Contenzioso

Rassegna della Cassazione

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Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare e diritto di critica
Tardività della contestazione disciplinare
Pubblico impiego e trasferimento per incompatibilità ambientale
Licenziamento collettivo e unità produttive

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 8 febbraio 2017, n. 3378

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric.V.R.; Controric. P. S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Previsione dei contratti collettivi - Tassatività - Esclusione - Valutazione del giudice di merito - Criteri di accertamento - Fattispecie

L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei CCNL, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Nota

La Corte di Appello di Firenze confermava la pronuncia del Tribunale che aveva respinto la domanda d'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al dipendente della società che prestava servizio come addetto alla cassa.

Secondo la Corte nel corso del giudizio era stato accertato che il dipendente, durante la malattia (duplice frattura costale composta) aveva quasi quotidianamente (per l'intera mattinata o per l'intero orario di apertura), prestato lavoro presso l'edicola di giornali del padre, sollevando e abbassando la saracinesca, movimentando cassette di giochi e pacchi di giornali e salendo sulla tettoia dell'edicola per effettuare lavori di pulizia a braccia alte. La Corte ha ritenuto dimostrata la patente negligenza del dovere di collaborazione che incombe sul dipendente al fine di riprendere il proprio servizio nel più breve termine possibile dopo un infortunio.

Avverso la sentenza della Corte di Appello, ha proposto ricorso in Cassazione il dipendente contestando che il licenziamento era stato comunicato in violazione dei principi di gradualità e proporzionalità nell'applicazione delle sanzioni disciplinari. Infatti, secondo il dipendente, gli articoli 220 e 225 del CCNL Terziario non prevedrebbero ipotesi di licenziamento disciplinare riconducibile alla fattispecie in esame.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso.

Infatti, per la Cassazione, la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che lo svolgimento di attività lavorativa incompatibile con lo stato di malattia e la conseguente lesione del dovere di collaborazione che incombe sul dipendente avessero definitivamente compromesso il legame di fiducia tra il dipendente e la società.

Licenziamento disciplinare e diritto di critica

Cass. Sez. Lav. 17 gennaio 2017, n. 996

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. C.F. S.p.a.; Controric. A.C.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del prestatore di lavoro - Obbligo di fedeltà - Esercizio del diritto di critica da parte del dipendente - Modalità - Rispetto dei limiti di continenza sostanziale e formale - Necessità - Violazione - Conseguenze - Licenziamento disciplinare - Legittimità - Fattispecie

Il diritto di critica esercitato dal dipendente può avere rilevanza disciplinare laddove non avvenga nel rispetto del principio di continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e di continenza formale (secondo cui l'esposizione dei fatti deve avvenire senza eccedere quanto strettamente necessario e con osservanza della correttezza e civiltà delle espressioni utilizzate).

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice che, secondo il datore di lavoro, aveva tenuto un comportamento diffamatorio nei confronti della società. Nello specifico, il fatto contestato alla lavoratrice concerneva l'avvenuta sottoscrizione di un esposto alla Procura della Repubblica ed al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con cui aveva duramente criticato la società poiché, nonostante fosse in continua crescita economica, aveva fatto ricorso impropriamente a procedure di CIGS e di mobilità, realizzando gli estremi di una truffa a danno dello Stato.

La domanda della lavoratrice di impugnazione del licenziamento veniva rigettata in primo grado e successivamente accolta dalla Corte d'Appello.

In particolare, la Corte d'Appello osservava che l'esposto sottoscritto dalla lavoratrice concerneva circostanze già discusse in sede aziendale e sindacale e che si risolveva, quindi, in una richiesta di vaglio di una situazione già nel pubblico dibattito. Quanto poi alle modalità espressive, queste non potevano essere considerate di per sé offensive.

