Rassegna di Cassazione
Licenziamento disciplinare
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta
Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale
Riduzione dell'orario lavorativo e relativo onere probatorio
Indici della subordinazione nel lavoro giornalistico
Licenziamento disciplinare
Cass. Sez. Lav. 10 giugno 2019, n. 15566
Pres. Nobile; Rel. Lorito; Ric. L.T.; Controric. N. S.p.A.
Lavoro subordinato - Licenziamento individuale – Licenziamento disciplinare - Recidiva prevista dalla contrattazione collettiva come motivo di licenziamento - Valutazione in concreto della gravità dei singoli fatti addebitati – Necessità - Potere del giudice di accertare la proporzionalità della sanzione – Sussistenza
La previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di licenziamento non esclude il potere-dovere del giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva, ai sensi degli artt. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, 2119 cod. civ. e 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
NOTA
La Corte di Appello confermava la legittimità del licenziamento disciplinare comminato al lavoratore al quale era stata contestata una mancanza e la recidiva, nella medesima mancanza, consistente in tre precedenti procedimenti disciplinari conclusi con sanzioni conservative. Per la Corte la sola recidiva era sufficiente per ritenere valido il licenziamento, in linea con quanto previsto dal CCNL applicato.
Avverso la sentenza proponeva ricorso il lavoratore e la Cassazione lo ha accolto.
Per la Suprema Corte il licenziamento non può essere irrogato automaticamente per recidiva solo perché previsto nella contrattazione collettiva. La valutazione del giudice di merito circa la proporzione della sanzione espulsiva rispetto ai fatti addebitati essendo sempre necessaria. Secondo la Corte deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo sempre il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Cassazione, il Tribunale e la Corte di merito avevano errato nel considerare sufficiente la previsione della contrattazione collettiva della recidiva in successive mancanze disciplinari come ipotesi di licenziamento, dal momento che tale previsione non può escludere il potere-dovere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva.
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta
Cass. Sez. Lav. 21 maggio 2019, n. 13649
Pres. Nobile; Rel. Ponterio; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.T. S.r.l.; Controric. P.A.;
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta - Obbligo di verifica della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nel luogo di lavoro - Necessità - Sussiste
In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte "ratione temporis" alla applicazione dell'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell'art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall'interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.
La Corte di appello di Catanzaro confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società datrice e condannato la stessa alla reintegra del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.
In punto di fatto la Corte territoriale premetteva che il dipendente, rientrato al lavoro nell'ottobre 2005, dopo un grave infortunio sul lavoro occorso nel 2004, era stato giudicato dal medico competente inidoneo "allo stato attuale" alle mansioni di autista ed adibito ai compiti di aiuto meccanico presso l'officina aziendale. La Corte di appello rilevava, inoltre, che nel dicembre 2007, poiché il lavoratore era stato dichiarato permanentemente inidoneo alle mansioni di autista, la società gli aveva offerto il ruolo di addetto alle pulizie con riduzione dell'orario di lavoro ma, a fronte del rifiuto dello stesso, aveva intimato il licenziamento per sopravvenuta permanente inidoneità fisica alle mansioni di autista.
Secondo la sentenza di appello, la scelta della datrice di lavoro di creare una apposita postazione lavorativa di ausilio al personale dell'officina aziendale, a seguito della accertata inidoneità del lavoratore a svolgere le mansioni di autista, costituiva adempimento dell'obbligo posto a carico della società dall'art. 1, comma 7, L. n. 68 del 1999 (confermato dall'art. 42, D.Lgs. n. 81 del 2008).
La Corte territoriale riteneva, pertanto, che il licenziamento intimato sulla base del presupposto, non più attuale, della definitiva inidoneità del lavoratore alle mansioni di autista, dovesse ritenersi illegittimo, avendo la società assegnato il dipendente fin dall'ottobre 2005 a mansioni diverse, compatibili con la residua capacità lavorativa.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società affidato a due motivi.
La società eccepiva che la Corte di appello aveva erroneamente sussunto la fattispecie oggetto di causa nelle diposizioni di cui alla legge n. 68 del 1999, benchè il lavoratore non fosse stato mai giudicato invalido o disabile, atteso che nei confronti dello stesso era stata solo accertata dal medico competente l'inidoneità alla mansioni per le quali era stato assunto.
