Contenzioso

Retribuzione, nessun diritto soggettivo alla parità tra lavoratori

di Valeria Zeppilli

L'articolo 36 della Costituzione detta dei requisiti ben precisi che le retribuzioni corrisposte ai lavoratori devono rispettare per essere considerate adeguate: quelli riconducibili ai principi di proporzionalità e sufficienza.

In assenza di un salario minimo legale, il parametro per verificare il rispetto dei predetti requisiti è da tempo rinvenuto dalla giurisprudenza nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Tuttavia, ancora oggi non sempre vi è chiarezza su quando effettivamente una retribuzione possa dirsi conforme ai principi dettati dall'articolo 36 e la Corte di cassazione è quindi chiamata frequentemente a svolgere un ruolo interpretativo di primario rilievo in tale ambito.

Ultimamente i giudici di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 25 marzo 2019, numero 8299), dopo aver ribadito che rispetto alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi vi è una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza, ha precisato che tale presunzione «investe le disposizioni economiche dello stesso contratto anche nel rapporto interno fra le singole retribuzioni ivi stabilite».

Con ciò, sostanzialmente, la Corte ha voluto dire che l'inadeguatezza di una retribuzione può essere accertata solo sulla base del parametro costituzionale e che quindi non è possibile a tal fine fare riferimento a una singola disposizione del contratto collettivo che prevede per alcuni lavoratori un trattamento differente rispetto a quello previsto per gli altri. La valutazione di adeguatezza va fatta, per i giudici, con riferimento ai soli elementi che ne formano il tetto minimo e non a tutti gli elementi e gli istituti contrattuali che in essa confluiscono.

Per comprendere meglio la portata della decisione della Cassazione, occorre considerare che la controversia aveva a oggetto la previsione di una retribuzione corrisposta a un lavoratore per i primi 15 mesi di rapporto a tempo indeterminato in maniera inferiore a quella dei colleghi.

Affermando la validità di tale scelta datoriale, l'ordinanza ha sancito che il lavoratore subordinato non ha alcun diritto soggettivo alla parità di trattamento in materia retributiva e che quindi, specie se il trattamento differenziato si giustifica in ragione di un dato oggettivo di carattere temporale, non è possibile affermare che la circostanza che un dipendente goda di un certo beneficio economico sia un titolo idoneo a giustificare la pretesa del medesimo beneficio o del risarcimento del danno di un altro lavoratore.

Mettendo a tacere ogni dubbio in proposito, la Cassazione ha colto una simile occasione per affermare un ulteriore fondamentale principio, valido anche sotto altri aspetti del rapporto di lavoro, ovverosia che il giudice non può validamente operare alcun controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia sotto il profilo del rispetto delle clausole generali di buona fede e correttezza, clausole che non possono essere invocate dinanzi a ipotesi di diversità di trattamento che non sono riconducibili alle discriminazioni vietate legali e tipizzate.

La sola eccezione a tale "regola" va ravvisata nel caso in cui il rispetto delle predette clausole derivi dalla necessità di comparare le situazioni dei singoli lavoratori al fine di operare una scelta tra gli stessi nell'ambito di una procedura concorsuale o selettiva.

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