Ricorre per Cassazione la società, lamentando che l'esposto sottoscritto dalla dipendente esulava dai limiti dell'esercizio di un legittimo potere di critica, travalicando i canoni della verità oggettiva e della continenza formale che delimitano l'esercizio del menzionato diritto, contrastando quindi con i doveri fondamentali di diligenza e di fedeltà che governano l'adempimento della prestazione lavorativa.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito il consolidato principio secondo cui l'obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia nell'obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creano situazioni di conflitto con gli interessi dell'impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso (ex plurimis, Cass. n.16000/2009).

Ciò premesso, la Corte ha poi affermato che il diritto di critica deve rispettare il principio della continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e quello della continenza formale (secondo cui l'esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente), precisando al riguardo che, nella valutazione del legittimo esercizio di tale diritto, il requisito della continenza c.d. formale, comportante anche l'osservanza della correttezza e civiltà delle espressioni utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturata, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite. Nell'ottica descritta, è quindi necessario andare alla ricerca di un bilanciamento dell'interesse che si assume leso con quello a che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantito.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale si è attenuta ai suddetti principi, procedendo ad una ricostruzione puntuale della condotta posta in essere dalla lavoratrice, e rimarcando come i fatti segnalati alla autorità giudiziaria riecheggiavano il contenuto di quelli già divulgati dalla stampa e discussi in sedi istituzionali, traducendosi nell'istanza di vaglio di una condizione di massiccio ricorso della società agli ammortizzatori sociali, pur a fronte di un andamento estremamente positivo della attività produttiva aziendale. Il profilo contenutistico del diritto di critica esercitato si palesava, quindi, coerente con i canoni sostanziali entro i quali tale diritto andava esercitato.

La Corte di merito, peraltro, non ha mancato di considerare che l'esposto sottoscritto dalla lavoratrice, pur nell'asprezza di taluni passaggi, era stato stilato nel rispetto dei canoni di continenza formale, giacché l'uso di termini quali "illecito" o "truffa" era da ritenersi strettamente correlato a quei dati dei quali l'opinione pubblica era a conoscenza da tempo e compatibile con il contesto in cui era inserito, ossia di una richiesta di intervento di tipo tecnico alle autorità competenti.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Tardività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 31 gennaio 2017, n. 2513

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; P.M. Ceroni; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. S.N.

Rifiuto del trasferimento da parte del lavoratore - Assenza ingiustificata - Contestazione disciplinare dopo 15 mesi dal rifiuto - Illegittimità licenziamento - Insussistenza del fatto - Reintegrazione ex art. 18, co. 4 S.L.

Un fatto non tempestivamente contestato ex art. 7 Legge 300/1970 non può che essere considerato come "insussistente", trattandosi di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice la possibilità che il Giudice possa accertare la sussistenza o meno del "fatto", e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche a fini delle scelta tra i vari regimi sanzionatori. In altri termini, il fatto non idoneamente contestato ex art. 7 è tanquam non esset e quindi "insussistente" ai sensi dell'art. 18 Legge 300/1970.

Nota

A seguito di una sentenza della Corte d'Appello di Roma che, riformando la decisione di primo grado, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, una lavoratrice, dopo la riammissione in servizio, veniva trasferita presso una sede ubicata in una diversa regione, in applicazione di un accordo sindacale. La dipendente rifiutava di dare seguito al trasferimento e, pertanto, non prendeva mai servizio presso la sede di assegnazione. Il datore di lavoro, 15 mesi dopo il rifiuto della lavoratrice, contestava l'assenza ingiustificata e recedeva dal rapporto di lavoro.

Il Tribunale di Cassino rigettava il ricorso della lavoratrice volto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento subito e alla reintegrazione nel posto di lavoro. Tale decisione veniva confermata dal medesimo Tribunale nella successiva fase di opposizione.