La società ricorrente riteneva, inoltre, che la Corte di merito avesse fatto erronea applicazione dell'art. 42 del D.Lgs. n. 81 del 2008 in relazione ad una fattispecie di licenziamento (del 7.3.2008), verificatasi in epoca anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 (avvenuta il 15.5.2008).
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto premesso che l'ordinamento italiano non contiene una nozione unitaria di disabilità, bensì definizioni aventi valenza medico - sanitaria, dettate da differenti testi normativi. L'unificazione della nozione di disabilità, in un significato essenzialmente sociale, deve attribuirsi alla legislazione sovranazionale, ed esattamente alla Direttiva 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione, nel cui ambito di applicazione, secondo quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità, deve farsi rientrare la fattispecie del licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni (cfr. in tal senso Cass. 19 marzo 2018, n. 6798).
La Suprema Corte ha chiarito che sebbene la nozione di handicap non sia definita nella direttiva 2000/78, la Corte di Giustizia ha pacificamente inteso tale nozione, alla luce della Convenzione dell'ONU, come relativa ad una "limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori" (cfr. anche Cass. 26 ottobre 2018, n. 27243; Cass. 9 settembre 2016, n. 17867).
La Suprema Corte ha altresì rilevato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, l'articolo 5 della direttiva 2000/78, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, impone agli Stati membri di stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato.
Il legislatore italiano, nel recepire l'obbligo previsto dall'art. 5 della direttiva 2000/78/CE, con la legge n. 99 del 2013 (articolo 9, comma 4 - ter) ha aggiunto all'articolo 3 del D.Lgs. n. 216 del 2003 il comma 3 bis, del seguente tenore: "Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente".
Sulla base di tali premesse, con la succitata sentenza n. 6798 del 2018, la Suprema Corte ha statuito che "In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte "ratione temporis" alla applicazione dell'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell'art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall'interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5".
Applicando tali principi al caso concreto, la Suprema Corte ha ritenuto che la possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nel luogo di lavoro, al fine di garantire al dipendente, divenuto disabile in conseguenza di un grave infortunio sul lavoro, la piena eguaglianza con gli altri lavoratori, era stata accertata in fatto dalla Corte di merito sulla base della stessa condotta datoriale che, al rientro del dipendente a lavoro, aveva individuato una mansione compatibile con le residue capacità del predetto e con la sua professionalità.
La Suprema Corte ha, dunque, rilevato che del tutto correttamente i giudici di merito avevano ritenuto illegittimo il licenziamento intimato dalla società per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni di autista, sulla base di un duplice ordine di ragioni: per essere la motivazione del recesso non attuale, atteso che il dipendente nel 2008 non svolgeva più da anni le mansioni di autista; inoltre, per avere la società dimostrato di poter adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con le menomazioni fisiche, il che coincide con gli accorgimenti ragionevoli esigibili in base alla ricostruzione del contesto normativo interno e sovranazionale precedentemente operata, e risulta dirimente ai fini dell'esclusione della violazione di legge denunciata.
Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale
Cass. Sez. Lav. 4 giugno 2019, n. 15167
Pres. Nobile; Rel. Arienzo; P.M. Cimmino; Ric. C. S.r.l.; Controric. D.L.; U.A. S.p.A.; INAIL;
Lavoro subordinato – Infortunio sul lavoro – Responsabilità del datore di lavoro – Colpa – Necessità – Definizione – Mancato utilizzo dispositivi di protezione da parte del lavoratore – Obbligo di vigilanza del datore di lavoro -Necessità
L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all'esperienza ed alla tecnica, pur non potendo da detta norma desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati.
In capo al datore di lavoro permane l'obbligo di vigilare sull'effettivo operato dei dipendenti, non potendo essere ragione di esonero totale da responsabilità l'eventuale concorso di colpa del dipendente infortunato, se non quando la sua condotta rappresenti la causa esclusiva dell'evento.
NOTA
Un operaio di un'impresa addetta alla costruzione e manutenzione di impianti elettrici, nell'agosto 2005, rimaneva vittima di un incidente durante dei lavori di manutenzione, riportando delle ustioni a seguito di una folgorazione ad alta tensione. L'INAIL quantificava le conseguenti invalidità, sia temporanee, sia permanenti, nella misura del 45%.
