Legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile
Il Tribunale di Bologna, con sentenza del 19 maggio 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice disabile per superamento del periodo di comporto così come disciplinato dal Ccnl multiservizi.
Una lavoratrice adiva in giudizio il datore di lavoro e sulla scorta delle seguenti ragioni impugnava il licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogatole:
– sin dal 23 giugno 2015 risultava invalida civile al 70% a causa di diverse patologie;
– in aggiunta, dal 16 settembre 2020 le era stata riconosciuta una riduzione permanente della capacità lavorativa dal 34% al 73%;
– dal 2018 era stata costretta ad assentarsi a lungo sia per periodi di malattia, sia più nello specifico per ricoveri ospedalieri;
– i giorni di assenza dal lavoro per malattia erano da ricondursi alle diverse patologie sofferte e il licenziamento per superamento del comporto – peraltro senza alcuna preventiva comunicazione – era da ritenersi nullo in quanto in violazione alla Direttiva 2000/78/CE recepita dal Dlgs 216/2003;
– il licenziamento era altresì da ritenersi nullo in quanto discriminatorio considerando così attivabile la tutela di cui all'articolo 2, comma 1, del Dlgs 23/2015.
Si costituiva regolarmente in giudizio il datore di lavoro, asserendo tra l'altro, di non essere a conoscenza né dell'invalidità, né del giudizio di riduzione della capacità lavorativa, ritenendo legittimo il licenziamento in applicazione dell'articolo 51 del Ccnl di riferimento che, peraltro, non prevedeva nessuna differenziazione del computo dei giorni di malattia fra domiciliare e ospedaliera.
Il giudice, in primo luogo, dichiarando pacifico il superamento del periodo di comporto, ha sottolineato che parte della giurisprudenza di merito avalla la tesi della ricorrente secondo cui l'applicazione generalizzata della normativa della contrattazione collettiva, senza porre attenzione agli accorgimenti a tutela delle persone disabili, comporterebbe una discriminazione indiretta in violazione della normativa comunitaria già menzionata.Il giudice precisa, tuttavia, come lo stesso concordi con un differente orientamento giurisprudenziale secondo cui, con la disciplina dell'istituto dell'assenza per malattia e del periodo di comporto, si sia inteso contemperare l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro nel perdurare della malattia con l'interesse datoriale al mantenimento di personale attivo nell'organizzazione aziendale, senza che tale previsione, così interpretata, possa dirsi confliggente con i principi di rango costituzionale posti a tutela del diritto alla salute o determini trattamenti discriminatori fra soggetti affetti da malattie gravi e non.
Se ne dedurrebbe quindi che «l'interesse del lavoratore, anche disabile, a conservare il posto di lavoro deve quindi essere ponderato in relazione sinallagmatica con quello di datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che le assenze cagionano all'organizzazione aziendale» e tale ponderazione è assicurata dall'applicazione delle previsioni di cui alla contrattazione collettiva che, nel caso di specie, all'articolo 51 non distingue il periodo di comporto riconosciuto al lavoratore disabile da quello riconosciuto alla generalità degli altri lavoratori, né si ritiene che tale previsione negoziale contrasti con la direttiva 2000/78/CE.
A ciò si aggiunga che è risultato in atti:
– non contestato che il datore di lavoro non era a conoscenza dello stato di disabilità e della situazione di invalidità;
– che dalla documentazione prodotta del ricorrente solo genericamente si evinceva che «i giorni di assenza dal luogo di lavoro per malattia sono da ricondursi, con tutta evidenza, alle gravi numerose patologie» senza fornire il dettaglio o specifica allegazione della connessione delle assenze allo stato di handicap del lavoratore;
– non provato che alcune assenze fossero riconducibili alla disabilità, circostanza in ordine alla quale gravava sulla lavoratrice l'onere della prova, assolvibile eventualmente anche a mezzo di Ctu medico legale, neppure richiesta da parte ricorrente;
– il Ccnl applicato, come già precisato, non prevedeva differenziazione tra il computo dei giorni di malattia domiciliare da quella ospedaliera e che predetta in nessun modo può essere interpretabile nel senso voluto dalla ricorrente.
A fronte di tutto quanto sopra, il giudice ha ritenuto legittimo il licenziamento con compensazione delle spese di lite.