Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Diritto alla fruizione dei buoni pasto
Licenziamento per giusta causa
Somministrazione irregolare
Permessi ex legge 104
Sulla validità di rinunzie e transazioni

Diritto alla fruizione dei buoni pasto

Cass. Sez. Lav. 21 ottobre 2020, n. 22985

Pres. Tria; Rel. Bellè; Ric. A. L.; Controricorrente M. d. G.

Buoni pasto – Natura assistenziale e non retributiva – Non fruizione della pausa pranzo di fatto rinunciata – Pagamento controvalore pecuniario – Esclusione

Il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell'orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa.
NOTA
La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Roma, che respingeva la richiesta del lavoratore al pagamento in suo favore del "controvalore pecuniario" dei buoni pasto giornalieri non percepiti nel periodo dal 2001 al 2005, oltre al risarcimento del danno, malgrado lo stesso dipendente avesse rinunciato, con il consenso del datore di lavoro, alla propria pausa pranzo per cinque giorni alla settimana.
La Corte territoriale riteneva che "l'articolo 4 del CCNL di riferimento condizionava il riconoscimento del buono pasto all'effettuazione della pausa pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato" e che "la circolare ministeriale del 10.2.1998, nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio".
Il dipendente impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, dell'art. 22 della L. n.724 del 1994, dell'art. 8 del Decreto Legislativo n. 66 del 2003, dell'art. 2, comma 11, della L. n. 550 del 1995, dell'art. 3, comma 1, della L. n.334 del 1997, dell'art. 52 del Decreto Legislativo n. 29 del 1996, della Circolare 10 febbraio 1998 ed inoltre dell'Accordo Sindacale 30.4.1996, integrato dall'Accordo 12.12.1996, nonché' dell'art. 19, comma 4 CCNL (orario di lavoro) e dell'art. 7, comma 1 CCNL 12.1.1996.
La Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore, ricordando che il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, e "esso, data tale natura, dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il riconoscimento; in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita".
La Corte di Cassazione ricorda che nella fattispecie in esame "i presupposti del diritto sono fissati dall'articolo 4, comma 2, dell'accordo collettivo sul riconoscimento dei buoni pasto, secondo cui "il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall'articolo 19, comma 4, del CCNL, all'interno della quale va consumato il pasto"".
In considerazione di tale natura, qualora il CCNL applicato riconnetta tale diritto ad una pausa destinata al pasto, esso sorge solo se la pausa venga realmente effettuata.
La Suprema Corte precisa che "nel caso di specie è pacifico che la pausa pranzo non sia stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice, evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio, la prestazione di lavoro", e, dunque, "in mancanza di pause, non sono integrati gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione".
Conclusivamente il ricorso del lavoratore viene respinto.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. ord. 21 ottobre 2020, n. 22988

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; Ric. C.P; Controric. P. I.

Licenziamento - Giusta causa - Fattispecie: direttore omette segnalazione operazioni sospette - Proporzionalità - Sussiste