Al fine di ottenere la condanna dell'azienda al pagamento del c.d. danno differenziale, il lavoratore agiva in giudizio avanti al Tribunale di Potenza. Il giudice di primo grado rigettava integralmente la domanda, ascrivendo l'infortunio alla condotta esclusiva del lavoratore che, pur essendosi accorto, durante le operazioni di manutenzione, della presenza di un campo magnetico anomalo, aveva continuato a salire sul traliccio.
La Corte d'appello riformava tale pronuncia, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno poiché l'infortunio era stato causato dalla condotta negligente del capo-squadra che aveva omesso non solo di controllare che l'impianto di messa a terra fosse stato realizzato correttamente ma anche di ordinare al lavoratore di desistere dal salire sul traliccio, non appena accortosi del campo magnetico, al fine di verificarne la messa in sicurezza. I giudici di secondo grado, inoltre, non evidenziavano alcuna iniziativa anomala del lavoratore, tale da interrompere il nesso causale con le sopra evidenziate omissioni datoriali, ma solo una condotta imprudente concausa dell'evento infortunistico nella misura del 10%, consistente nella decisione di salire comunque sul traliccio.
Avverso tale decisione ricorreva in cassazione l'azienda; il lavoratore resisteva con controricorso.
La Suprema Corte ha confermato la sentenza di appello, ribadendo il principio di diritto (già affermato, tra le altre, da Cass. 24742/2018; Cass.12863/2004 e Cass. 2209/2016) secondo cui l'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all'esperienza ed alla tecnica, pur non potendo da detta norma desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati. È stato inoltre chiarito che in capo al datore di lavoro permane l'obbligo di vigilare sui dipendenti, non potendo essere ragione di esonero totale da responsabilità l'eventuale concorso di colpa del dipendente infortunato, se non quando la sua condotta rappresenti la causa esclusiva dell'evento.
Riduzione dell'orario lavorativo e relativo onere probatorio
Cass. Sez. Lav. 29 maggio 2019, n. 14684
Pres. Nobile; Rel. Arienzo; P.M. Cimmino; Ric. D.N.; Controric. S.C.D.L. S.c.s.;
Lavoro subordinato - Orario di lavoro - In genere - Rapporto di lavoro a tempo pieno - Riduzione dell'orario di lavoro - Prova del consenso del lavoratore per facta concludentia - Ammissibilità - Fattispecie
Il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno; è, pertanto, onere del datore di lavoro, che alleghi la durata limitata dell'orario, fornire la prova della riduzione della prestazione lavorativa, né la sua diminuzione può essere unilateralmente disposta dal datore di lavoro, potendo conseguire soltanto ad accordo tra le parti, la cui prova, tuttavia, può essere data per "facta concludentia".
NOTA
Il caso di specie riguarda la riduzione dell'orario lavorativo disposta da una cooperativa nei confronti di alcuni soci lavoratori, al fine di evitare licenziamenti.
Una delle socie lavoratrici adiva successivamente il giudice del lavoro al fine di ottenere il pagamento delle differenze retributive maturate in relazione al maggiore orario lavorativo contrattualmente previsto (38 ore settimanali) a fronte del minore orario lavorato di 36 ore.
La Corte d'appello di Cagliari rigettava la domanda della lavoratrice, rilevando che dall'istruttoria era emerso che la riduzione dell'orario lavorativo era stata predisposta ed accettata da tutti i soci lavoratori e che, peraltro, la lavoratrice aveva anche accettato il ruolo di referente per la predisposizione della turnazione in base al nuovo orario lavorativo ridotto, senza esprimere alcuna riserva.
La Corte di Cassazione, adita dalla lavoratrice, ha rilevato innanzitutto che il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell'orario di lavoro ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della prestazione lavorativa (cfr. Cass. n. 5518/2004).
Quanto alla variazione in diminuzione dell'orario lavorativo, la Corte ha rilevato che il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre l'orario lavorativo, mentre ciò è ovviamente possibile previo accordo tra le parti. Inoltre, in merito alla prova di un tale accordo, il differente regime formale del rapporto a tempo pieno rispetto a quello a tempo parziale comporta una diversa e coerente modulazione dell'onere della prova: esso può, infatti essere assolto, quanto alla modifica delle originarie condizioni contrattuali, per facta concludentia e ciò anche se il contratto sia stato stipulato per iscritto (cfr. Cass. n. 1375/2018).