La Corte d'Appello di Roma, in accoglimento del reclamo della lavoratrice, dichiarava invece illegittimo il recesso datoriale, ordinando la reintegrazione della ricorrente ai sensi dell'art. 18, co. 4 S.L., con condanna della società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità. E ciò in ragione dell'abnorme tardività della contestazione disciplinare, da valutarsi anche alla luce della previsione del CCNL applicato che consentiva il recesso per giusta causa oltre 60 giorni consecutivi di assenza arbitraria dal servizio.

Avverso tale sentenza la società ricorreva in Cassazione; la dipendente resisteva con controricorso.

La società lamentava violazione e falsa applicazione del CCNL nonché dell'art. 7 S.L., sostenendo che la lavoratrice era stata licenziata, non per il rifiuto del trasferimento, bensì per assenza ingiustificata, con la conseguenza che si trattava di un illecito permanente, ancora in essere al momento della contestazione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, affermando che l'assenza ingiustificata era stata contestata oltre un anno dopo i 60 giorni di assenza che, ai sensi del CCNL, giustificavano il recesso per giusta causa e quindi con un ritardo abnorme e totalmente privo di ragioni, con conseguente violazione dell'art. 7 S.L. che impone l'immediatezza della contestazione. La Suprema Corte ha altresì escluso la configurabilità di un illecito continuato/permanente, sostenendo che l'assenza ingiustificata doveva considerarsi perfezionata allo scadere del termine di 60 giorni previsto dalla contrattazione collettiva.

Con il secondo motivo di ricorso, la società lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 7 S.L. legge 300/1970, in quanto dalla tardività della contestazione non era comunque scaturito alcun effettivo pregiudizio al diritto di difesa della lavoratrice. La Suprema Corte ha rigettato anche tale motivo di ricorso, affermando che l'abnorme ritardo della contestazione disciplinare è di per sé suscettibile di compromettere il diritto di difesa della dipendente, la quale, in caso di tempestiva contestazione, avrebbe potuto porre al centro del giudizio anche le questioni relative al trasferimento, questioni certamente più difficili da ricostruire dopo che era trascorso oltre un anno dal trasferimento.

Del pari infondato è stato ritenuto anche il terzo motivo di ricorso, avente ad oggetto violazione e falsa applicazione dell'art. 18 S.L. La società sosteneva infatti che la violazione dell'art. 7 S.L. avrebbe comportato l'applicazione della tutela indennitaria (tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità) di cui al comma 6, non la tutela reintegratoria di cui al comma 4. La Suprema Corte ha invece affermato che il fatto non idoneamente contestato ex art. 7 è tanquam non esset e quindi "insussistente" ai sensi a dell'art. 18 Legge 300/1970 e ciò in contrasto con svariati precedenti della stessa Corte (da ultimo Cass. 26 agosto 2016, n. 17371, in cui viene affermato che in caso di licenziamento disciplinare illegittimo per tardività della contestazione, la conseguenza sanzionatoria è la tutela risarcitoria di cui all'art. 18, co. 6 S.L. e non quella reintegratoria).

Si può quindi concludere che il principio affermato non possa essere inteso in senso assoluto, ma solo laddove il ritardo della contestazione sia abnorme, tenuto anche conto della facilità di accertamento dell'illecito disciplinare.

Pubblico impiego e trasferimento per incompatibilità ambientale

Cass. Sez. Lav. 27 gennaio 2017, n. 2143

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Celentano; Ric. M.G.; Controric. C.C.

Trasferimento per incompatibilità ambientale - Ragioni tecniche, organizzative e produttive - Corrispondenza con le finalità addotte a giustificazione del provvedimento - Legittimità

In caso di trasferimento per incompatibilità ambientale, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, non può essere esteso al merito della scelta organizzativa, ma deve essere diretto soltanto ad accertare se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità che la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro ha posto a suo fondamento, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.

Rapporto di lavoro pubblico - Mutamento di mansioni - Disciplina art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 - Applicabilità - Professionalità in concreto acquista - Irrilevanza

Nel rapporto di lavoro pubblico non si applica l'art. 2103 c.c. essendo la materia disciplinata compiutamente dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 che assegna rilievo al solo criterio della equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai CCNL indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle mansioni acquisite.