È legittimo il licenziamento per giusta causa del direttore dell'ufficio postale che abbia autorizzato l'esecuzione di una serie di operazioni sospette riguardanti il prelievo di ingenti somme di denaro, omettendo di attivare la procedura di segnalazione prescritta dal manuale antiriciclaggio e antiterrorismo adottato dal datore di lavoro. Si tratta di una condotta gravemente lesiva del vincolo fiduciario in quanto ha finito per ledere interessi dell'intera collettività impedendo alla società di intermediazione finanziaria, quale è la società Poste Italiane, di svolgere le attività segnalazione delle operazioni sospette.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Napoli aveva rigettato il reclamo proposto da un lavoratore avente ad oggetto la pronuncia del Tribunale di Nola che, confermando l'esito della fase sommaria, aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato dalla datrice di lavoro.
Al ricorrente era stato contestato di avere autorizzato l'esecuzione di una serie di operazioni sospette riguardanti il prelievo di ingenti somme di denaro ad opera di esponenti di una società terza, omettendo di attivare la procedura di segnalazione prescritta dal manuale antiriciclaggio e antiterrorismo adottato dalla datrice di lavoro.
In particolare, la Corte d'Appello rilevava che l'omessa segnalazione costituiva un gravissimo inadempimento degli obblighi gravanti sul lavoratore, quale direttore dell'ufficio. Lo stesso, con la sua condotta, ha, infatti, permesso diverse volte e, per somme ingenti, in un solo giorno, in poche ore, ai legali rappresentanti della società terza di prelevare denaro in contanti, così compiendo una serie di irregolarità e violazioni di legge, di regolamenti e di obblighi di servizio, ripetute nel tempo, con notevole danno d'immagine alla società datrice di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso lamentando, tra il resto, che la Corte d'Appello non aveva valutato la proporzionalità della sanzione rispetto agli obblighi posti dalla normativa antiriciclaggio e che la sua condotta è stata coerente con altre tenute in passato da altri lavoratori, il cui modus operandi era conosciuto dalla datrice di lavoro e avallato fino a qual momento.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sostenendo che la Corte di merito avesse adeguatamente motivato il fatto che i precedenti portati dal ricorrente a fondamento della correttezza della sua condotta fossero diversi ed inoltre che avesse individuato esattamente gli elementi che avrebbero dovuto indurre le ragioni di grave sospetto di riciclaggio e la riconducibilità di tali elementi a quelli che, secondo la normativa regolamentare interna, avrebbero imposto al ricorrente l'obbligo di attivare la procedura prevista dal manuale.
Con riferimento alla censura relativa al mancato rispetto del principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione, i giudici di legittimità hanno ricordato che lo stesso «comporta che il giudice deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa». In tale contesto, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'Appello ha correttamente evidenziato che «si era trattato di una condotta omissiva reiterata; che l'archiviazione del procedimento penale per il reato di associazione per delinquere non poteva incidere sull'autonomo accertamento dei fatti in sede civile; che la condotta del lavoratore era stata provata ed era gravemente inosservante di precisi obblighi, come precisati dalle disposizioni aziendali, nonché degli artt. 2104 e 2105 cod. civ. ed integrava la fattispecie del contratto collettivo che contempla il licenziamento "per irregolarità, trascuratezza o negligenza, ovvero inosservanza di leggi o di regolamenti o degli obblighi di servizio dalle quali sia derivato pregiudizio alla sicurezza ed alla regolarità del servizio con gravi danni alla società o a terzi…"».
La Corte ha, quindi, rigettato il ricorso escludendo l'ipotesi di ricondurre la fattispecie a mera inosservanza di una disposizione di servizio qualsiasi, così come prospettata dal ricorrente, che tuttavia non aveva tenuto in debito conto il tipo di regole violate, i valori e gli interessi da queste presidiate, nonché l'elevato grado di fiducia che la società doveva riporre nei suoi dipendenti, tanto più se preposti a unità organizzative di rilievo, come un Ufficio Postale.

Somministrazione irregolare

Cass. Sez. Lav. 13 ottobre 2020, n. 22066

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. A.I.S.P.A.; Controric. G.K.;

Lavoro subordinato – Somministrazione irregolare – Costituzione del rapporto in capo all'utilizzatore – Applicabilità del principio della irriducibilità della retribuzione – Esclusione