Ciò premesso, prosegue la Corte, il giudice di secondo grado ha correttamente applicato i suddetti principi, individuando, quale fondamento della riduzione dell'orario lavorativo, un accordo accettato da tutti i soci della cooperativa e non una decisione assunta unilateralmente dal datore di lavoro, peraltro difficilmente identificabile in una società cooperativa.
Per tali motivi la Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice.
Indici della subordinazione nel lavoro giornalistico
Cass. Sez. Lav. 11 giugno 2019, n. 15610
Pres. Nobile; Rel. Pagetta; P.M. Cimmino; Ric. A. s.p.a.; Controric. S.C.;
Lavoro giornalistico - Indici della subordinazione - Collaboratore fisso - Differenze con il redattore – Fattispecie
Nell'ambito del lavoro giornalistico il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa di talché, ai fini dell'individuazione del vincolo della subordinazione, rileva specificamente l'inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell'organizzazione d'impresa, l'avere assicurato, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un'esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, con il permanere nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, la disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore di lavoro
NOTA
La Corte d'Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accertato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con inquadramento del ricorrente nella qualifica di collaboratore fisso ex art. 2 CNLG condannando la società al pagamento delle conseguenti differenze retributive, respingendo, invece, la domanda attorea volta ad ottenere un risarcimento danni per asserito demansionamento.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo ed il lavoratore ha resistito con controricorso proponendo, a sua volta, ricorso incidentale.
La Suprema Corte rigetta il ricorso principale affermando il principio di cui alla massima, conforme alla giurisprudenza consolidata da lungo tempo (Cass. 7 ottobre 2013 n. 22785; Cass. 2 aprile 2009 n. 8068; Cass 12 febbraio 2008 n. 3320; Cass. 6 marzo 2006 n. 4770; Cass. 9 aprile 2004 n. 6983; Cass. 29 novembre 2002 n. 16997). In particolare, secondo la Cassazione, gli elementi valorizzati dal giudice di merito - costante messa a disposizione delle energie lavorative in funzione della soddisfazione sistematica di una specifica esigenza informativa della testata giornalistica, continuità di collaborazione, soggezione alle direttive della datrice di lavoro stante la possibilità del redattore di chiedere la modifica e la correzione o anche la riscrittura degli articoli - sono del tutto coerenti con i precedenti di legittimità in argomento. Del pari corretta la mancata valorizzazione di alcune circostanze, quali l'assenza di uno specifico orario di lavoro ed il fatto che il ricorrente non fosse tenuto a chiedere di assentarsi per le ferie (in quanto in questi casi egli lasciava un numero di articoli da pubblicare giornalmente), secondo la consolidata giurisprudenza irrilevanti, in presenza dei tre elementi principali sopra detti, al fine di escludere la natura subordinata del rapporto.
La Suprema Corte rigetta anche il ricorso incidentale, evidenziando la correttezza della sentenza del giudice territoriale laddove ha escluso la riconducibilità del rapporto in questione alla figura del redattore, essendo principio consolidato quello per cui, ai fini del riconoscimento della qualifica di redattore, è imprescindibile il requisito della quotidianità della prestazione in contrapposizione alla semplice sua continuità, caratterizzante la figura del collaboratore fisso, mentre non è di per sé sufficiente lo svolgimento di compiti propri di ogni attività giornalistica. Secondo l'indirizzo consolidato la qualifica di redattore si caratterizza per il particolare tipo di notizie richieste e per il particolare inserimento nell'organizzazione e programmazione necessaria per la formazione del prodotto finale, con prestazione dell'attività lavorativa quotidiana e con l'osservanza di un orario di lavoro (Cass. 13 novembre 2018 n. 29182; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3037; Cass. 9 marzo 2004 n. 4797).
Infine, sempre in esame del ricorso incidentale la Cassazione afferma che correttamente i giudici del merito hanno escluso il demansionamento per il solo fatto della dedotta diminuzione del numero di collaborazioni prestate dal ricorrente a far tempo da una certa data, non essendo rinvenibile, né nella legge, né nelle pattuizioni collettive, il diritto del collaboratore ad un certo numero di pezzi annuo.
Entrambi i ricorsi vengono, quindi, respinti.