Contenzioso

Autonomia e indipendenza degli avvocati degli enti pubblici

di Silvano Imbriaci

Due importanti decisioni del Consiglio di Stato (Sez. VI, 23 dicembre 2016, n. 5447 e n. 5448) ribadiscono la necessità che agli avvocati dipendenti di enti pubblici, iscritti nell'elenco speciale (art. 23 della legge professionale forense, n. 247/2012), siano garantite, nell'esercizio delle loro attività, autonomia e indipendenza non solo di giudizio ma anche funzionale rispetto agli apparati amministrativi nei quali sono incardinati.

Le sentenze nascono da alcuni ricorsi proposti dagli avvocati dell'Inps (anche tramite la loro organizzazione associativa) con i quali erano state impugnati alcuni provvedimenti organizzativi dell'Istituto idonei a determinare pesanti ricadute sulla sfera di autonomia riservata agli stessi avvocati, per effetto dell'attribuzione, in sintesi, delle funzioni di coordinamento e gestione delle attività professionali legali alle Direzioni Regionali e Provinciali sul territorio.

Nell'affrontare il decisivo profilo dello status degli avvocati dipendenti di enti pubblici, il Consiglio di Stato muove dalla premessa che si ritrova in tutte le pronunce in materia: la natura bifronte dell'avvocato dipendente, che veste il ruolo di professionista e di avvocato incardinato, e che, come tale, deve rendere conto di questa sua duplice natura nei rapporti con l'amministrazione (cfr. Corte Cost. n. 928/1988).

I presupposti normativi da cui trarre i principi guida in materia sono costituiti dalla vecchia legge sulla professione di avvocato del 1933 (RDL 27 novembre 1933, n. 1578), in particolare l'art. 3, comma 4, norma che, seppur scritta in negativo (ipotesi derogatoria al principio generale della incompatibilità tra avvocato e lavoro dipendente), ha da sempre costituito per tutta la giurisprudenza in materia intervenuta negli anni successivi, la base su cui costruire i fondamentali concetti di autonomia e indipendenza dell'avvocato dell'ente, oltre che di esclusività della funzione e divieto di assegnazione a mansioni di tipo amministrativo e non professionale; dall'art. 15 della l. n. 70/1970, (norma valida solo per i legali del c.d. parastato) contenente la formale e fondamentale statuizione del principio della diretta responsabilità degli avvocati incardinati non verso la struttura amministrativa, ma, solo verso il vertice decisionale/politico (legale rappresentante); dall'art. 19 del d.p.r. n. 346/1983 (anche questa norma riferita solo ai legali degli enti), disposizione spesso misconosciuta ma di fondamentale importanza in quanto: 1) sancisce il principio del necessario supporto tecnico-amministrativo per gli uffici legali degli enti e dell'idonea dotazione di mezzi strumentali; 2) contiene l'indicazione della necessaria regolamentazione interna delle questioni che riguardano il rapporto di lavoro; dalla nuova legge professionale forense (in particolare l'art. 23 l. n. 247/2012), la cui importanza sta, tra le altre cose, nella traduzione in termini normativi dei principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base della vecchia legge professionale e in alcune importanti indicazioni sulla necessaria autonomia ed indipendenza del singolo avvocato e degli uffici nei quali si svolge l'attività professionale, rispetto alla struttura dell'ente in cui sono inseriti (requisiti che devono essere garantiti in sede contrattuale), nonché sul trattamento economico (adeguato allo svolgimento di funzioni professionali) e sul divieto di interposizione gerarchica nei rapporti tra coordinatore dell'ufficio (avvocato) e suoi componenti (avvocati), ponendo quindi immediatamente in un quadro di dubbia legittimità l'attribuzione, anche solo formale, della qualifica di dirigente agli avvocati dipendenti (come avviene in molti casi).

Su queste basi normative e di principio è possibile dunque distinguere un profilo strutturale, regolato da un duplice rapporto con l'amministrazione: un contratto di lavoro con il quale l'avvocato è inserito nell'organizzazione dell'ente, e un contratto di prestazione d'opera, con cui il legale mette a disposizione dell'ente, in via esclusiva, la prestazione d'opera professionale; e un profilo funzionale, dominato dall'esercizio di attività professionale anche all'esterno (ius postulandi), legittimata dall'iscrizione all'albo professionale. Non possono, quindi, essere pretermessi gli aspetti attinenti all'autonomia e all'indipendenza e che costituiscono la diretta conseguenza dell'iscrizione dell'avvocato dipendente all'albo di categoria (principi che riguardano tutti gli avvocati, anche del libero foro). Sebbene, proprio per il fatto che l'avvocato è incardinato, il datore di lavoro, ente pubblico, possa legittimamente esercitare i poteri discrezionali che gli competono in questa veste, tali poteri – anche organizzativi - trovano quale limite invalicabile sul piano funzionale il rispetto dell'autonomia nell'esercizio della professione. In altre parole, anche nelle disposizioni che riguardano il rapporto di lavoro (presenza, obblighi, disciplina), occorre tener conto della natura professionale dell'attività svolta, nel senso che le regole sul rapporto di lavoro non possono mai eludere la necessaria autonomia e indipendenza connotante la funzione professionale tipica dell'avvocato dipendente di ente pubblico (cfr., per un precedente in termini, CDS, Sez. V, n. 138/2012; cfr. anche CDS Sez. V, 14 febbraio 2012 n. 730, secondo cui “indubbiamente, l'Ufficio legale è sempre un ufficio dell'Amministrazione e non può sottrarsi alle indicazioni degli organi di vertice, nel senso di agire al di fuori di quelle indicazioni: ma tali indicazioni non possono mai intaccare la visione autonoma delle vicende che sono sottoposte alla sua cognizione”). Tutto ciò in conformità ai principi generali in materia enunciati dalle leggi professionali e dalla normativa che riconduce la responsabilità dell'avvocato direttamente al vertice decisionale dell'ente e non alla struttura amministrativa dirigenziale.

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