Nota

La Corte di appello di Campobasso confermava la pronuncia resa dal giudice di primo grado con la quale era stata respinta la domanda proposta da un dipendente comunale, ed avente ad oggetto l'impugnativa del trasferimento dal servizio di polizia giudiziaria a quello di controllo del traffico e della mobilità, disposto dal Comune di Campobasso, per ragioni di incompatibilità ambientale.

A fondamento della sentenza, la Corte di appello rilevava che la misura del trasferimento per incompatibilità ambientale non ha natura di sanzione disciplinare, bensì ha lo scopo di tutelare il buon funzionamento dell'ufficio ed è, pertanto, giustificabile in presenza di una situazione lesiva del prestigio o del corretto funzionamento dell'amministrazione, che sia riferibile alla presenza in loco del dipendente e che, al contempo, sia suscettibile di rimozione attraverso l'assegnazione del dipendente medesimo ad altra sede. La Corte territoriale osservava, inoltre, che tale istituto è espressione di una potestà ampiamente discrezionale del datore di lavoro, in ordine ai fatti che possono sconsigliare la permanenza del lavoratore in una determinata sede, con la conseguenza che deve ravvisarsi la legittimità del trasferimento nel caso in cui la Pubblica Amministrazione, con congrua motivazione, evidenzi la sussistenza di un nesso di correlazione tra la situazione indotta dal comportamento del dipendente e la permanenza del medesimo nella stessa sede di lavoro. Applicando tali principi al caso di specie la Corte di appello riteneva, pertanto, del tutto congrua la motivazione addotta dalla Pubblica Amministrazione a sostegno del provvedimento, tenuto conto che la determina dirigenziale in oggetto era stata giustificata dai fatti rilevati a carico del ricorrente, in relazione ai quali era in corso un'indagine penale, consistiti, in particolare, nell'aver fatto un utilizzo indebito della password di accesso al computer dell'ufficio, assegnata ad un collega, per visitare siti pornografici.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il dipendente, affidato a tre motivi.

Il ricorrente, in primo luogo, denunciava erronea e contraddittoria motivazione della pronuncia impugnata nella parte in cui la Corte di Appello aveva ritenuto giustificato il mutamento di mansioni con una incompatibilità ambientale, nonché omessa motivazione, su un punto decisivo della controversia, costituito dalla natura ritorsiva e discriminatoria del provvedimento adottato. Il ricorrente denunciava, inoltre, violazione dell'art. 52, d.lgs. n. 165/2001, per avere la Corte di appello omesso di considerare che, in caso di mutamento di mansioni, ai fini del rispetto dell'equivalenza richiesta dall'art. 2013 c.c., non è sufficiente la mera conservazione della posizione gerarchica acquisita, occorrendo che le nuove mansioni siano tali da salvaguardare il livello professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

In particolare, la Suprema Corte ha osservato che il trasferimento per incompatibilità ambientale soggiace alla disciplina di cui all'art. 2103 c.c., e che la sua adozione è subordinata ad una valutazione discrezionale dei fatti che possono fare ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell'ufficio, l'ulteriore permanenza dell'impiegato in una determinata sede. Secondo quanto statuito dalla Suprema Corte, in tali casi, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità che la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro ha posto a suo fondamento. Tale controllo, non può essere esteso al merito della scelta organizzativa, né questa deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo (in tale senso cfr. Cass. 23 febbraio 2007, n. 4265).

Con specifico riferimento al fatto che le nuove mansioni non fossero, a detta del ricorrente, tali da salvaguardare il livello professionale acquisito, la Corte ha ricordato che nel rapporto di lavoro pubblico non si applica l'art. 2103 c.c. essendo la materia disciplinata compiutamente dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 che assegna rilievo al solo criterio della equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai CCNL indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle mansioni acquisite.

