Contenzioso

Quando scatta il trasferimento di azienda

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a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nozione di trasferimento di azienda
Licenziamento per condanna penale
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro
Nozione di lavoro autonomo e subordinato
Periodo di comporto e ferie


Nozione di trasferimento di azienda

Cass. Sez. Lav. 23 ottobre 2018, n. 26808

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Sanlorenzo; Ric. U. S.r.l.; Controric. M.D.;

Trasferimento d'azienda - Mancata successione nel contratto di affitto di azienda - Irrilevanza - Sostituzione di fatto nella gestione dell'impresa - Sufficienza

La fattispecie del trasferimento di azienda di cui all'art. 2112 c.c. sussiste ogni qualvolta, rimanendo immutata l'organizzazione aziendale, vi sia soltanto la sostituzione della persona del titolare indipendentemente dallo strumento tecnico – giuridico adottato, essendo sufficiente, ai fini dell'integrazione delle condizioni per l'operatività della tutela del lavoratore, il subentro nella gestione del complesso dei beni ai fini dell'esercizio dell'impresa e la continuità nell'esercizio dell'impresa stessa, costituendo un indice probatorio di tale continuità l'impiego del medesimo personale e dei medesimi beni aziendali. È inoltre irrilevante che il mutamento sia realizzato in mancanza di vincoli contrattuali diretti tra cedente e cessionario.
NOTA
La Corte d'Appello di Ancona, decidendo sul reclamo proposto dalla società, ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che, accertando l'esistenza di una cessione di azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c. tra due società, aveva condannato la società cedente, in solido con la cessionaria, al pagamento di differenze retributive in favore della lavoratrice.
Nello specifico, la Corte di merito aveva confermato l'esistenza di una cessione di azienda tra le due società, «stanti l'identità di “locali, mezzi, personale, attività”, oltre che l'estrema brevità dell'interruzione del rapporto di lavoro della Mosca tra un datore di lavoro e il successivo, durata solo pochi giorni».
La società ha presentato ricorso per Cassazione contestando la decisione impugnata, tra l'altro, nella parte in cui ha ritenuto esistenti i presupposti per la configurabilità di una cessione di azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di impugnazione, affermando che la fattispecie del trasferimento di azienda regolata dall'art. 2112 c.c. ricorre tutte le volte che, rimanendo immutata l'organizzazione aziendale, vi sia soltanto la sostituzione della persona del titolare. Non rileva, dunque, lo strumento tecnico-giuridico adottato (nella specie, affitto d'azienda) essendo sufficiente, ai fini dell'integrazione delle condizioni per l'operatività della tutela del lavoratore, «il subentro nella gestione del complesso dei beni ai fini dell'esercizio dell'impresa e la continuità nell'esercizio dell'impresa stessa, costituendo un indice probatorio di tale continuità l'impiego del medesimo personale e l'utilizzo dei medesimi beni aziendali» (in questo senso, Cass. n. 12771/2012).
Peraltro, conclude la Corte, la fattispecie del trasferimento di azienda si configura anche nei casi in cui detto trasferimento non derivi dall'esistenza di un vincolo contrattuale tra cedente e cessionario (in questo senso, cfr. Cass. n. 21023/2007, Cass. n. 21278/2010 e Cass. n. 8460/2011).
La Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rigetto del ricorso.


Licenziamento per condanna penale

Cass. Sez. Lav. 30 ottobre 2018, n. 27657

Pres. Patti; Rel. Ponterio; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. B.D.;

Lavoro subordinato – Procedimento disciplinare – Sanzione conservativa – Condanna penale – Licenziamento disciplinare – Illegittimità licenziamento in quanto basato sui medesimi fatti già contestati

