Rapporti di lavoro

Più permessi di lavoro nell’Europa dell’Est, l’Italia è penultima

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di Giuseppe Chiellino

L’Italia è il penultimo Paese dell’Unione europea per numero di permessi di soggiorno per lavoro rilasciati a cittadini extracomunitari, rispetto alla popolazione: 1,7 permessi ogni 10mila abitanti, contro una media Ue di quasi 13. Dietro l’Italia c’è solo la Grecia.

Sul totale dei permessi di soggiorno, 106mila nel 2020, l’Italia ne ha concessi meno del 10% per motivi di lavoro, al quintultimo posto, contro il 30% della media Ue. Quasi il 60% dei permessi rilasciati in Italia nel 2020 riguardano ricongiungimenti familiari. I dati Eurostat, rielaborati dalla Fondazione Moressa, mostrano che 10mila permessi per motivi di lavoro rilasciati nel 2020, sono, in termini assoluti, meno di quelli di Romania e Slovacchia, la cui popolazione è di molto inferiore a quella italiana. «Abbastanza sorprendenti - nota la Fondazione - sono i dati dei Paesi del gruppo di Visegrad, da sempre ostili all’accoglienza dei migranti»: la Polonia è la prima in assoluta nella Ue per permessi di lavoro (161mila) mentre l’Ungheria di Victor Orban ne ha concessi 32mila, il triplo dell’Italia ma con una popolazione complessiva pari a un sesto. La Repubblica Ceca è a 29mila e la Slovacchia a 12mila. Discorso a parte vale per la Germania, prima per permessi totali concessi nel 2020 (312mila) ma privilegiando i ricongiugimenti familiari.

Sono cifre che descrivono una realtà in totale contraddizione con la narrazione dominante negli ultimi anni, espressione del vero e proprio corto circuito in cui - non senza ipocrisie - è stato precipitato il Paese. Una fotografia che può essere estesa ai due decenni precedenti. «C’è sostanziale unanimità di giudizi sul fatto che, in tutti questi anni, sono davvero pochi i lavoratori stranieri approdati in Italia attraverso un canale ufficialmente preposto per l’ingresso dei migranti economici», scrivono i ricercatori dell’Ismu nell’ultimo rapporto sulle politiche migratorie presentato l’11 febbraio scorso.

Non è un caso che già dall’estate scorsa, con l’accelarazione della ripresa economica post-pandemia, molti settori economici abbiano accusato pesanti carenze di personale, dal turismo all’autotrasporto, dall’edilizia all’agricoltura, dalla ristorazione all’assistenza familiare. È un disallineamento frutto del decennio perso nel confronto sterile tra innocenza buonista e retorica dei muri, in assenza di una concreta gestione delle politiche migratorie e finendo per assecondare più o meno consapevolmente chi ha trasformato le migrazioni da tema economico e sociale in un’arma da agitare ogni volta che bisogna alimentare paure per raccattare consenso elettorale.

Tenere chiuse o quasi le porte per gli ingressi legali («l’opzione-zero, di cui l’Italia è diventata uno degli interpreti più fedeli» secondo la definizione dell’Ismu) alimenta inevitabilmente il mercato dei trafficanti di uomini e gli ingressi clandestini, con il paradosso che le traversate della speranza non si fermano, ma chi ce la fa ad arrivare non riesce più a rientrare in percorsi legali di integrazione e nella migliore delle ipotesi va a ingrossare le file di chi tenta la lotteria della richiesta di asilo. Nella peggiore, e più frequente, deve rassegnarsi a vivere nell’ombra e arrangiarsi.

Non solo. «Il sostanziale azzeramento degli ingressi programmati rappresenta una situazione del tutto incoerente con il ruolo dell’Italia», diventata attrattiva nello scenario migratorio internazionale, e secondo l’Ismu non tiene conto degli scenari demografici del Paese, che mettono a rischio il turnover generazionale delle forze di lavoro. Forse è giunto il momento di riaprire il confronto, ma senza pregiudizi e con tanto senso della realtà.

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