La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto che la Corte territoriale avesse fatto corretta applicazione dei suesposti principi di diritto al caso in esame, avendo evidenziato che gli elementi acquisiti al giudizio erano idonei a suffragare il pregiudizio derivante al regolare svolgimento del servizio per la presenza in sede dell'impiegato incompatibile.

Licenziamento collettivo e unità produttive

Cass. Sez. Lav. 17 gennaio 2017, n. 982

Pres. Bronzini; Rel. Della Torre; P.M. Sanlorenzo; Ric. L.B.D + altri; Controric. S. s.p.a.

Licenziamento collettivo - Limitazione dei recessi ad una sola unità produttiva/reparto/settore - Condizioni - Sussistenza esigenze tecniche, organizzative, produttive - Legittimità - Onere prova incombente sul datore di lavoro

In tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore, ove ricorrano oggettive esigenze tecnico produttive, restando onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta eÌ stata effettuata.

Nota

La Corte d'Appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato la legittimità del licenziamento collettivo intimato ad un gruppo di lavoratori per riduzione di personale. Secondo la Corte territoriale la società aveva adeguatamente provato che la restrizione dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilitaÌ soltanto a quelli in servizio presso la sede di Palermo (rispetto al più ampio complesso aziendale) fosse sostenuta da precise esigenze tecnico, produttive e organizzative. In particolare la società aveva dato atto e dimostrato l'avvenuto recesso dal contratto per la fornitura di servizi di vigilanza da parte di una società committente locale cui erano addetti oltre 50 dipendenti nonché la circostanza che il decreto prefettizio per l'autorizzazione allo svolgimento dell'attività di guardia giurata ha efficacia limitata al solo territorio provinciale di competenza dell'autorità che lo emana, richiedendosi, per l'eventuale rilascio di un nuovo titolo relativo ad un diverso ambito territoriale, un'attesa non inferiore a novanta giorni.

Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso per Cassazione censurandola sotto svariati profili e la società ha resistito con controricorso.

La Suprema Corte, dopo aver dichiarato l'improcedibilità del ricorso per mancato deposito nei termini di legge, ha altresì precisato che tutti i motivi sono comunque inammissibili e/o infondati.

Limitando l'esame a quanto qui di interesse, con la massima citata la Cassazione ha ribadito un principio già sancito in precedenti anche recenti (Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 gennaio 2015, n. 203; Cass. 11 dicembre 2012, n. 22655; Cass. 20 febbraio 2012, n. 2429) reputando corretta la valutazione operata dal giudice del merito laddove ha ritenuto che la società avesse assolto all'onere di dimostrare che la restrizione dell'ambito di operatività dei recessi (e, conseguentemente, dell'applicazione dei criteri di scelta) ad una sola unità operativa fosse giustificata da concrete esigenze tecniche e produttive. La Corte territoriale ha, cioè, correttamente rilevato che tale limitazione è avvenuta non in base ad una determinazione arbitraria ed estemporanea della società, bensì a valle di una ponderata predeterminazione del campo di applicazione della selezione, giustificata dalle esigenze tecniche, organizzative e produttive che avevano dato luogo alla riduzione di personale.

Ulteriore interessante precisazione della Cassazione attiene alla definizione del momento in cui si colloca tale selezione, avendo i giudici di legittimità precisato che la limitazione dei licenziamenti a solo una delle unitaÌ operative (in luogo della loro estensione all'intero complesso aziendale) non integra uno dei criteri di scelta le cui modalità applicative devono essere oggetto di comunicazione ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, ma si colloca "a monte" rispetto all'applicazione di tali criteri, definendo l'ambito soggettivo cui essi devono trovare applicazione. Tale ultima affermazione, non viene purtroppo, in sentenza ulteriormente sviluppata, tuttavia sembra costituire un interessante precedente soprattutto in tema di conseguenze sanzionatorie in ipotesi di violazione.

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