L'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare, che un'identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica
NOTA
La Corte d'Appello di Roma aveva confermato la decisione del giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice di lavoro a seguito dell'intervenuta condanna per peculato del lavoratore in sede penale, ma fondato sui medesimi fatti che, in epoca anteriore a tale condanna, erano stati sanzionati con un provvedimento meramente conservativo.
In particolare, il lavoratore aveva riscosso due bonifici destinati a clienti della banca per cui lavorava, incassando le relative somme, senza che fossero rinvenute in relazione a tali operazioni le cedole di riscossione dei bonifici e le firme di quietanza dei clienti. Tale condotta era stata sanzionata con otto giorni di sospensione. Successivamente alla condanna del dipendente nell'ambito del procedimento penale a suo carico, però, la società datrice di lavoro aveva avviato un nuovo procedimento disciplinare contestando l'appropriazione delle somme oggetto dei due bonifici e, all'esito del procedimento, aveva intimato il licenziamento per giusta causa.
La Corte d'Appello aveva ritenuto che vi fosse identità tra i fatti costitutivi della prima e della seconda sanzione e, conseguentemente, che il datore di lavoro avesse violato il principio del ne bis in idem avendo già consumato il suo potere sanzionatorio irrogando la prima sanzione.
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, tra l'altro e per quanto qui interessa, l'erroneità della decisione della Corte territoriale nella parte in cui la stessa aveva ritenuto che vi fosse identità tra i fatti alla base delle due contestazioni, dovendosi invece rilevare come nel primo caso fosse stata contestata la mera irregolarità contabile delle operazioni e la relativa condotta negligente del lavoratore, mentre nel secondo caso era stata contestata la condotta dolosa dell'appropriazione di denaro. Secondo la società datrice di lavoro, dunque, la condanna penale per peculato intervenuta successivamente alla prima sanzione costituiva un fatto nuovo.
La Cassazione ha respinto le censure della società e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale «L'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare, che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica».
Secondo la Cassazione, il giudizio relativo all'identità dei fatti posti a fondamento di due sanzioni disciplinari presuppone necessariamente un raffronto fra gli elementi di fatto e le circostanze di tempo, di luogo e di persona che hanno dato luogo alle contestazioni disciplinari. In caso di corrispondenza tra tali elementi sussiste l'identità del fatto che integra la preclusione connessa con il principio del ne bis in idem.
Nel caso di specie, ha proseguito la Suprema Corte, è stato correttamente rilevato dalla Corte territoriale che entrambe le contestazioni disciplinari avevano avuto ad oggetto l'appropriazione delle somme dei due bonifici, condotta di cui peraltro la società datrice di lavoro aveva rilevato sin da subito la rilevanza penale (proponendo anche la relativa denuncia). In tale contesto la condanna penale non poteva essere considerato un fatto nuovo, quanto piuttosto la veste penalistica della medesima condotta già contestata.
La sanzione espulsiva, dunque, non poteva che ritenersi illegittima in quanto la società datrice aveva contestato due volte i medesimi fatti in violazione del principio del ne bis in idem.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 25 ottobre 2018, n. 27102

Pres. D'Antonio; Rel. Calafiore; Ric. B.A.; Contr. I.;

Infortunio sul lavoro - Art. 2087 c.c. – Strumenti di protezione forniti dal datore di lavoro – Omessa vigilanza sull'utilizzo da parte del dipendente – Responsabilità del datore di lavoro – Sussistenza.

