Contratti & contrattazione collettivaEditoriale

La contrattazione collettiva alla prova dell’inflazione

di Michele Tiraboschi

N. 25

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La questione salariale in Italia si sviluppa, almeno dal punto di vista della contrattazione collettiva, non tanto e non solo sul piano degli importi orari quanto piuttosto su quello dei tempi di reazione e di allineamento tra le buste paga e gli andamenti inflazionistici

Nel biennio 2022-23 i lavoratori italiani hanno subito una perdita netta del potere di acquisto di circa il 10 per cento. È quanto emerge dalla recente relazione annuale della Banca d’Italia relativa al 2023. Il dato, particolarmente significativo, si spiega con lo straordinario andamento inflazionistico, dovuto alle vicende belliche, che ha condizionato notevolmente l’andamento dei prezzi dei beni energetici. L’inflazione del 2023, difatti, si è attestata al 5,9 per cento come dato medio e a fronte di ciò, le retribuzioni minime stabilite dalla contrattazione collettiva, sempre secondo i dati di Banca di Italia, sono cresciute con tempi di reazione più lenti rispetto a quelli di altri Paesi europei.

Le cause del ritardo italiano sono principalmente tre. Di regola, la durata di vigenza di un contratto collettivo, secondo quanto concordato negli accordi interconfederali, è di tre anni, cioè un periodo lungo il quale rimane vigente quanto pattuito alla stipula e che (salvo casi particolari, come per il CCNL della metalmeccanica) non tiene conto delle vicende, talvolta eccezionali, che possono svilupparsi nel frattempo. In Belgio o in Francia, per fare un esempio, la vigenza di un contratto collettivo è di appena uno-due anni. In secondo luogo, non sono previsti – come non esistono neppure in Europa, dove solo un Paese su cinque è dotato di questi meccanismi – clausole generalizzate di indicizzazione automatica che nel corso della esecuzione del contratto collettivo garantiscono che i salari seguano l’andamento dei prezzi di consumo in modo automatico, senza la necessità di nuovi accordi tra le parti. Infine, è frequente che un contratto collettivo vada in ultra-vigenza, perché le parti sociali non trovano un accordo soddisfacente, prolungandosi così l’attesa per nuovi minimi contrattuali. Un’attesa che nel 2023 riguardava un numero molto elevato di lavoratori, secondo quanto riportato da Banca d’Italia: nel settore dei servizi di mercato, ad esempio, al 67,2 per cento dei lavoratori si applicava un contratto collettivo scaduto.

Lo scenario è notevolmente cambiato soltanto nella prima metà del 2024 quando, in una sorta di generale riscossa delle parti sociali in un momento di raccolta dopo la (abbondante) semina dell’anno precedente, sono stati rinnovati alcuni dei contratti collettivi più importanti, almeno in termini di lavoratori e aziende interessati, nel mercato del lavoro italiano. Nella prima metà dell’anno sono stati rinnovati una trentina di accordi, tra quelli firmati da Cgil Cisl e Uil, quando nell’intero 2023 erano stati in totale 44 (fuori dall’area di giurisdizione di Cgil, Cisl, Uil i rinnovi contrattuali del 2023 sono stati più di 150 per un totale di circa 200 CCNL rinnovati).

Nei primi tre mesi del 2024 le retribuzioni minime contrattuali sono cresciute complessivamente del 3,4 per cento, contro una inflazione che nel frattempo è scesa al 2 per cento. Il numero di lavoratori in attesa di un rinnovo contrattuale si è praticamente azzerato nel settore industriale e, sempre secondo Banca d’Italia, è sceso al 29,7 per cento in quello dei servizi – un dato che verosimilmente possiamo considerare ancora più basso alla luce del recente rinnovo del CCNL degli esercizi pubblici che riguarda oltre 600mila lavoratori secondo i dati Cnel-Inps.

Gli aumenti contrattuali calcolati sui profili professionali medi, si attestano all’incirca sui 170-200 euro complessivi (200 euro nel CCNL FIPE, 240 in nel CCNL Confcommercio, 170 nel CCNL Studi professionali 203 nell’Industria Alimentare) con una crescita percentuale sui minimi tabellari (che però non tengono conto di elementi consistenti come l’indennità di contingenza, il terzo elemento, gli scatti di anzianità e così via) che si attesta in doppia cifra in quasi tutti i settori (dal 10 al 22 per cento) senza contare le pur presenti erogazioni una tantum, volte a compensare eventuali periodi di vacanza contrattuale e/o la perdita del potere di acquisto. Il tutto a dimostrazione del fatto che la questione salariale in Italia si sviluppa, almeno dal punto di vista della contrattazione collettiva, non tanto e non solo sul piano degli importi orari quanto piuttosto su quello dei tempi di reazione e di allineamento tra le buste paga e gli andamenti inflazionistici.

È su questo punto che le parti sociali devono innanzitutto concentrare gli sforzi e la loro capacità negoziale. Alcune pratiche esistono già, come documentato anche dal X Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia pubblicato nelle scorse settimane. C’è il modello “a doppia pista salariale” del settore del legno-arredo (sia industria che piccola media impresa), che impegna le parti a incontrarsi a gennaio di ogni anno per definire gli incrementi dei minimi contrattuali relativi all’anno precedente sulla base del dato Ipca generale dell’anno precedente comunicato dall’Istat. Oppure c’è il modello adottato dal CCSL Stellantis che prevede che la parte economica del contratto duri soltanto due anni, anziché quattro come le parti normative e obbligatorie. Oppure il CCNL doppiatori che ha stabilito ex ante (diversamente dalle somme una tantum) l’erogazione di un elemento di garanzia parametrato all’indice Istat IFO da corrispondere al termine della vigenza contrattuale.

Un altro esempio, più consolidato e ormai noto agli operatori delle relazioni industriali, è infine quello, già richiamato sopra, del settore della metalmeccanica nel quale il contratto collettivo prevede una clausola di salvaguardia che àncora gli importi delle singole tranche all’andamento dell’indice IPCA. Proprio nel mese di giugno, quando ai lavoratori della meccanica sarà erogato la quarta tranche di aumento, saranno corrisposti 137 euro, cioè circa il 30 per cento in più quanto previsto in origine (32 euro in più, in termini nominali). Non pare un caso, a tal proposito, che la piattaforma sindacale unitaria delle sigle metalmeccaniche possa permettersi, a differenza di quanto accaduto in altre negoziazioni, di concentrare le proprie rivendicazioni su temi anche molto eterogenei e non solo direttamente collegati ai salari, cioè professionalità, formazione, orario di lavoro e partecipazione: tutte leve che, se adeguatamente sviluppate in chiave di produttività e qualità del lavoro, possono anche rendere più sostenibile per le imprese la rincorsa all’inflazione.

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