Non si applica il principio di irriducibilità della retribuzione nel caso in cui il lavoratore in somministrazione ottenga il riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nei confronti dell'utilizzatore. In tal caso, infatti, si verifica la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro che implica un adeguamento della obbligazione lavorativa in relazione all'assetto organizzativo disposto dalla parte già utilizzatrice della prestazione, con conseguente applicazione del trattamento economico e normativo sancito dalla disciplina legale e collettiva in vigore presso il nuovo datore.
NOTA
Nel caso di specie il lavoratore ricorrente aveva impugnato dinnanzi al Tribunale di Milano il contratto di lavoro somministrato in essere con la società datrice di lavoro, richiedendo la sussistenza di un rapporto di lavoro con la società utilizzatrice e la condanna di quest'ultima al pagamento delle relative spettanze retributive. A seguito dell'accoglimento di tali domande il lavoratore proponeva ricorso al Tribunale di Busto Arsizio affinché la retribuzione dovutagli fosse parametrata su quella applicata dall'agenzia di somministrazione con relativa condanna dell'utilizzatrice al risarcimento del danno consistente nelle connesse differenze retributive (tra la retribuzione più bassa applicata dall'utilizzatrice e quella maggiore applicata dall'agenzia di somministrazione). Il Tribunale di Busto Arsizio respingeva tale richiesta ma, successivamente, tale decisione veniva riformata in secondo grado, con condanna della società utilizzatrice ad applicare la retribuzione prevista dall'agenzia di somministrazione in virtù del principio dell'irriducibilità della retribuzione e della considerazione per cui l'utilizzatrice era subentrata nel rapporto di lavoro, a seguito della dichiarazione di irregolarità della somministrazione precedentemente in essere, senza che ciò comportasse alcuna altra modifica degli ulteriori elementi contrattuali.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società utilizzatrice sostenendo, in estrema sintesi, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere applicabile alla fattispecie in esame il principio dell'irriducibilità della retribuzione.
La Suprema Corte ha accolto tale censura e cassato la sentenza.
In particolare la Corte di Cassazione ha rilevato che «nel momento in cui la struttura trilatera del rapporto viene meno per effetto della irregolarità del contratto di somministrazione giudizialmente accertata, appare consequenziale che il soggetto il quale sia stato utilizzatore della prestazione del lavoratore, sia libero di gestire il rapporto di lavoro in autonomia secondo le regole che rinvengono applicazione nell'ambito dell'assetto organizzativo aziendale in cui la prestazione del lavoratore viene ad inserirsi». Ciò in quanto non è sostenibile, secondo la Suprema Corte, che l'assetto dato al rapporto dal somministratore sia da ritenersi immutabile e intangibile da parte dell'utilizzatore una volta rilevata l'irregolarità della somministrazione, considerato che a seguito di tale dichiarazione si viene a costituire tra lavoratore e utilizzatore un rapporto di lavoro ordinario, diverso dal precedente - trilatere e finalizzato alla somministrazione del lavoratore. Ciò comporta l'applicabilità del trattamento economico e normativo sancito dalla disciplina legale e collettiva in vigore presso il nuovo datore di lavoro.

Permessi ex legge 104

Cass. Sez. Lav. ord. 26 ottobre 2020, n. 23434

Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; Ric. GN S.r.l..; Controric. G.T.;

Permessi ex L. 104/92 - Utilizzo per finalità estranee allo scopo - Abuso del diritto - Sussistenza

