiche si ponesse in violazione dei doveri di buona fede e correttezza cui il lavoratore deve attenersi anche durante la malattia, né che fosse ravvisabile una negligenza nel seguire i protocolli terapeuticistabiliti dal medicocurante.
La Corte di Cassazione, adita dalla società, ne ha respinto il ricorso, affermando innanzitutto che la condotta del lavoratore che, in ottemperanza alle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbiaripreso a compiere attività della vita privata - la cui gravosità non sia comparabile aquella di una attività lavorativa piena - senza svolgere un’ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni del datore di lavoro (cfr. in tal senso Cass. n. 17625/2014).
Ed infatti l'espletamento di altra attività,lavorativa oextralavorativa, da parte del dipendente durante lo stato di malattia èidoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimentodell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavorosolo laddove si riscontri chel'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore allapropria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione (cfr. Cass. n. 9474/2009). Sul punto, aggiunge la Corte di Cassazione, è il datore di lavoro ad essere onerato della prova che, in relazione alla natura degliimpegni lavorativi attribuiti al dipendente, il comportamento tenuto da quest’ultimo durante il periodo di malattia contrasti con gli obblighi di buonafede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello, con adeguata valutazione delle prove assunte (ivi inclusa la consulenza medica disposta in primo grado),haritenuto che le attività svolte dal dipendente, durante il periodo di malattia, non avessero compromesso né ritardato la ripresa dell’attività lavorativa.
Nozione di mobbing
Cass. Sez. Lav. 20 dicembre 2017, n. 30606
Pres. Amoroso; Rel. Cinque; P.M.Celentano; Ric. E.T. S.r.l.; Controric. C.G.;
Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Mobbing - Nozione - Requisiti della condotta lesiva del datore di lavoro
Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Nota
La Corte di appello di Trento ha confermato la pronuncia del Tribunale che aveva accertato la condotta mobbizzante della società a discapito del lavoratore condannando la stessa al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno.
Per la Corte nel corso del giudizio di primo grado: 1) era stato dimostrato il motivo che aveva causato la reazione ed il conseguente inizio di diverso di atteggiamento da parte della società e, cioè, la scelta del lavoratore di rivolgersi all'organizzazione sindacale per la tutela dei propri interessi; 2) era emerso che lo spostamento di reparto, disposto nei confronti del lavoratore, era risultato privo di giustificazione e pregiudizievole sotto il profilo patrimoniale; 3) era stata provata l’emarginazione del dipendente con isolamento dello stesso nell'ambito del lavoro; 4) vi era stato un abusivo esercizio del potere disciplinare da parte della società; 5) era stato altresì dimostrato l'intento persecutorio che avrebbe indotto il lavoratore a rassegnare le dimissioni.
Avverso la pronuncia della Corte di appello di Trento proponeva ricorso in Cassazione la società contestando alla Corte di aver erroneamente ritenuto sussistere l’elemento soggettivo della fattispecie del mobbing ovvero l’intento persecutorio del datore di lavoro.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione la Corte territoriale si è correttamente attenuta nell'esame della fattispecie, ai parametri normativi elaborati in tema di mobbing dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi: b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.
Insiste la Cassazione che in tema di onere della prova la Corte di merito si è adeguata, facendone corretta applicazione, al criterio per cui incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, mentre ricade sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla condotta datoriale.
Con particolare riferimento al caso in esame per la Suprema Corte il Tribunale avrebbe correttamente deciso, avendo individuato il motivo che aveva causato la reazione di parte datoriale, analizzato oggettivamente gli episodi con riguardo alla emarginazione del dipendente e all'abusivo esercizio del potere disciplinare, valutando nello specifico i singoli provvedimenti edinfine ritenuto provato l'elemento psicologico, il nesso causale e il danno patito.