In tema di responsabilità ex art. 2087 c.c., il datore di lavoro, debitore dell'obbligo di sicurezza, deve provare l'assenza di colpa, dimostrando di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l'evento lesivo o provando che il fatto si è verificato per un comportamento anomalo o abnorme del lavoratore. Pertanto, in caso di infortunio sul lavoro, deve ritenersi accertata la responsabilità del datore di lavoro ogni qual volta il lavoratore non abbia utilizzato gli strumenti di protezione dei quali - seppure forniti dal datore di lavoro - non ne veniva imposto l'uso e il cui mancato utilizzo non può considerarsi atto abnorme del lavoratore, del tutto avulso dal normale processo produttivo.
Azione di regresso INAIL – Art. 11, dpr n. 1124/65 – Responsabilità civile del datore di lavoro – Reato perseguibile d'ufficio – Necessità – Assoluzione in sede penale del datore di lavoro – Irrilevanza.
Ai fini dell'azione di regresso dell'INAIL, non assume rilievo la circostanza che il datore di lavoro sia stato assolto in sede penale per il reato di lesioni colpose, potendo il giudice civile procedere ad autonomo accertamento. Infatti, in base all'art. 295 c.p.c., il giudizio instaurato dall'INAIL nei confronti del datore di lavoro, ex art. 11, dpr n. 1124/1965, per ottenere il rimborso di quanto corrisposto al lavoratore per effetto di un infortunio sul lavoro, non è soggetto a sospensione necessaria in attesa dell'esito del procedimento penale a carico del datore di lavoro per i medesimi fatti, giacché in applicazione dell'art. 654 c.p.p. la sentenza penale non può fare stato nei confronti dell'INAIL che non è parte del giudizio penale e che non era legittimato a costituirsi.
NOTA
La Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l'appello proposto dall'INAIL che aveva agito in regresso nei confronti di un datore di lavoro, in relazione alla rendita costituita in conseguenza di un infortunio sul lavoro.
A parere della Corte di appello, pur se il giudizio penale si era concluso con l'assoluzione del datore di lavoro, trattandosi di accertare la responsabilità in sede civile ex art. 2087 c.c., all'Istituto spettava di allegare e provare l'esistenza della obbligazione lavorativa e del danno nonché il nesso causale tra questo e la prestazione, mentre al datore di lavoro spettava la prova che il danno non fosse a sé imputabile, vale a dire di aver adempiuto al proprio obbligo di sicurezza.
Tanto premesso, nel caso sottoposto al suo esame, era stato accertato che il lavoratore si era procurato delle ustioni mentre effettuava delle operazioni di caricamento di un forno, senza indossare alcun indumento protettivo, che pure gli era stato messo a disposizione e che, solo dopo l'incidente, il sistema di caricamento dei forni era stato modificato con l'inserimento di un nastro trasportatore. A parere dei giudici di appello, quindi, non era stata offerta la prova di una efficace vigilanza sul rispetto delle misure di protezione da parte del lavoratore e la sua condotta non poteva considerarsi abnorme.
Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, l'erroneità della sentenza nella parte in cui non aveva adeguatamente considerato l'abnormità della condotta del lavoratore che non aveva utilizzato i mezzi di protezione, pur messi a disposizione da parte dell'azienda.
La Cassazione ritiene infondata la doglianza rilevando come, nel corso del giudizio di merito, fosse emerso che il lavoratore inseriva gli scarti di alluminio all'interno del forno senza indossare specifici indumenti di protezione, seppure forniti, dal datore di lavoro che non ne imponeva l'uso. Tale era l'ordinario modo di procedere del lavoratore e, solo dopo l'infortunio, il datore id lavoro si era munito di un nastro trasportatore per alimentare la bocca del forno. Pertanto la responsabilità della società ex art. 2087 c.c. doveva ritenersi accertata dal momento che il datore di lavoro non aveva provato il carattere abnorme della condotta del lavoratore, né di aver in concreto preteso l'osservanza delle misure infortunistiche.
Con ulteriore motivo, il datore di lavoro censura la sentenza di appello nella parte in cui non ha considerato che il legale rappresentante della società era stato assolto in sede penale. Anche tale doglianza viene respinta in quanto, secondo l'orientamento dei giudici di legittimità, non assume alcun rilievo, ai fini dell'azione di regresso, la circostanza che il datore di lavoro sia stato assolto in sede penale per il reato di lesioni colpose. Invero, in base all'art. 295 c.p.c., il giudizio instaurato dall'INAIL nei confronti del datore di lavoro, ex art. 11, dpr n. 1124/65, per ottenere il rimborso di quanto corrisposto al lavoratore per effetto di un infortunio sul lavoro, non è soggetto a sospensione necessaria in attesa dell'esito del procedimento penale a carico del datore di lavoro per i medesimi fatti, giacché in applicazione dell'art. 654 c.p.p. la sentenza penale non può fare stato nei confronti dell'INAIL che non è parte del giudizio penale e che non era legittimato a costituirsi (Cass. 25 agosto 2004, n. 16874). Inoltre, in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, ai fini dell'insorgenza del credito dell'INAIL nei confronti della persona civilmente obbligata, è necessario che il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio, ma l'accertamento può avvenire sia in sede penale che in sede civile (Cass. 5 febbraio 2015, n. 2138).
Ebbene, nel caso in esame, a parere della Cassazione, correttamente la Corte di appello aveva proceduto ad un autonomo accertamento della astratta configurabilità della fattispecie di reato corrispondente alla violazione dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. ragione per cui il ricorso viene integralmente respinto.

Nozione di lavoro autonomo e subordinato

Cass. Sez. Lav. 15 ottobre 2018, n. 25711

Pres. Nobile; Rel. Garri; Ric. G.B.O.; Controric. F.M.N.S.ET.

Lavoro - Lavoro subordinato - Lavoro autonomo - Riconducibilità del rapporto all'uno o all'altro degli schemi predetti - Accertamento degli elementi caratterizzanti la prestazione lavorativa - Necessità - “Nomen iuris” utilizzato dalle parti - Rilievo - Limiti.

Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non è agevolmente apprezzabile a causa delle peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, il nomen iuris adoperato dai contraenti, sfornito di un valore assoluto e dirimente, non può essere del tutto pretermesso e rileva come elemento sussidiario.
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte puntualizza i criteri utili per distinguere un rapporto di lavoro subordinato da uno autonomo, chiarendo la portata qualificatoria della volontà delle parti.
Precisamente, un lavoratore agiva in giudizio per far accertare la natura subordinata del proprio contratto di lavoro a progetto nonché l'illegittimità del termine ad esso apposto.
Sia il Tribunale che la Corte territoriale respingevano la pretesa, statuendo che le modalità di svolgimento del rapporto giudizialmente accertate erano compatibili con la tipologia contrattuale del lavoro a progetto e che «era ben individuato il risultato da conseguire che era, necessariamente, correlato all'attività ed ai fini» del datore.
Contro tale pronuncia della Corte d'Appello, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, violazione degli artt. 2094, 2222 e 2697 c.c., in quanto i Giudici di merito avrebbero trascurato di analizzare - ai fini della corretta qualificazione del rapporto di lavoro - fondamentali «indici presuntivi della subordinazione»: l'obbligo di osservare un orario predeterminato, le modalità di calcolo della retribuzione (a tempo e non a prestazione), il controllo esercitato sulle modalità in cui era resa la prestazione, l'assenza di rischio imprenditoriale.
Colla sentenza in commento, la Suprema Corte rigetta il gravame, chiarendo, anzitutto, che ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non è agevolmente apprezzabile a causa delle peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione. Ciò - soggiunge la Cassazione - vale a maggior ragione nel caso in cui le parti abbiano convenuto un determinato assetto del rapporto tra loro intercorrente, nel qual caso è necessario dimostrare che l'essenziale elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nel concreto svolgimento del rapporto medesimo.
Ebbene, ciò chiarito - a parere del Supremo Collegio - se è pur vero che la formale qualificazione delle parti in sede di conclusione del contratto individuale non impedisce di accertare il comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto di lavoro al fine della conseguente qualificazione giuridica dello stesso come lavoro autonomo ovvero lavoro subordinato, tuttavia «il nomen iuris adoperato dai contraenti, sfornito di un valore assoluto e dirimente, non può essere del tutto pretermesso e rileva come elemento sussidiario, quando si riveli difficile tracciare il discrimine tra l'autonomia e la subordinazione».

Periodo di comporto e ferie

Cass. Sez. Lav. 29 ottobre 2018, n. 27392

Pres. Bronzini; Rel. Marotta; Ric. P.I.; Controric. L.I.E.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Comporto - Mutamento del titolo dell'assenza da malattia a ferie - Ammissibilità - Fondamento - Interesse del lavoratore a non superare il periodo di comporto - Esercizio del potere datoriale di scelta delle ferie - Condizioni e limiti - Fattispecie.

Il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia; in tali casi non sarebbe costituzionalmente corretto precludere il diritto alle ferie in ragione delle condizioni psico-fisiche inidonee al loro pieno godimento - non potendo operare, a causa della probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del comporto, il criterio della sospensione delle stesse e del loro spostamento al termine della malattia - perché si renderebbe così impossibile la effettiva fruizione delle ferie. Spetta poi al datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, di dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo di dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto con la conseguente condanna della Società alla reintegrazione ed al risarcimento del danno.
La Corte d'Appello, in riforma della pronuncia del Tribunale in sede di opposizione, ed a conferma della decisione del Tribunale in sede sommaria, accoglieva la domanda proposta dal lavoratore in quanto ha ritenuto che, da un lato, il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto e, dall'altro lato, che la Società ha immotivatamente respinto la richiesta di ferie del lavoratore.
La Società proponeva ricorso per Cassazione, assumendo che «non è configurabile alcun obbligo di concessione delle ferie allorquando il lavoratore possa usufruire di altre regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto, e in particolare del collocamento in aspettativa, ancorché non retribuita».
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando la pronuncia della Corte d'Appello. Il giudice di legittimità ha infatti rilevato che «pur non essendo il datore di lavoro tenuto ad accogliere una richiesta di ferie tempestivamente avanzata, essendo quest'ultima rimessa ad una sua valutazione nell'ambito del bilanciamento di esigenze contrapposte, tuttavia, al fine di evitare il licenziamento, e quindi la perdita del posto di lavoro, solo esigenze organizzative effettive e concrete possono, in ossequio a clausole generali della correttezza e buona fede, giustificare un diniego e così da far prevalere l'interesse aziendale all'interesse del lavoratore di godere di giorni di ferie, scongiurando così la maturazione del comporto». Nella specie, la Corte d'Appello ha correttamente applicato i principi sopra richiamati e ha rilevato che il diniego di concessione delle ferie non avesse alcuna giustificazione.
Pertanto, confermando la pronuncia del giudice di secondo grado, la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso della Società valorizzando gli obblighi di buona fede e correttezza cui sono tenute le parti. Tali obblighi trovano, infatti, la relativa formulazione positiva nell'art. 1175 cod. civ., a tenore del quale il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, ed un ulteriore supporto nel successivo art. 1375 cod. civ. ove si sancisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede. Privo di rilievo, inoltre, è il fatto che il lavoratore fosse a conoscenza di avere superato il periodo di comporto perché comunque sussiste la violazione del principio prima ricordato che costituisce un limite all'esercizio del potere del datore di lavoro.

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