Il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del permesso previsto dall'art. 33 L. 104/92, in coerenza con la funzione dello stesso, ossia l'assistenza del familiare disabile, integra un abuso del diritto in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.
NOTA
La fattispecie attiene al licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per abuso dei permessi di cui alla Legge 104/92, che aveva utilizzato i giorni di permesso anche per frequentare dei corsi di formazione sul malato neurologico tesi ad una migliore assistenza del padre, affetto dal morbo di Alzheimer.
La Corte di Appello di Trento, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, osservando che sulla base della relazione dell'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro non poteva ritenersi raggiunta la prova dell'abuso di tre permessi ex L. 104/92, poiché era risultato che la lavoratrice, nelle giornate di permesso, «si era recata presso l'abitazione del padre affetto dal morbo di Alzheimer per un numero di ore ben oltre quelle del suo orario di lavoro (e, comunque, prevalente, volendo escludere l'incontro di formazione/informazione sul malato neurologico del pomeriggio del 27 ottobre presso un centro universitario)».
Non risultava, quindi, che la dipendente avesse svolto attività estranee all'interesse del familiare assistito.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione la società, con due motivi di ricorso.
Con il primo motivo ha contestato l'interpretazione fornita dalla Corte territoriale dell'art. 33, L. 104/92, «avendo trascurato che la disposizione posta a tutela dei portatori di handicap impone, al familiare, attività assistenziali in senso lato sanitario o, comunque, per attività di sostegno, che si pongano in relazione diretta con le esigenze assistenziali e di vita del disabile, non potendo essere concessi permessi volti a soddisfare unicamente esigenze personali dell'assistente o del coniuge del familiare disabile, come la partecipazione ad un corso di formazione relativo alla malattia da cui è aggetto il disabile».
Con il secondo motivo di ricorso ha contestato la violazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2119 c.c. Il lavoratore è infatti tenuto ad adottare comportamenti rispettosi dei doveri di correttezza e buona fede derivanti dal contratto di lavoro, astenendosi quindi dall'utilizzare i permessi di cui alla L. 104/92 per «[…] partecipare ad incontri/conferenze aventi ad oggetto la malattia che ha colpito il disabile».
La Corte di Cassazione, trattando congiuntamente i due motivi di ricorso, ha concluso per il rigetto dello stesso.
La Suprema Corte ha infatti ricordato che i permessi di cui alla Legge 104/92 sono riconosciuti al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, «senza che il dato testuale e la "ratio" della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza» (Cass. n. 1394 del 2020, Cass. n. 21529 del 2019, Cass. n. 8310 del 2019, Cass. n. 17968 del 2016, Cass. n. 9217 del 2016 e Cass. n. 8784 del 2015). In particolare, l'assistenza al disabile può essere prestata con modalità e forme diverse, «anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, o pratiche di qualsiasi genere, purché nell'interesse del familiare assistito» (Cass. Ord. n. 23891 del 2018).
Al contrario, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto, ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo, nel caso in cui tale beneficio venga utilizzato per attendere ad esigenze estranee agli interessi del parente disabile.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha accertato che la lavoratrice aveva utilizzato un numero di ore ben oltre quelle del suo orario di lavoro all'assistenza e all'accudimento del padre e che, «se anche non si riteneva di includere nel concetto di "assistenza in senso lato" l'incontro di formazione/informazione sul malato neurologico frequentato nel pomeriggio del giorno 27 ottobre» non si poteva in ogni caso ritenere provato che la stessa «avesse utilizzato i permessi per svolgere solo o prevalentemente attività nel proprio interesse».
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società, escludendo che si fosse verificato un utilizzo dei permessi «in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza, avendo accertato - in ogni caso - la prestazione di effettiva e prevalente assistenza a favore del padre disabile».

Sulla validità di rinunzie e transazioni

Cass. Sez. Lav. 23 Ottobre 2020, n. 23385

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; PM Celeste; Ric. D.A.; Controric. C.M.V. S.p.a.

Rinunzie e transazioni - Validità - Consapevolezza dei diritti - Volontà abdicativa e transattiva - Necessità

