Il danno da stress non può essere verosimile
Il risarcimento per mobbing richiede che il lavoratore provi il nesso di causalità
Per l'accertamento della sussistenza di danni conseguenti a mobbing non è sufficiente allegare una documentazione medica che indichi come «verosimile» la natura lavorativa di una patologia, soprattutto se questa si limita a riportare circostanze riferite dal lavoratore; è necessario fornire elementi di prova aggiuntivi, senza i quali il danno non può ritenersi provato.
Il Tribunale di Cosenza (sentenza 557/2023), con questa rigorosa interpretazione sull'onere della prova, respinge la domanda formulata da una lavoratrice volta a ottenere il risarcimento dei danni biologici e materiali subiti, a suo dire, come diretta conseguenza di una condotta mobbizzante. Questa lavoratrice, che svolgeva mansioni di responsabile di negozio, era tenuta a spostarsi fuori sede con grande frequenza per partecipare a riunioni organizzate dall'azienda, per l'allestimento di nuovi punti vendita, per la formazione di nuovi store manager o per effettuare inventari, con orari che potevano arrivare fino a 14 ore giornaliere.
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della lavoratrice, partendo dalla considerazione che la domanda proposta risultava eccessivamente generica. La sentenza rileva, in particolare, che la presunta condotta vessatoria viene descritta nel ricorso introduttivo del giudizio in modo generico, in contrasto con la necessità, espressa dalla giurisprudenza, di definire con precisione quali sono i comportamenti posti in essere, con intento persecutorio, contro la vittima del mobbing in modo ripetuto nel tempo.
Altrettanto generica, secondo il Tribunale, risulta la prova del collegamento (il cosiddetto nesso eziologico) tra la condotta mobbizzante e il danno alla salute. Per provare tale collegamento la lavoratrice si era, infatti, limitata a chiedere al giudice di disporre una Ctu che accertasse e quantificasse la sussistenza di tali lesioni; la richiesta è stata rigettata dal Tribunale in quanto avrebbe avuto la finalità, inammissibile, di verificare circostanze non provate con altri mezzi.
In particolare, la sentenza critica in maniera serrata la documentazione medica prodotta dalla lavoratrice, ritenuta del tutto inadeguata a dimostrare l'origine lavorativa della sindrome depressiva di cui soffriva.Il giudice fa notare come, in questa certificazione medica, il riferimento all'ambiente lavorativo viene solo riferito dalla paziente al medico; solo occasionalmente, in un certificato, il collegamento tra la patologia e lo stress lavorativo viene definito «verosimile», senza ulteriori elementi e spiegazioni.
A fronte di tale documentazione, il giudice – citando la giurisprudenza della Corte di cassazione (per esempio la sentenza 29047/2017) – ricorda che chi intende ottenere un risarcimento del danno per mobbing deve fornire prova del nesso di causalità, non potendo limitarsi a denunciare la semplice potenzialità lesiva del datore di lavoro.Un approccio rigoroso, non sempre seguito dalla giurisprudenza di merito, che dovrebbe disincentivare un utilizzo distorto delle consulenze tecniche d'ufficio, che non possono diventare strumenti per colmare eventuali lacune probatorie.