Infortunio sul lavoro e responsabilità de datore
Cass. Sez. Lav. 5 gennaio 2018, n. 146
Pres. Amoroso; Rel. De Gregorio; P.M. Celentano; Ric. F.F.; Controric.I. s.p.a.;
Infortunio sul lavoro - Attività successive ed estranee alla prestazione assegnata - Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Insussistenza
Alla stregua dell’art. 2087 c.c. non è ipotizzabile a carico dell’imprenditore un obbligo di sicurezza e prevenzione anche in relazione a condotte del dipendente che, pur non rientranti nella nozione di inopinabilità e di abnormità, siano state poste in essere successivamente al compimento della prestazione lavorativa richiesta, perché non rientranti nella suddetta prestazione e perché effettuate senza darne allo stesso preventiva comunicazione secondo le direttive impartite. Corollario di tale principio è che la parte datoriale non incorre nella responsabilità di cui alla norma codicistica per non avere fornito le attrezzature necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore nello svolgimento della non prevista prestazione né di non avere esercitato il controllo sulla conseguente esecuzione nel rispetto dei paradigmi di sicurezza legislativamente richiesti.
Nota
La Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sentenza di rigetto della richiesta di un operaio di accertamento della responsabilità per l’infortunio sul lavoro occorsogli con condanna della società al risarcimento dei conseguenti danni. Nel far proprio l’iter motivazionale del Tribunale, i giudici del gravame hanno ritenuto che il ricorrente fosse venuto meno all’obbligo - su di lui gravante - di fornire la prova del fatto costituente l’inadempimento della società e della correlazione causale di tale inadempimento col danno subito.
In istruttoria era, infatti, emerso che il ricorrente, senza previamente comunicare alcunchè, aveva posto in essere un’operazione ulteriore e non prevista rispetto alla sua prestazione, mentre vi era l’obbligo di interpellare il personale addetto nel caso di sopravvenienza, nel corso dell’attività lavorativa, di un ostacolo imprevisto. Nè, tantomeno, l’infortunato aveva chiesto alla società l’invio sul posto di strumentazione idonea allo svolgimento in sicurezza dell’operazione non prevista, il che escludeva una violazione da parte della datrice di lavoro dell’obbligo di vigilanza sull’osservanza delle misure protettive da parte dei dipendenti. Parimenti, secondo la Corte territoriale, non poteva configurarsi un inadempimento all’obbligo di mettere a disposizione attrezzature adeguate al lavoro, essendo emerso che la società aveva collocato una piattaforma aerea in un altro cantiere e che essa era disponibile in caso di richiesta da parte del personale interessato ad effettuare con urgenza l’operazione da cui era conseguito l’infortunio.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, tutti esaminati congiuntamente e respinti dalla Suprema Corte che, nel pervenire all’affermazione del principio di cui alla massima, fornisce una serie di precisazioni in ordine alla responsabilità del datore per gli infortuni sul lavoro, circoscrivendone i limiti e puntualizzando i rispettivi oneri probatori.
La Cassazione in primis ricorda che l’obbligo di sicurezza dell’imprenditore è previsto, con contenuto tipico, dalla dettagliata disciplina di settore concernente gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali ed, in generale, con contenuto atipico e residuale, dall’art. 2087 c.c. (Cass. 17 febbraio 2009, n.3788;Cass. 21 febbraio 2004 n.3498) che si pone come norma di chiusura del sistema antinfortunistico. L’art. 2087 cod. civ., peraltro, non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3288). Conseguentemente, ex art. 1218 c.c., il lavoratore che lamenti di aver subito un danno da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno ed il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. La parte danneggiata è, quindi, soggetta all’onere di allegare e dimostrare, oltre all’esistenza del fatto materiale, le regole di condotta che assume essere state violate, provando che è stato posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (Cass. 11 aprile 2013, n. 8855).
Secondo la Suprema Corte i giudici del gravame si sono conformati a tali principi, avendo riscontrato che l’infortunio in esame è occorso dopo la conclusione della prestazione assegnata e nel corso dello svolgimento da parte del dipendente di un’ulteriore operazione non prevista,effettuata, peraltro, senza interpellare parte datoriale e senza richiedere la fornitura della strumentazione idonea a svolgerla in sicurezza. Ciò esclude la violazione da parte del datore sia dell’obbligo di mettere a disposizione strumenti ed attrezzature adeguate - risultate esistenti e a disposizione - sia dell’obbligo di vigilanza, trattandosi di attività esulante dalla prestazione richiesta.