Rinunzie e transazioni - Contenuto/Oggetto - Identificazione - Testo letterale - Insufficienza - Altri elementi idonei a chiarire il contenuto - Anche non scritti - Necessità
Rinunzie e transazioni - Volontà abdicativa - Porre fine all'incertus litis eventus - Necessità - Indagine - Testo letterale - Insufficienza - Formule esplicite/standard - Non necessità – Comportamento delle parti - Volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa – Sufficienza – Reciproche concessioni – Equilibrio economico - Non necessità
In materia di rinunzie e transazioni, con riguardo alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, la dichiarazione del lavoratore può assumere il suddetto valore sempre che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi.
L'oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, bensì in rapporto all'oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno iniziato a comporre attraverso reciproche concessioni in relazione alle posizioni assunte dalle stesse non solo nella lite in atto ma anche in vista di una controversia che possa insorgere tra loro e che esse intendono prevenire e il giudice di merito, al fine di indagare sulla portata e sul contenuto transattivo di una scrittura negoziale, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell'accordo, ancorchè non richiamati dal documento, senza che ciò comporti violazione del principio in base al quale la transazione deve essere provata per iscritto.
In tema di interpretazione generale dei contratti, poi, qualora le espressioni letterali utilizzate non siano sufficienti per ricostruire la comune volontà delle parti, occorre avere riguardo all'intento comune che esse hanno perseguito. In riferimento, quindi, alla interpretazione del contratto di transazione, per verificare se sia configurabile tale negozio ed il suo effettivo contenuto, occorre indagare innanzi tutto se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all'incertus litis eventus, senza tuttavia che sia perciò necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, nè che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può anche essere desunta da qualsiasi elemento che esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa. Quanto, infine, ai requisiti dell'aliquid datum e dell'aliquid retentum, essi non sono da rapportare agli effettivi diritti delle parti, bensì alle rispettive pretese e contestazioni e, pertanto, non è necessaria l'esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni
NOTA
Un lavoratore veniva nominato amministratore delegato in data 22.12.1995 della società C., presso la quale era impiegato con qualifica di dirigente (mansioni di Direttore Generale), senza però che fosse determinato il compenso per questa specifica carica. Cessato l'incarico, il lavoratore si rinvolgeva quindi all'autorità giudiziaria chiedendo la liquidazione del compenso per la carica ricoperta, indicando come parametro di quantificazione il compenso che nel 1998 il Consiglio aveva determinato in favore del nuovo amministratore delegato.
Il Tribunale di Venezia prima e la Corte di appello poi, rigettavano la domanda attorea ritenendo che la questione del compenso fosse stata conciliata con un accordo transattivo intervenuto tra le parti in data 17.9.1998, nonostante il testo letterale dell'accordo si presentasse tutt'altro che chiaro sul punto.
In particolare i giudici di seconde cure, condividendo il principio secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, non deve essere valorizzato solo il dato letterale dell'accordo, ma anche altri elementi quali la condotta posteriore (ai fini di individuare l'intenzione comune delle parti e lo scopo che le stesse avevano perseguito con l'accordo) avevano ritenuto, dopo avere ripercorso tutte le vicende relative ai ruoli svolti dal lavoratore presso la società, culminati con l'accordo conciliativo raggiunto per la risoluzione anticipata del rapporto al 31.12.1998, che la transazione del 17.9.1998 avesse posto fine in modo definitivo non solo al rapporto dirigenziale, ma a tutte le questioni riguardanti anche il ruolo svolto da amministratore delegato, compresa la questione relativa al compenso.
Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per cassazione affidato ad un unico articolato motivo consistente in due diverse censure. Innanzitutto, secondo il ricorrente i Giudici di merito avevano immotivatamente svalutato gli elementi letterali risultanti dall'accordo intercorso tra le parti in data 17.9.1998: nell'accordo le parti avevano utilizzato i termini solo al singolare e richiamato il solo rapporto di lavoro dirigenziale come Direttore generale, mentre alcun riferimento era stato fatto all'incarico di Amministratore Delegato e alcuna rinuncia ai relativi compensi era mai stata formulata.