Del tutto correttamente, quindi, la Corte d’Appello ha negato che vi fosse stato un inadempimento datoriale causalmente correlato con il danno subito dal lavoratore e/o una violazione dell’obbligo di vigilanza sull’osservanza delle misure di sicurezza atte a preservare l’incolumità dei lavoratori.
Contestazione disciplinare e presunzione di conoscenza
Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2018, n. 1632
Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. W.C. s.r.l.; Controric. M.N.;
Contestazione disciplinare - Art. 1335 c.c. - Presunzione di conoscenza - Prova dell’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario - Necessità
La presunzione di conoscibilità di un atto giuridico recettizio richiede la prova, anche presuntiva, ma avente i requisiti di cui all'art. 2729 cod. civ. (gravità, univocità e concordanza), che esso sia giunto all'indirizzo del destinatario; sicché, in caso di contestazione, la prova della spedizione attraverso il servizio postale non è di per sé sufficiente a fondare la presunzione di conoscenza, salvo il caso in cui, per le modalità di trasmissione dell'atto (raccomandata, anche senza avviso di ricevimento, o telegramma), ed in considerazione dei particolari doveri di consegna dell'agente postale, si possa presumere che l’atto sia giunto nel luogo di destinazione.
Nota
La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda proposta dal lavoratore, intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli, per omessa notifica della lettera di contestazione da parte della società datrice di lavoro.
In particolare, la Corte territoriale confermava la sentenza gravata nella parte in cui i giudici di prime cure avevano ritenuto che non fosse stata fornita prova della ricezione della lettera di contestazione da parte del lavoratore.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società, sulla base di quattro motivi.
La società ricorrente denunciava, tra l’altro, la violazione degli artt. 1335 e 2697 c.c., sostenendo che la sentenza impugnata avesse errato nel ritenere non provata la ricezione della contestazione di addebito da parte del dipendente, dovendo ritenersi configurabile nella specie la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c.. Parte ricorrente sosteneva, inoltre, che la prova dell’avvenuta ricezione della contestazione di addebito poteva ricavarsi dalla lettera con la quale un sindacalista aveva avanzato la richiesta di assistere il lavoratore in relazione ad una ricevuta contestazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto precisato che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 25 settembre 2014, n. 20167), lapresunzione di conoscibilità di un atto giuridico recettizio richiede laprova, anche presuntiva, ma avente i requisiti di cui all'art. 2729 cod.civ. (gravità, univocità e concordanza), che esso sia giunto all'indirizzo del destinatario; sicché, in caso di contestazione, la prova dellaspedizione attraverso il servizio postale non è di per sé sufficiente afondare la presunzione di conoscenza, salvo il caso in cui, per lemodalità di trasmissione dell'atto (raccomandata, anche senza avvisodi ricevimento, o telegramma), ed in considerazione dei particolari doveri di consegna dell'agente postale - che, nella specie,non erano stati neppure dedotti, ancor prima che provati -, si possa presumere che l’atto sia giunto nel luogo di destinazione.
Con specifico riferimento al caso concreto, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva correttamente ritenuto, sulla base di un adeguato accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, che non era risultato provato ilrecapito presso l'effettivo domicilio o la residenza del lavoratore, e/o l'avvenuta conoscenza del contenuto preciso della contestazione da parte dello stesso.
Sotto altro profilo, la Suprema Corte ha osservato che neppure poteva trarsi prova della ricezione della lettera di contestazione da parte del lavoratore dalla lettera con la quale un sindacalista aveva chiesto di assistere il dipendente in relazione ad una contestazione disciplinare.
Ed infatti, la circostanza che il lavoratore possa avere avuto cognizione diuna lettera di contestazione disciplinare,indirizzata nei suoi confronti, non vale ad assolvere alla funzione propria della contestazione medesima, consistente nel garantire la precisa e chiara conoscenza degli addebiti contestati, del luogo e del momento in cui essi si sarebbero realizzati,oltre che delle relative modalità.