Inoltre, sempre nella ricostruzione del ricorrente, la Corte territoriale, del tutto erroneamente, pur in presenza di dati letterali che riguardavano il solo ruolo di Direttore generale, che dovevano costituire il primo criterio esegetico con esclusione degli altri, aveva voluto individuare la volontà dei contraenti attraverso il comportamento delle parti, così violando il principio del "gradualismo" (e della necessaria interpretazione preliminare dell'atto negoziale) e senza fornire una compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. ritiene il ricorso infondato. La sentenza si rivela particolarmente interessante perché ripercorre, nel suo iter motivazionale, alcuni principi basilari in tema di interpretazione degli atti di abdicativi e conciliativi riguardanti i reciproci diritti derivanti dal rapporto di lavoro
E infatti, innanzitutto, secondo la Corte, in materia di rinunzie e transazioni, con riguardo alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, la dichiarazione del lavoratore può assumere il suddetto valore sempre che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Proprio per questo motivo l'oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, bensì in rapporto all'oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno iniziato a comporre attraverso reciproche concessioni in relazione alle posizioni assunte dalle stesse non solo nella lite in atto ma anche in vista di una controversia che possa insorgere tra loro e che esse intendono prevenire. Il giudice di merito, al fine di indagare sulla portata e sul contenuto transattivo di una scrittura negoziale, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell'accordo, ancorché non richiamati dal documento, senza che ciò comporti violazione del principio in base al quale la transazione deve essere provata per iscritto.
A questo principio specifico in tema di interpretazione di rinunzie e transazioni si affiancano altri principi di carattere generale e relativi all'interpretazione generale dei contratti, secondo cui, qualora le espressioni letterali utilizzate non siano sufficienti per ricostruire la comune volontà delle parti, occorre avere riguardo all'intento comune che esse hanno perseguito. In riferimento, quindi, alla interpretazione del contratto di transazione - secondo la S.C. - per verificare se sia configurabile tale negozio ed il suo effettivo contenuto, occorre indagare innanzi tutto se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all'incertus litis eventus, senza tuttavia che sia perciò necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, né che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può anche essere desunta da qualsiasi elemento che esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa.
Inoltre, la S.C. evidenzia come per ciò che riguarda i requisiti dell'aliquid datum e dell'aliquid retentum, essi non sono da rapportare agli effettivi diritti delle parti, bensì alle rispettive pretese e contestazioni e, pertanto, non è necessaria l'esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni.
Ebbene sulla base di queste doverose premesse, la S.C. ritiene, in riferimento al caso posto alla sua attenzione, che la Corte territoriale abbia correttamente interpretato il negozio abdicativo del 17.9.1998. E, infatti, i Giudici di appello hanno prima di tutto evidenziato una certa discrasia tra il dato letterale della conciliazione, che riguardava la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, e tutto il contesto dello stesso da cui traspariva la non indifferenza rispetto alla fase del rapporto in cui il lavoratore era stato amministratore delegato, in quanto il legame tra i due ruoli (quello cioè di amministratore delegato e quello di direttore generale) era stato considerato rilevante nelle intercorse reciproche concessioni. Proprio questa evidente discrasia, secondo la S.C., dimostra come non sia avvenuta alcuna lesione, da parte della Corte territoriale, del principio di gradualismo nell'uso dei canoni interpretativi del contratto perché il mero significato letterale ed il collegamento tra le varie clausole erano insufficienti alla individuazione del comune intento delle parti. Del tutto correttamente, pertanto, la comune volontà è stata ricostruita dai Giudici di merito sulla base del senso letterale delle espressioni usate e della ratio del precetto contrattuale desumibile anche dalla loro condotta posteriore.
In conclusione, secondo la S.C., la decisione della Corte di merito, di ritenere che l'accordo risolutivo riguardasse, oltre al periodo in cui il lavoratore aveva rivestito la carica di Direttore generale, anche il periodo in cui era stato Amministratore delegato, sottolineando, per avvalorare tale convincimento, sia aspetti logico-giuridici (riconoscimenti di un incentivo all'esodo con l'aggiunta di una quota di TFR riguardante tutto il rapporto; la disponibilità di benefits aggiuntivi; rinuncia al compenso di amministratore delegato per l'anno 1996, la circostanza che il C.d.A., nella seduta del 30.9.1998, ratificando l'accordo conciliativo, aveva espresso un apprezzamento per l'opera svolta nei "ruoli dallo stesso ricoperti"), sia letterali (perché nell'accordo le parti si erano comunque obbligate a rinunciare espressamente ad ogni azione promossa o promuovenda e a non avere più nulla a pretendere per alcun titolo, ragione o causa, l'una dall'altra in ragione della transazione) si presenta giuridicamente corretta e logicamente congrua, sottraendosi pertanto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità.

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